Di recente ho visto due film biografici, Miss Potter (2006) e Le montagne della luna (Mountains of the Moon, 1990). Il primo racconta la vita dell’artista Helen Beatrix Potter (1866-1943), ricordata per i suoi libri illustrati per bambini. Il suo significativo contributo al progresso dell’umanità è stato la creazione di piccole animazioni collegate ai personaggi animali nati dalla fantasia della stessa, coniglietti, scoiattolini e via dicendo. Il secondo film non è strettamente biografico. Basato sui diari originali di Richard Francis Burton (1821-1890) e John Hanning Speke, il film racconta la scoperta del Nilo e la diatriba sorta tra i due. Il protagonista principale del film è il primo. Francis Burton, esploratore, traduttore e orientalista britannico, viaggiò da solo e sotto travestimento alla Mecca, tradusse Le mille e una notte, Il giardino profumato e il Kama Sutra, viaggiò con Speke alla scoperta dei grandi laghi africani e della sorgente del Nilo (argomento del film), visitò Salt Lake City insieme a Brigham Young, viaggiò in lungo e in largo, e scrisse molto. Fu probabilmente il terzo miglior spadaccino europeo del suo tempo. Servì come console britannico a Trieste, Damasco e Fernando Poo. I contributi da Beatrix Potter e da Francis Burton al progresso dell’umanità hanno meritato in entrambi i casi la produzione di un film e la dignità di essere tramandati nella memoria collettiva.
Miss Potter non è un film femminista, anche se fa parte del filone di film con protagoniste femminili (tra le quali molte biografie) che si sono moltiplicati negli ultimi anni. Anche se non si tratta dell’argomento principale del film, lungo la vita Miss Potter deve affrontare una serie di pregiudizi sociali sessisti che la impediscono di raggiungere i suoi obiettivi di vita. Le rivendicazioni femministe non sono esplicite, ma nel film i pregiudizi e gli ostacoli sono palesi, la sofferenza (psichica) di Miss Potter anche. Come avviene nella maggior parte dei film con protagoniste femminili, Miss Potter non riesce a essere libera e apprezzata quanto vorrebbe per il lavoro che fa, in quanto donna. L’antagonista che ostacola queste aspettative di vita è la società (patriarcale), la sofferenza femminile è frutto di un’ingiustizia sociale. Il pubblico, e il sottoscritto, non riescono a non immedesimarsi e a prendere le parti della protagonista. Nell’altro film, il protagonista Francis Burton soffre i patimenti della fame, malattie, ferite di combattimento, emarginazione sociale. Il film ipotizza il suicidio del coprotagonista Speke. La sofferenza maschile, tanto fisica quanto psichica, non ha paragoni rispetto a quella di Miss Potter. Eppure, durante la visione del film, il sottoscritto non l’ha sentita, ci ho dovuto riflettere a freddo. Durante la visione del film, quella sofferenza, per me e per il pubblico in genere, è ed era dovuta e scontata, si trattava di una sofferenza naturale. La sofferenza maschile fa parte del cammino travagliato della vita degli uomini, le avversità che la provocano devono essere affrontate, da uomo. Gli ostacoli e la sofferenza non dovrebbero mai intralciare la strada delle donne verso il successo, come nel caso di Miss Potter; ostacoli e sofferenza sono le prove necessarie per un uomo per poter raggiungere il successo, come nel caso di Richard Francis Burton.
Povertà e suicidio.
A proposito dei senzatetto, Wikipedia sancisce che questa condizione, testuale, «è il livello massimo di esclusione sociale e di emarginazione che produce una società moderna». Informa inoltre che nel mondo occidentale circa l’80% dei senzatetto sono uomini. In Italia, l’84% sono uomini, il 16% donne. Eppure le istituzioni e i media denunciano che «la povertà ha un volto femminile». L’espressione coniata, e diffusa nell’immaginario collettivo, è «femminilizzazione della povertà», malgrado «il livello massimo di esclusione sociale e di emarginazione» colpisca in modo sproporzionato gli uomini. C’è una spia, riconosciuta da tutti, che evidenzia in maniera evidente la sofferenza e il disagio sociale massimo: il suicidio. Anche in questa tragedia gli uomini sovrastano le donne, da quando ci sono i conteggi, in numeri sproporzionati. Eppure la narrativa istituzionale e mediatica è sempre la stessa: sono le donne che soffrono e subiscono disagio e discriminazione. A livello quantitativo, pressoché in ogni ambito, la sofferenza maschile sovrasta sproporzionatamente la sofferenza femminile, non è nemmeno paragonabile. Eppure la solidarietà e l’empatia della società sta tutta dalla parte della sofferenza femminile. Se ad esempio su Google cerchiamo “dalla parte delle donne, sempre”, in italiano compaiono oltre 7000 risultati. «Le istituzioni siano dalla parte delle donne. Sempre». Se invece cerchiamo “dalla parte degli uomini, sempre”, compaiono solo 4 risultati, intesi in tutti i quattro casi “uomini” come “esseri umani”. Cioè, zero risultati. L’universo maschile e la sua sofferenza completamente ignorati. Una costante a tutti i livelli, anche istituzionale, ad esempio, «alla Conferenza Generale dell’UNESCO, tenutasi a Parigi nel 1987, fu approvata la Risoluzione 14.1, che affermava l’importanza di adottare, nella redazione di tutti i documenti di lavoro dell’Organizzazione, una politica volta ad evitare, per quanto possibile, l’uso di termini che si riferiscono ad un solo sesso, salvo nel caso di misure positive a favore delle donne» (Historia(s) de mujeres, Volume I, Perséfone, 2013, p. 119). Le misure a favore degli uomini non sono previste, nemmeno ipotizzate.
