di Santiago Gascó Altaba. Spero che nessuno abbia l’audacia di ipotizzare che la sofferenza femminile è una fonte di preoccupazione minore della sofferenza maschile. L’immagine di una donna sofferente è l’icona d’obbligo di qualsiasi campagna umanitaria che si degni di essere chiamata tale. Una donna sofferente commuove ed impietosisce. E se bambino deve essere, sia preferibilmente una bambina. Tra poco sarà esecutivo in Spagna l’attuazione di un redditto di cittadinanza universale, denominato “Ingreso minimo vital”. “Giustizia sociale”. Pubblicità: una madre e un neonato. Tutti sappiamo che non esistono uomini in emergenza sociale. “Migrant mother“(La madre profuga), la foto simbolo della Grande crisi del 1929, una madre con dei bambini piccoli, è un classico esempio di esclusione programmata e intenzionale dell’uomo, del padre, allo scopo di riscuotere maggiore solidarietà.” (La grande menzogna del femminismo, pp. 949, 966). L’assenza del padre fu decisa deliberatamente.
A chi interessa la sofferenza maschile? Malgrado il titolo di questo articolo suggerisca una risposta negativa, bisogna onestamente riconoscere che la sofferenza maschile importa, senza dubbio in minor misura di quella femminile, ma importa. Dire il contrario sarebbe semplicemente falso. Centinaia di film bellici di denuncia, ad esempio, raccontano questa sofferenza, e ciò è innegabile. In realtà la domanda voleva essere un’altra, più lunga, troppo lunga per un titolo. Riformulata: A chi interessa la sofferenza maschile provocata dalle donne? Uomini denunciati falsamente che non esistono, vittime distrutte da aggressioni con acido invisibilizzati dai media, vittime di abusi e aggressioni sessuali durante l’infanzia completamente cancellati, e una massa abbondante di ex e di papà separati devastati dalle amorevoli ex-consorti, che sono solo dei rompiscatole e dei patriarcali autoritari, compresi i suicidi, incapaci di sopportare la perdita dei propri privilegi.
Questo è il messaggio che arriva da Hollywood.
Una sofferenza innominata e innominabile che si protrae dagli inizi del femminismo, da quando le femministe della prima ondata (quelle “buone”) alla fine dell’Ottocento si rifiutavano espressamente di proteggere, alla pari delle donne e delle bambine, i minori maschi vittime di abusi e aggressioni sessuali. Una sofferenza invisibile e invisibilizzata che ha un comune denominatore: il protagonismo femminile come causa. Dunque l’invisibilizzazione non riguarda unicamente gli uomini come vittime sofferenti, ma anche le donne come autrici, causa di questa sofferenza. Una sofferenza che deriva da un sistema di condotte e normative – che per analogia alla teoria femminista possiamo pacificamente definire Matriarcato – che autorizza le donne ad agire ingiustamente (e spesso impunemente) a danno degli uomini. A mio avviso il film The Life of David Gale, che ho già trattato in un altro articolo, è emblematico in questo senso. È un film-denuncia contro la pena di morte. Questa è la trama del film, tutto il resto serve solo di contorno a questa trama. Le numerose tragedie e ingiustizie che colpiscono il protagonista (uomo) sono sorvolate dalla regia, non meritano di diventare la trama del film. 1) Aggressione sessuale: malgrado i diversi rifiuti di Gale e il sua condizione, sotto gli effetti dell’alcool, gli viene imposto contro volontà un atto sessuale, in una dinamica predatoria (inseguimento) e intimidatoria (chiusura a chiave della porta).
