Di recente alcuni media hanno parlato di una vicenda emblematica. Una coppia, marito e moglie, si presentano in una caserma dei Carabinieri per depositare una denuncia. Hanno un’aria strana, tesa, il maresciallo di turno lo nota e fa alcune verifiche sulle generalità dei due. Scopre così che lui era stato denunciato da lei per “violenza di genere”, era scattata la tagliola del Codice Rosso e all’uomo era stato appioppato un braccialetto elettronico con divieto di avvicinamento. Se non che nel frattempo i due si erano riappacificati ed erano tornati assieme. Per evitare problemi con il braccialetto elettronico, lasciavano il cellulare a cui era collegato nell’auto a 500 metri di distanza da dove avevano ripreso a convivere tranquillamente. Scoperta la cosa, i Carabinieri hanno lasciato che i due sporgessero la loro denuncia, dopo di che hanno preso l’uomo e l’hanno arrestato per violazione del divieto di avvicinamento. Per lui ora c’è il carcere.
Di nuovo si pone lo stesso interrogativo, già posto troppe volte: le misure cautelari servono a tutelare la querelante da pericoli reali o soddisfano la sua rabbia momentanea? Sono tanti i casi di sedicenti vittime che si dichiarano terrorizzate, maltrattate, perseguitate, in perdurante stato d’ansia o preoccupate per la propria incolumità personale e, in ragione di tali narrazioni, ottengono in quattro e quattr’otto l’allontanamento del presunto aguzzino. Poi frequentano normalmente l’uomo che hanno voluto allontanare, vittima e carnefice vengono trovati insieme a fare shopping, in auto, al ristorante, in casa, le vittime chiedono aiuto all’orco per un trasloco o una tubatura che perde, tornano a convivere, nel caso appena narrato vanno perfino in caserma insieme.
La donna è in pericolo di default.
Gli uomini, ovviamente, subiscono un inasprimento delle misure cautelari poiché questo prevede il Codice Rosso rafforzato, visto che il Codice Rosso originario a qualcuno sembrava troppo blando. Non conta nulla la volontà della sedicente vittima, non conta nulla che sia stata lei ad invitare, chiamare, insistere, sollecitare l’incontro o addirittura la ripresa della convivenza col mostro. Lui ha violato e deve essere punito, punto. Anche se lei gli ha chiesto di violare. Un gap del Codice Rosso (uno dei tanti) è quello di dare per scontato che l’uomo gravato dalle misure cautelari intenda violarle contro la volontà della sedicente vittima, mettendone quindi in pericolo l’incolumità. Il che può sicuramente capitare, ma esistono e sono numerosissime le eccezioni. Ma poco importa, per la legge la donna è in pericolo di default. È questa l’incrollabile certezza del sistema giudiziario che reagisce di conseguenza, anche se risulta evidente che il comportamento della sedicente vittima la connota come persona che non ha alcun bisogno di essere protetta e non teme affatto la vicinanza dell’uomo gravato dal divieto di avvicinamento, tanto che è lei a cercarlo.
Tali casi, tutt’altro che rari, sollevano legittimi dubbi sulla genuinità delle accuse dalle quali le misure cautelari prendono vita, nonché sulla frettolosa superficialità delle indagini che portano alle misure cautelari stesse. La evidente tranquillità della sedicente vittima e l’altrettanto evidente volontà di frequentare il mostro entrano in conflitto con la narrazione di ansia, terrore e necessità di essere protetta. Non si può nemmeno chiedere la revoca delle misure cautelari, che vengono stabilite o tolte ad insindacabile giudizio della magistratura. Anzi, la sedicente vittima che ritratta, ridimensiona o smentisce del tutto le accuse suscita sospetti ancora una volta sull’orco (e ti pareva…) che potrebbe aver intimidito, minacciato o comunque fatto pressioni sulla donna per farla tornare sui propri passi. In sostanza la donna deve essere credibile solo quando accusa, se ritratta non è più credibile. Alcune procure hanno messo questa cosa nero su bianco, ma in molti tribunali tale prassi è già operativa da tempo. E dalla Culla del Diritto è tutto