Dove gli uomini e perfino i giovani avevano fallito, le donne hanno vinto: non ci sorprende, oggi essere donna è la chiave per poter ottenere pressoché qualsiasi cosa (contemporaneamente siamo in un patriarcato che le opprime: anche la società, di questi tempi, è “fluida” e come i soggetti gender-season può cambiare natura a seconda della stagione). Stiamo parlando del recente pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR) che lo scorso 9 aprile ha dato ragione alle “KlimaSeniorinnen”, un gruppo di oltre 2000 donne svizzere over65, sul fatto che il climate change mette a rischio la loro vita, ed è perciò un dovere per il governo, sotto l’imperativo della salvaguardia dei diritti umani, intraprendere azioni per contrastarlo. Il controverso fenomeno del cambiamento climatico non rientra tra i temi che trattiamo di solito: ma dovrebbe, visto che secondo l’ottica intersezionalista il “maschio bianco etero-cis”, con la sua mascolinità tossica individuata quale causa diretta di ogni fenomeno distruttivo (“se ci fossero le donne invece…”), è colpevole non soltanto di opprimere le donne e le varie altre minoranze, ma anche la sfera animale e vegetale e in ultima analisi l’intero pianeta e i suoi equilibri.
Infatti le “Seniorinnen” hanno vinto la controversia proprio in quanto presentata come “gendered”: vale a dire, il cambiamento climatico comporta fenomeni che sì, certo, fanno male a tutti, ma soprattutto e in modo sproporzionato alle donne in-quanto-donne. Non ci sorprende: secondo il femminismo, anche intersezionale, le donne sono le prime e principali vittime di qualsiasi cosa. Presumibilmente è questa la ragione per cui due recenti controversie analoghe sono state invece respinte, adducendo “ragioni procedurali”. La prima mossa da Damien Carême, ex-sindaco del comune francese di Grande Synthe, che aveva fatto causa al suo governo perché il mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei “gas serra”, mettendo in diretto pericolo la sua casa e la salute sua e della sua famiglia, avrebbe violato il suo diritto (riconosciuto dalla ECHR) a una «normale vita privata e familiare». La seconda partita da sei giovani portoghesi (di entrambi i sessi, tra gli 11 e i 24 anni) contro 32 nazioni, secondo i quali fenomeni come l’aumento delle temperature medie e gli incendi boschivi spontanei degli ultimi anni sarebbero diretta conseguenza delle mancate politiche ambientaliste dei governi europei. Il gruppetto di aspiranti “novelli Greta-Thunberg” ha testimoniato di aver sperimentato un impatto negativo diretto del climate change sui propri diritti: ad esempio nell’essere stati costretti a stare chiusi in casa per via del caldo eccessivo, aver sofferto di insonnia, “eco-ansia”, difficoltà respiratorie.
Anche il clima opprime le donne.
Niente da fare: il loro appello è stato respinto dall’EHCR, che ha accolto quello delle signore svizzere, le quali hanno ad esempio lamentato l’impossibilità a uscire di casa e a portare avanti le normali attività quotidiane a causa di un’eccezionale ondata di caldo, condizione descritta come «peggiore rispetto a quella dei lockdown legati al COVID-19, e una violazione dei nostri diritti umani». Nel verdetto la Presidente della Corte, Siofra O’Leary, ha condannato l’incapacità del governo svizzero di mantenere i propri targets di riduzione dei “gas serra” e ha sottolineato come «le mancate politiche a contrasto del cambiamento climatico nel presente avranno un impatto dalla gravità crescente per le future generazioni». La decisione, come molti osservatori hanno sottolineato, ha portata storica in quanto inappellabile e, sebbene mirata alla Svizzera, costituisce un precedente che impegnerà da ora in poi tutti i 46 Stati firmatari della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in questo senso: se una nazione non sarà in linea con determinati obiettivi ambientalisti, sarà considerata una violazione dei diritti umani dei propri cittadini. Soprattutto delle donne, sottolinea il World Economic Forum: gli uomini possono soffrire il caldo in silenzio, e anzi semmai hanno il dovere di sobbarcarsi le necessarie attività che le donne non potranno portare avanti (magari così saranno anche troppo stanchi per rispettare il consueto ritmo quotidiano di violenze domestiche patriarcali: doppio vantaggio).
Non è una novità. Già da molti anni gli organismi internazionali lanciano l’allarme su quanto il climate change affliggerebbe in modo sproporzionato le donne. Certo, l’allarme in questione non riguarda (soltanto) l’insonnia o l’essere costretti a stare in casa con gli scuri abbassati per il gran caldo, ma piuttosto l’impatto indiretto di condizioni estreme e cataclismi le cui cause vengono fatte risalire al cambiamento climatico. Come ad esempio il calo di produzione agricola in economie di sostentamento, che «obbliga le donne e le ragazze a lavorare più duramente per garantire la sopravvivenza della propria famiglia» (gli uomini notoriamente si nutrono d’aria e passano il tempo a giocare a carte e fare battute sessiste, quindi tutto a posto). Oppure l’essere esposte a un rischio aumentato di violenza sessuale e traffico di esseri umani, in quelle situazioni in cui sono costrette a vivere in rifugi di emergenza o a migrare per ragioni legate alla “crisi climatica”, come dopo un cataclisma ambientale (gli uomini in situazioni del genere tipicamente non rischiano nulla e stanno benissimo, anzi è il loro ambiente ideale).
La colpa è ovviamente degli uomini.
Più in generale, come scrive l’incaricata speciale per le Nazioni Unite sulle cause e conseguenze della violenza su ragazze e donne, Reem Alsalem, in un report su questo tema del 2022, «L’impatto del climate change e del degrado ambientale esacerba le disuguaglianze già esistenti» (III,6) o in altre parole «il climate change agisce come un amplificatore delle minacce usuali all’esistenza, e il suo impatto è maggiore sui soggetti già marginalizzati» (III,7, il concetto è ripetuto varie volte in altre formulazioni): quindi le donne sono le vittime numero uno delle conseguenze dei problemi ambientali, come di qualsiasi altra cosa. I modi diversi e specifici in cui cataclismi e migrazioni forzate possono impattare gli uomini non vengono minimamente considerati: «gli studi di settore si concentrano in maniera preponderante su ragazze e donne cis-gender» si dice nel report (VI,52), rassicurandoci subito dopo che «ciononostante alcuni studi dimostrano che anche donne di diverso orientamento sessuale e identità di genere subiscono un impatto maggiore da discriminazioni e violenze dopo una crisi ambientale».
Per completare il quadro in chiave intersezionale siamo rassicurati anche sul fatto che i mutamenti climatici sono razzisti e “ageisti”: «le donne indigene, anziane, e quelle appartenenti a minoranze etniche» sono maggiormente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico (VI,49). Insomma, sul presunto cambiamento climatico il dibattito scientifico è intenso, e le certezze sono poche, se è vero che molte previsioni catastrofiche avanzate dagli esperti nel recente passato sono state disattese: ad esempio che entro il 1980 l’aria nei centri urbani sarebbe diventata irrespirabile; che l’inquinamento avrebbe oscurato la luce solare causando una nuova era glaciale entro gli inizi del secolo; che la Gran Bretagna sarebbe diventata come la Siberia entro il 2020; o che le calotte glaciali si sarebbero completamente sciolte entro il 2022. Ma di una cosa possiamo essere assolutamente certi, confortati dagli organismi internazionali: il cambiamento climatico è intrinsecamente patriarcale, razzista e omofobo. E ovviamente, è colpa degli uomini.