2) Falsa denuncia: la studentessa agisce per una specie di vendetta, con cattiveria e fredda pianificazione; la regia non approfondisce. 3) Violazione della presunzione di innocenza: malgrado la sua innocenza, sulla base della sola testimonianza di lei, secondo il protocollo, Gale è incarcerato e resta due settimane in prigione, fino al versamento della cauzione. Nessun risarcimento per l’ingiusta detenzione. 4) Conseguenze: malgrado il procedimento fosse stato archiviato dopo il ritiro della denuncia da parte di lei, lui perde il lavoro, gli amici, la famiglia, e cade in una profonda depressione e nell’alcoolismo. Per la studentessa invece, unica responsabile di quanto accaduto, non ci sono conseguenze negative. 5) Comportamento della moglie: il film lascia intendere già dall’inizio che tanto Gale come i suoi colleghi erano a conoscenza che la moglie aveva un amante a Barcellona. Gale si risente ma è rassegnato, fa finta di non sapere. Quando avviene l’arresto di Gale, la moglie approfitta per chiedere la separazione (via email) e portare via il figlio a Barcellona. Inoltre lascierà il marito due settimane in carcere senza pagare la cauzione, giusta punizione per i mariti fedifraghi. Nessuna critica al comportamento della moglie. Il marito che sbaglia deve essere giustamente punito, non aiutato, nessuna fedeltà nel dolore e nella cattiva sorte. Naturalmente la moglie che sbaglia deve essere sostenuta e aiutata, come l’alcolica e violenta moglie, interpretata da Meg Ryan, nel film Amarsi (When a Man Loves a Woman, 1994). Questo è il messaggio che arriva da Hollywood.
Lui è una vittima incompresa, una vittima scomoda.
6) Sottrazione del figlio: la moglie porta il figlio minore in un altro continente e ostacola le telefonate tra padre e figlio. 7) Gale è un professore liberale. Tutti i suoi conoscenti sono attivisti per i diritti umani, contro la pena di morte. Malgrado lui fosse stato vittima di una falsa denuncia, malgrado fosse stato arrestato ingiustamente, malgrado non fosse stato rispettato il suo diritto alla presunzione di innocenza, malgrado non riuscisse a vedere il proprio figlio, malgrado le nefaste conseguenze che tutto ciò aveva recato su di lui, né a lui né alla sua migliore amica né a nessun altro, malgrado tutti fossero attivisti per i diritti umani, verrà in mente di lottare contro le false denunce o per i diritti dei figli o per qualsiasi altro diritto maschile violato. Nessuno di loro cambia il proprio obiettivo: la lotta contro la pena di morte. Nemmeno la più cara amica di Gale esprime mai un commento critico sulla falsa denuncia della studentessa. Le conseguenze distruttive che porteranno Gale al suicidio non importano a nessuno, nemmeno al regista. 8) Alla fine del film, prima di essere giustiziato, Gale riceve una somma importante di soldi che aveva pattuito con una giornalista come compenso per raccontare la sua storia. Insomma, i soldi per il suo suicidio. Indovinate a chi manda la somma di denaro? Alla ex moglie a Barcellona (naturalmente per il figlio minore), malgrado l’inammisibile comportamento nei suoi confronti quando aveva più bisogno di lei, e malgrado l’allontanamento dal figlio agito dalla moglie.
Nessuno dei punti elencati è stato ritenuto dal regista abbastanza importante da renderlo la trama del film. La sofferenza maschile è un danno collaterale, il contorno di una trama che mira a vette più alte. Malgrado l’evidenza e malgrado la consapevole sofferenza, il protagonista non riesce a concepirsi come vittima di una discrimazione in quanto uomo. Vive una tragedia personale ma non capisce perché. Non ha coscienza di gruppo, come hanno spesso le donne, non riesce ad avere una visione più ampia di quelle ingiuste condotte e normative che stanno distruggendo la sua vita, e che lo colpiscono non solo in quanto singolo individuo, ma soprattutto in quanto appartenente a un gruppo sessuato, in quanto uomo. Se lui è una vittima, in primis, è perché è un uomo, se fosse stata una donna non sarebbe stata una vittima. Come tanti altri nell’attuale società, lui è una vittime incompresa, una vittima scomoda, una vittima ignorata, una vittima di condotte e normative sistemiche ingiuste promosse e protette dal femminismo. Lui è una vittima del femminismo. Ma lui non lo capisce, il regista nemmeno. L’argomento verrà approfondito durante la trasmissione di Radio Londra, sabato 06 giugno alle ore 21:00.