Molto sommariamente l’ideologia di genere sostiene che i sessi non esistono, sono una creazione culturale, e al loro posto esistono un’infinità di generi. Questa ideologia sta prendendo sempre di più piede nella società. Nel contempo una parte sempre crescente della società, e del movimento femminista, la contesta, perché danneggia le donne. Persino la Magistratura spagnola ha denunciato che la nuova legge Trans (che permette il cambio di sesso senza impedimenti) «discrimina le donne». Come sia possibile che un’ideologia che in principio cancella entrambi i sessi, possa danneggiare soltanto uno dei due, non può che lasciare perplessi. Se cancelliamo i sessi, in che modo se danneggiano o discriminano le donne più di quanto non si faccia sugli uomini? Uno degli argomenti principali contro quest’ideologia risiede nella semplice domanda, diventata anche il titolo del documentario di successo di Matt Walsh, “cos’è una donna?”. Una domanda che è stata posta a tutti i livelli politici negli Stati Uniti. La mia perplessità è sempre la stessa: ma perché nessuno si chiede “cos’è un uomo”? Sembra non interessare a nessuno, nemmeno a quelli che contestano il femminismo e/o l’ideologia di genere. Il centro dell’attenzione resta unica ed esclusivamente la donna. Questa impostazione mentale a livello sociale non è nuova. Ad esempio, non ho mai capito perché il divorzio venga considerato una «conquista delle donne», se è vero che a separarsi sono in due, oppure perché l’istituzione della famiglia dovrebbe danneggiare unicamente le donne, quando entrambi i sessi ne fanno parte. L’uomo e la sua sofferenza completamente ignorati.
Vale la pena soffrire?
A lungo in molti, compreso il sottoscritto, hanno descritto la sofferenza maschile come invisibile, ma è un errore. In realtà la sofferenza maschile è molto visibile. La sofferenza maschile è scontata. Per tutti è normale, naturale. Le grandi discriminazioni della Storia, come la coscrizione maschile obbligatoria o le tutele lavorative durante la Rivoluzione Industriale che escludevano gli uomini, interessavano gli uomini perché la produzione, la protezione, il funzionamento del mondo richiedevano e richiedono ancora, in minor misura, dei caduti, ed era ed è scontato per tutti che questi siano uomini. Se qualcuno deve essere sfruttato al lavoro o deve morire in guerra, è scontato che sia un uomo. Qualcuno deve far funzionare il mondo, il conto lo paga l’uomo. Questo pensiero non è una novità introdotta dal femminismo, è sempre esistito, come dimostrano tutti i film prodotti prima della seconda ondata femminista. Per tutti era scontato che fossero gli uomini i destinatari della violenza, prigionie, torture, cataclismi, lavori forzati… Nell’immaginario collettivo femminile le donne pretendevano ed esigevano dagli uomini protezione, tutele, sacrifici, l’assunzione a loro posto di qualsiasi sofferenza, così come i bambini pretendono ed esigono egoisticamente protezione, tutele e sacrifici dagli adulti. E così come i bambini mostrano un certo rispetto, ammirazione e riconoscenza verso gli adulti, così le donne mostravano la loro gratitudine e il loro rispetto verso gli uomini, innalzati a eroi tanto socialmente come nella propria dimora coniugale (almeno questa era la teoria). Per le donne la sofferenza maschile era scontata, ma in qualche modo riconosciuta.
Con il femminismo non sono cambiate le pretese femminili ma la visione del mondo. La narrazione femminista ha negato i sacrifici e la sofferenza maschile, nessuna gratitudine è dovuta. La tecnologia ma soprattutto il sistema di Welfare hanno diluito il sacrificio maschile a vantaggio delle donne, da un ambito individuale e tangibile a quello di un collettivo evanescente. Le donne non mostrano empatia per la sofferenza maschile perché nessuna è disposta a soffrire al posto di un uomo (tranne nella relazione madre-figlio). Evidentemente il quadro che viene a galla per le donne da questo atteggiamento femminile non è molto luminoso. Ma quando affermo che la sofferenza maschile è scontata per tutti, intendo per tutti. Se Jane vuole essere consolata e salvata, Tarzan non vede l’ora di salvare Jane. Gli uomini non vedono l’ora di accollarsi la sofferenza femminile a proprie spese. Anche per gli uomini la sofferenza maschile è scontata, in quanto condizione necessaria per evitare la sofferenza femminile, intollerabile. Prima donne e bambini. Il cavaliere non si accolla su di sé solo la sofferenza della sua dama, ma la sofferenza di qualsiasi dama, comportamento altruistico degno di una seduta psicoanalitica. Non so quanto di biologico e quanto di culturale abbia questo pensiero universale che sancisce la sofferenza femminile come intollerabile e la sofferenza maschile come scontata. Non so nemmeno quanto, né se si possa modificare questo pensiero che sembra scolpito nel marmo dagli albori dei tempi. Un primo passo sarebbe l’ammissione che le cose stanno e sono sempre state così. Ma c’è un elemento da evidenziare: il femminismo ha cambiato la narrazione. A questo punto l’universo maschile dovrebbe chiedersi se valga la pena continuare ad accollarsi sacrifici e sofferenze per donne che, invece di riconoscenza e gratitudine, sputano in faccia e negano e deridono la sofferenza maschile. Io, e tanti altri, lo abbiamo imparato a nostre spese, troppo tardi. Era scontato che dovevamo soffrire, e ricevere in cambio derisione e ingratitudine.