Settimana scorsa è stata data da tutti i media la notizia della definitiva assoluzione di Claudio Foti, tempo fa definito da molti “il guru di Bibbiano”, per due accuse legate proprio alla vicenda degli affidi in Val d’Enza. Una vicenda che fin da subito si è sporcata di politica, laddove a favore delle amministrazioni coinvolte e dei loro consulenti si è schierata la sinistra, mentre dal lato più ferocemente critico si è allineata la destra. Un’inframettenza che non ha fatto altro che confondere le idee e banalizzare le questioni, nel 2019, quando “Bibbiano” era notizia da prima pagina, e ancora oggi dopo la sentenza di Cassazione su Foti. All’uscita della notizia i vari utenti e account legati alla sinistra hanno pubblicato un vero diluvio di post, con foto della Meloni a Bibbiano, vecchie citazioni di Salvini e così via. Ancora politicizzazione da quattro soldi, ancora banalizzazione. Mettendo in mezzo la politica, infatti, si sposta l’attenzione dal vero centro della questione, che è molto più ampio e profondo di quanto si pensi. Partiamo da un dato di fatto: secondo la magistratura, Claudio Foti non ha causato lesioni a una bambina applicando ad essa le sue tecniche terapeutiche, né si è macchiato di abuso d’ufficio. Due fatti singoli e circostanziati, proceduralmente estratti da un processo presso il Tribunale di Reggio Emilia che ancora prosegue e che vede imputate 17 persone.
Rimane dunque da capire se quel “sistema”, che alla Procura di Reggio Emilia pareva di aver individuato, ha commesso o no gli illeciti che gli vengono attribuiti nella gestione degli affidi dei minori. Ed è esattamente in questo punto che la questione diventa più ampia e profonda di quanto la volgarizzazione polarizzante delle beghe politiche lasci intendere. La domanda è: come si gestiscono gli affidi dei minori? Concettualmente è tutto lineare: si individua un bambino o una bambina vittima di abusi in famiglia, li si salva sottraendoli e mettendoli sotto la protezione dello Stato, che li ospita in apposite case-famiglia, e da lì poi, se la situazione familiare d’origine risulta davvero compromessa, possono essere dati in affido a famiglie sane che possano ospitarli e poi magari adottarli. Tutto facile a parole, ma il sistema s’incaglia subito in due punti. Il primo è: quanto paga lo Stato per ogni bambino in una casa-famiglia usualmente gestita da privati? Molto, si arriva anche a 300 euro al giorno. Ecco dunque che la rete delle case-famiglia e dei privati che le gestiscono (in genere cooperative) hanno tutto l’interesse che siano molti i bambini tolti alle famiglie.
Una discussione accesa.
Lo Stato però dovrebbe essere lì proprio per dare limiti a quel tipo di orrida ingordigia. Per farlo, delega la valutazione del minore a suoi rappresentanti: giudici, servizi sociali o esperti esterni pagati appositamente. E qui si innestano altri due problemi: il primo è che può capitare che alcuni di essi siano “in cocca” con le case-famiglia e agiscano non nell’interesse del minore ma delle case-famiglia stesse (se ne parlava, un tempo, ad esempio qui, poi la cosa è curiosamente sparita dai radar). Ignorando un’ipotesi così ignobile, rimane il secondo problema, ovvero: sulla base di quale approccio scientifico l’operatore pubblico, giudice o assistente sociale o altro, valuta quella sussistenza dell’abuso sul minore che può portarlo o non portarlo in casa-famiglia? Facendo un po’ di ricerche, si scopre che sul piano accademico-scientifico esistono due correnti di pensiero diverse e contrapposte. Una viene chiamata generalmente “psicologia del trauma” e ha come riferimento il documento “Dichiarazione di Consenso in tema di abuso sessuale” elaborato dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia”), scaricabile integralmente da qui.
Tale documento parte da un assioma assunto a priori come insindacabile: l’abuso sessuale sui minori «è un fenomeno diffuso». Lo si dice così, ex abrupto, fin dall’inizio del documento, e lo si ripete poi più volte. Più avanti la “Dichiarazione” è ancora più esplicita: «è comprovato che l’abuso sessuale è un fenomeno frequente e in grande prevalenza sommerso». I critici di questo approccio non possono fare a meno di sottolineare come non sia esattamente corretto dare qualcosa come comprovato senza prima comprovarlo, ancor più se il fenomeno lo si dichiara “prevalentemente sommerso”. Se è in gran parte sommerso, come si fa a dire che è frequente e comprovato? I detrattori dell’approccio CISMAI parlano in questo senso di mero pregiudizio, di principio assunto a priori capace di condizionare a cascata l’azione di chi utilizza l’approccio proposto. Che viene criticato anche per altri due aspetti. Il primo è un’altra certezza granitica: «quasi sempre il presunto perpetratore nega e mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne». Quindi tutto quel sommerso di cui, in quanto sommerso, non si sa nulla, quasi sempre non si manifesta in nessun modo. Resa in termini di una filosofia un po’ bislacca suonerebbe tipo: “il nulla esiste quando non c’è niente che possa provarlo”. Roba da far venire il mal di testa anche a Nietzsche. Dunque come si fa? La “Dichiarazione” del CISMAI è chiara: «la valutazione è centrata in modo principale o esclusivo sul minore». Nella credibilità data alla testimonianza del minore sta però il secondo elemento critico perché, specifica la Dichiarazione, egli può sviluppare «una vasta gamma di sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e somatici aspecifici» e per questo la sua testimonianza «va sempre raccolta, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra». Ricapitolando: gli abusi sono in gran parte sommersi eppure sono sicuramente molto diffusi, in più spesso non c’è modo di verificarne fattualmente la sussistenza, quindi bisogna basarsi su ogni segno possibile colto dal bambino, raccogliendo ogni sua parola, per dimostrare che l’abuso c’è stato.
