L’ANSA annuncia che la stampa attuale racconta meglio la violenza sulle donne in generale ed i femminicidi in particolare. Lo fa commentando il Rapporto dell’Osservatorio indipendente Step-Ricerca e Informazione, promosso dall’Università Sapienza di Roma, con l’Università della Tuscia e le Commissioni Pari Opportunità di Ordine dei giornalisti, FNSI, USIGRAI e GIULIA giornaliste. Il report parla di un netto miglioramento, ma c’è ancora tanta strada da fare. Tradotto: qualcosa è stato fatto ma non basta: bisogna fare di più, molto di più.
La stampa, come ha da tempo rilevato La Fionda, viene guidata su quali concetti promuovere e quali occultare, persino sui termini da imporre e quelli da cancellare in servile obbedienza a linee-guida e decaloghi imposti dall’alto (vedasi il video qui di seguito).
Comunque, finalmente, la stampa racconta meglio. Davvero? Beh, vediamo cosa si intende per “racconta meglio”. Si parte male: il titolo ANSA spara “femminicidi” come primo termine che focalizza l’attenzione del lettore, poi l’articolo inizia con «113 donne uccise nel 2024». È falso che vi siano stati 113 femminicidi, ma associare sottilmente il femminicidio alla morte di qualsiasi donna uccisa da chiunque e per qualunque motivo è la mistificazione-regina che inquina la narrazione allarmistica. Non è informazione, è propaganda patogena. Poi lo scoop: l’Osservatorio analizza 3671 articoli sulla violenza di genere, la maggior parte dei quali si concentra nel mese di novembre. Ma dai… chi l’avrebbe mai detto?
Propaganda patogena.
Testuale: «La maggior parte degli articoli tende a focalizzarsi su più di una forma di violenza simultaneamente. In termini assoluti, il più diffuso è il femminicidio (25%), seguito da violenza sessuale (20%), lesioni personali (18%) e violenza domestica (17%)». Non sappiamo quali siano i 3671 articoli analizzati dalle varie commissioni pari opportunità che compongono il prestigioso Osservatorio, ma non compaiono in classifica atti persecutori e maltrattamenti in famiglia, due dei reati da Codice Rosso prevalentemente denunciati. Figurano anche tra le maggiori fonti di false accuse, ma questo è un altro discorso. «Minore, ma ancora presente nei media, il raptus», continua il report. Ahia! I cronisti non dimostrano di essere abbastanza zelanti, non ricordano che parlare di raptus è vietato. Sulla stampa non si deve mai dire che la furia omicida – pardon, femminicida – può anche essere frutto di un raptus improvviso ed incontrollabile; il messaggio che deve passare è sempre quello di una violenza pianificata, strutturale e di sistema, una tara presente nel DNA di tutti i maschi bianchi figli del patriarcato.
Poi ancora: «A chi viene data la parola? Alle vittime (in prima persona o attraverso rappresentanti) in 5063 casi». Qualcosa non quadra: 3.600 articoli, 5.000 volte la parola alle vittime. Oltretutto nel 25% dei casi la vittima è deceduta. «La vittima però continua a essere descritta soprattutto per le sue caratteristiche anagrafiche, poco per la sua prospettiva sulla violenza. A caratteri cubitali troviamo la sua età, in piccolo Terrorizzata, Disperata, Sconvolta, Paura». Non va bene, l’attenzione del lettore non può essere deviata da particolari insignificanti come sapere se la donna avesse 25 anni o 50, la stampa deve guidare l’attenzione verso il terrore e la disperazione. Non è informazione, è propaganda patogena.
Guai parlare delle origini!
Quanto all’offender? «Lo si definisce Geloso, Violento, Brutale, Crudele, Feroce, Aggressivo, Pericoloso». Benissimo, questo è il vero miglioramento della stampa: empatia per la vittima, odio per l’accusato. Il colpevole è tale prima che lo stabilisca un regolare processo. Il giudice viene facilitato nel suo lavoro, ha già fatto tutto il giornalista. Non è informazione, è propaganda patogena. «E si tende a insistere sulle sue origini». Errore gravissimo! Non bisogna mai scrivere che l’uomo violento è algerino, nigeriano, magrebino, tunisino, bengalese, pakistano o altro. Il lettore potrebbe credere che parte delle violenze sono agite da extracomunitari, mentre il messaggio veicolato dalla stampa deve essere che l’oppressione del patriarcato è una sovrastruttura culturale dilagante nella società italiana, è strutturale e sistemica, ne sono intrisi i maschi/bianchi/etero/figli sani del patriarcato. I maschi italiani insomma, sono loro quelli da rieducare. Ancora una volta non è informazione, è propaganda patogena. Il livello del giornalismo italiano, oggi, è questo. E se ne vanta.