L’avevamo previsto già nel settembre del 2022, poco dopo le ultime elezioni: rispetto ai nostri temi, questa maggioranza e questo governo difficilmente avrebbero segnato un distacco dagli interessi delle lobby dell’antiviolenza e del loro mandante ideologico, ossia il femminismo liberista dei nostri tempi. Anzi, essendo gruppi di potere tipicamente legati alla sinistra, per non essere da meno il governo di centro destra, il primo a mettere a Palazzo Chigi una donna, avrebbe ceduto all’impulso di mostrare di saper andare ben oltre le mostruosità dei suoi avversari politici. Non ci sbagliavamo. Meloni, Nordio, Piantedosi, Roccella, Casellati e Bernini sono arrivati a fare quello che molti anni di maggioranze e governi di centro-sinistra non avevano mai avuto il fegato di fare: proporre l’introduzione nel Codice Penale del reato di “femminicidio”. Dedicheremo tutti gli articoli di questa settimana a questa proposta, cercando di sviscerarne le caratteristiche gli impatti sul sistema giudiziario, sui diritti di tutti, dunque sulla società intera. In questo primo articolo ci limiteremo a una riflessione sui motivi per cui il Governo Meloni è arrivato a tanto e come ci sia arrivato.
Come detto, un primo motivo l’avevamo previsto già quasi tre anni fa: tutta la destra italiana, e in particolare Giorgia Meloni, sono costantemente accusati dall’opposizione di non essere (o di non essere abbastanza) “femministi”, ossia di non curarsi dei diritti delle donne, delle loro tutele e di quella eterna lotta contro il perdurante regime “patriarcale” che attraverso vari stereotipi continua, come in passato, a opprimere la sfera femminile. Come già detto più volte, non ci sono prove che sia esistito o esista quel genere di patriarcato, anzi esistono prove pressoché inoppugnabili che non sia mai esistito e non esista nemmeno oggi, ma è noto che il progressismo italiano (e mondiale) vive di e sopra una realtà tra il virtuale e lo psichedelico, dunque nessuna sorpresa. Se non che queste accuse pesano sul cuore nero della destra italiana, vittima da sempre di un giustificato o meno senso di inferiorità rispetto agli avversari. Ed essendo il loro cuore, come il loro cervello, nero come il vuoto, l’unico modo con cui sanno rispondere e spararla grossissima. Se l’accusa è di non fare 10, per non sbagliare fanno 100 mila, sperando con ciò di risultare politicamente “degni” e all’altezza dei loro critici. Ed ecco il DdL “Femminicidio”, proprio mentre l’amico di baci e abbracci sullo scenario internazionale, il Presidente Xavier Milei, toglie la bufala dal Codice Penale argentino.

Una discriminazione riesumata dalla Storia.
Ma ovviamente non c’è soltanto questo aspetto psicologico (o meglio: psichiatrico) dietro la follia del DdL “Femminicidio” presentato dal Consiglio dei Ministri alla vigilia dell’8 marzo. C’è anche un aspetto legato alla politichetta all’italiana: l’obiettivo in questo senso è duplice. Da un lato serve a disarmare la sinistra e le sue terroriste di piazza, pronte a esibirsi l’8 marzo. Con che coraggio le brigatiste di “Non Una di Meno” potevano manifestare il giorno dopo una proposta come quella del DdL “Femminicidio”? Infatti l’hanno buttata sulla politica internazionale, trasformando la festa della donna in uno “Sciopero globale transfemminista per la Palestina” (???). Idem per ogni altra critica proveniente dal PD o dal M5S: d’ora in avanti il primo Presidente del Consiglio donna nella storia d’Italia e il suo Governo sono di fatto inattaccabili sui temi femministi. Dall’altro lato c’è però un versante politico assai più difensivo: la compagine governativa è alle prese con una serie di problemi cruciali: le bollette fuori controllo, l’UE che vuole miliardi di tagli sullo stato sociale per alimentare la nuova bolla del momento stavolta a vantaggio dei produttori d’armi, il risarcimento agli immigrati della Diciotti con lo strascico di un imbarazzante conflitto inter-istituzionale, più varie altre magagne internazionali… Cosa può esserci di meglio per distrarre la gente che una proposta di legge palesemente anticostituzionale su un tema così tanto ideologizzato e dunque divisivo?
C’è poi l’aspetto economico. Nel “pacchetto” delirante del 7 marzo sono compresi immancabili corsi di indottrinamento per magistrati sul tema del femminicidio ed anche ampie prebende per l’industria dell’antiviolenza, a partire dagli 8 milioni e mezzo di euro per aprire centri antiviolenza presso le università. Non bastava aver aumentato il reddito di cittadinanza da 400 a 500 euro per le donne che si rivolgono ai CAV, palese incentivo volto a far lavorare questi ultimi e a poter dire che il numero di donne vittime di violenza è in aumento, pur contro la realtà dei fatti. Ora, con questa nuova iniezione di denaro, la destra si accredita come referente affidabile presso il vittimificio professionale e il suo mandante ideologico, quel femminismo italiano che tradizionalmente basa la propria sopravvivenza sul clientelismo della sinistra. Tutto questo a costo di un impatto devastante sotto il profilo giuridico, giudiziario e alla fine sociale. La prima vittima di tutto è il principio di uguaglianza, affermato all’Art.3 della Costituzione anche come reazione e contraltare alle vergognose discriminazioni antiebraiche del periodo fascista. I pronipoti del regime, per garantirsi sopravvivenza politica, ricicciano la discriminazione cambiando oggetto: stavolta sono gli uomini, la cui vita vale 20 o 30 anni di carcere, mentre quella delle donne vale un ergastolo. Senza contare la pochezza morale di approvare nuovi inasprimenti ogni qual volta ci sia qualche ricorrenza femminista, cioè due volte all’anno, l’8 marzo e il 25 novembre. Ormai è un obbligo, come le strenne per i bambini a Natale. Ora che questo governo si è instradato su parossismo legislativo su questi temi, perché non disporre l’incarcerazione preventiva e immediata di tutti gli uomini, compresi i neonati maschi? Invece dello stillicidio due volte all’anno, ci si toglierebbe il pensiero in un colpo solo.