Il metodo resta sotto giudizio.
Secondo i critici della “Dichiarazione” del CISMAI, da qui a considerare il minore sempre abusato, il passo è troppo breve per essere affidabile. Alcuni studiosi hanno addirittura ironizzato su questo approccio, elaborando la cosiddetta “margherita dell’abuso“, dove si vede come tutto e il contrario di tutto, con il metodo CISMAI, possa essere riportato all’esistenza di un abuso sessuale. Qualche maligno ha anche collegato questo approccio al bisogno costante di nuovi minori da destinare alle case-famiglia ma è, probabilmente, appunto soltanto una malignità. Restiamo sulle cose serie: i critici di questo metodo si riconoscono in un’altra corrente di pensiero, espressa dal documento chiamato “Carta di Noto“, che ha dalla sua il non dare nulla per assodato a priori, l’assenza di assiomi pregiudiziali e un approccio fortemente prudenziale alla considerazione delle testimonianze dei minori, per loro natura spesso incapaci di distinguere tra la realtà e le loro fantasie, ma soprattutto tanto, troppo manipolabili da soggetti adulti. Un’impostazione, quello della Carta di Noto, che trova un consenso maggioritario schiacciante nella comunità scientifica nazionale e internazionale ma che, nonostante questo, fatica ad affermarsi in ambito giudiziario. Forse, sospettano gli stessi maligni di cui sopra, perché il suo approccio non alimenta, anzi ridimensiona fortemente, il “business” delle case-famiglia, preferendo trovare e valorizzare gli elementi positivi delle famiglie d’origine, senza necessità di devastarle. C’è da dire che le due “scuole di pensiero” si contrappongono da anni, con toni anche molto accesi (qualche esempio qui, qui, qui e qui) e che in molte di queste polemiche è emerso un evidente allineamento di idee tra il CISMAI e Claudio Foti, la cui “Hansel & Gretel” ne è stata per molti anni membro. In questo articolo, ad esempio, il “Resto del Carlino” riporta come Foti avesse chiesto al CISMAI di fare pressioni per chiudere il podcast “Veleno” di Pablo Trincia, dedicato ai “Diavoli della Bassa Modenese”, un’inchiesta che, insieme a tante altre precedenti, puntava il dito sui pessimi risultati ottenuti storicamente dall’approccio della “psicologia del trauma”. Per non parlare di questo lungo e emblematico articolo de “Il Foglio”, un vero dito accusatorio puntato contro il CISMAI e il suo metodo, che valse alla testata una denuncia per diffamazione da parte del CISMAI stesso, poi archiviata per due volte, come riportato in questo articolo dell’Avv. Miraglia.
Foti, sia chiaro, non è l’unico ad aver detto, scritto o fatto cose pienamente in linea con i dettami del CISMAI. Insieme a lui c’è una schiera di assistenti sociali, politici, giudici (togati e onorari), giornalisti, psicologi o psichiatri forensi e tanti altri. Alcuni dei quali, per altro, quando richiamati a dichiarare la loro vicinanza al metodo della “psicologia del trauma”, magari davanti a un giudice, dopo aver tanto lavorato per affermarne l’impostazione, per paura o ritegno ritrattano clamorosamente, novelli apostoli rinnegati. In ogni caso non sono molti, in termini assoluti: sono una minoranza sbertucciata dall’intera comunità scientifica, ma nonostante questo li trovi ovunque nei tribunali, accreditati e operanti con un metodo che, a ben guardare le “fazioni” accademiche che si confrontano, è davvero difficile da valutare positivamente, anche per il pessimo curriculum che ha, come sottolineato dal precedentemente citato articolo de “Il Foglio”. È qualcosa che si connette direttamente ai nostri temi: le false accuse, la demonizzazione dell’uomo-padre (perché chi segue la “psicologia del trauma” dà sempre per scontato che l’abusante sia un uomo, con poche eccezioni), la lettura distorta delle statistiche e anche, se si vuole, la dottrina gender, che nel caso di “Bibbiano” ha fatto irruzione prepotentemente, con esperimenti più che discutibili di affidi a coppie lesbiche, tutti per altro finiti con un fallimento e fortunatamente con il ritorno dei minori, per quanto traumatizzati, nelle famiglie d’origine. Perché il danno ultimo lo hanno, prima ancora dei genitori che si vedono sottrarre un figlio o una figlia, i bambini stessi. E dunque sì: Foti è stato assolto da due accuse specifiche, da garantisti ne siamo più che lieti. Ma i fallimenti storici, Bibbiano incluso, e quelle che a nostro (e non solo nostro) avviso sono le fallacie intrinseche della “psicologia del trauma” restano inalterati. Per quanto ci riguarda, il “metodo Foti”, la “psicologia del trauma”, la “Dichiarazione” del CISMAI restano sul banco degli imputati. Non quello giudiziario, che non gli appartiene, ma a quello della discussione pubblica e di quella accademica, dove una sentenza definitiva è attesa da ormai troppo tempo.