Tra le lagnanze che vengono elencate nella Dichiarazione di Seneca Falls (The Declaration of sentiments, 1848) c’è una che mi lascia sempre perplesso: «Lui l’ha resa un essere irresponsabile dal punto di vista morale, potendo essa commettere molti crimini con impunità, purché siano commessi in presenza di suo marito». Su questa lagnanza ci sarebbero a mio avviso un paio di commenti da fare. Il crimine non rimaneva impunito, come sembra lasciar intendere il testo. A pagare per il crimine era il marito, quello che andava in carcere per i crimini della moglie era il marito, particolare che misteriosamente le autrici del documento si sono dimenticate di menzionare. Analogamente, se la famiglia era morosa, o la moglie incorreva in debiti, lui soltanto finiva nella prigione per debitori. Normativa che era in vigore in entrambe sponde dell’oceano nel mondo anglofono. Gran Bretagna porrà fine alla irresponsabilità giuridica delle spose che commettevano un crimine in presenza del marito, con il Criminal Justice Act, nel lontano 1925 – cioè 7 anni dopo la concessione del suffragio universale maschile e femminile, nel 1918; in altre parole, le donne poterono votare per sette anni prima che il Parlamento decidesse di abolire questa incomprensibile e discriminatoria normativa. Oggi ovunque viene pubblicizzata la conquista del suffragio femminile, con schemi cronologici e grafici, ma dell’asimmetrica legislazione che mandava il marito in carcere per i crimini della moglie misteriosamente nessuno ne parla, ignorata pressoché da tutti, comprese le femministe.
Il secondo commento riguarda il beneficiario e la parte lesa della suddetta lagnanza. La lagnanza è nominata, assieme a tante altre che denunciano la tragica condizione femminile, nel lungo elenco di situazioni a danno delle donne della Dichiarazione. Datemi pure del pazzo, ma secondo me l’unica parte lesa di questa lagnanza è l’uomo e la grande beneficiaria la donna. Se ad alcuni individui viene data la possibilità di scampare la pena o la prigione per i reati commessi, ciò è un danno o un privilegio? Se invece ad altri, da innocenti, viene imposta una pena o la prigione per reati che non hanno commesso, ciò è un danno o un privilegio? La verità è che lungo tutta la Storia le donne hanno volentieri promosso l’idea sul loro stato di dipendenza e sulla loro fragilità per commuovere i magistrati, nella stragrande maggioranza uomini, pronti a riconoscere senza grandi difficoltà questa condizione, quantunque fosse basata su vaghe insinuazioni. Approfittando contemporaneamente della simpatia dell’opinione pubblica e dell’istinto protettivo maschile nei confronti delle donne, hanno spessissimo utilizzato gli stereotipi di vulnerabilità per avere partita vinta nelle sedi giudiziarie. È un fatto innegabile che le donne hanno sempre avuto meno paura dei rigori della legge, perché contano sul privilegio del proprio sesso. Nelle rivolte, nelle zone occupate di guerra, ovunque la donna ha sempre goduto di una presunzione di innocenza, di fragilità e d’ignoranza che la distinguono dall’uomo, per converso marchiato dalla presunzione di colpevolezza e di pericolosità.
La condanna a essere liberi.
Una situazione che nemmeno oggigiorno è cambiata. Negli Stati Uniti, secondo il rapporto Demographic Differences in Sentencing Report del 2017, aggiornato al 2021, della U.S. Sentencing Commission, le donne di tutte le razze ricevono in media condanne più brevi del 29,2% per gli stessi reati rispetto agli uomini e hanno il 39,6% di probabilità in più di ottenere la libertà vigilata. Le differenze tra donne e uomini sono molto più marcate che le differenze tra i diversi gruppi razziali americani (il 13,4% tra neri e bianchi e il 11,2% tra ispanici e bianchi per le condanne e il 23,4% tra neri e bianchi e il 26,6% tra ispanici e bianchi per la libertà vigilata). Eppure il titolo dell’articolo che commenta il Rapporto menziona solo l’asimmetria tra i diversi gruppi razziali e il magistrato e presidente della Commissione Carlton W. Reeves si appella alla responsabilità collettiva per eliminare le discriminazioni razziali. Come al solito, i privilegi che godono le donne e la discriminazione che subiscono gli uomini nelle sedi giudiziarie non interessano a nessuno o, detto in altre parole, tutti sono d’accordo che le donne devono essere favorite. Malgrado l’evidente asimmetria e discriminazione, dove sono le manifestazioni femministe che richiedono lo stesso trattamento per uomini e donne? Non ci sono e non ci sono mai state. In questo ambito le donne non hanno mai voluto la parità. Lungo tutta la Storia alle donne è stata spesso riconosciuta l’incapacità di macchiarsi di colpe e quindi esse sono state sempre punite più raramente e meno pesantemente degli uomini. Ed esse hanno sempre sfruttato ed incentivavano questo modo di pensare.
Il sostantivo “responsabilità” e l’aggettivo “responsabile” derivano dal latino respondere, “rispondere”: chiunque agisca liberamente deve rispondere delle proprie azioni o, in altre parole, è tenuto a rendere conto di ciò che ha fatto e ne subisce le conseguenze. In questo senso, responsabilità ha un corrispettivo in campo giuridico, dove si parla di imputabilità. È nella natura del sesso femminile accettare con maggior difficoltà l’assunzione di responsabilità del sesso maschile? Perché le donne non si assumono la responsabilità del loro comportamento sessuale quando si drogano o si ubriacano? È la donna intrinsecamente meno imputabile dell’uomo? Ho sempre trovato molto interessante la divergenza di pensiero tra Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, considerata da molte femministe la «madre» del femminismo, due filosofi che sono stati intimi e condividono la stessa corrente filosofica dell’esistenzialismo. Per Sartre siamo liberi, assolutamente liberi (l’uomo è «condannato» a essere libero), quindi siamo assolutamente responsabili. La libertà di chi agisce rappresenta il presupposto dell’imputabilità di un’azione a un agente, e dunque della sua responsabilità morale e giuridica. Dal concetto della coscienza come assoluta libertà Sartre fa discendere la responsabilità assoluta dell’uomo, per ogni situazione in cui egli si viene a trovare. Sartre chiarisce la tesi della responsabilità assoluta con un esempio relativo alla responsabilità di una guerra. Benché io non abbia fatto nulla personalmente per intraprenderla, ne sono responsabile, essa è la mia guerra, un prodotto del mio agire: infatti, «non essendomi sottratto, l’ho scelta», scrive il filosofo durante la Seconda guerra mondiale nell’opera L’essere e il nulla (1943).
Le donne-giudice.
Dalla responsabilità assoluta di Sartre si passa all’irresponsabilità assoluta di de Beauvoir. Ne Il secondo sesso, la filosofa proclama il suo motto più celebre: «Donna non si nasce, lo si diventa». Secondo de Beauvoir le radici della condizione femminile di dipendenza non sono naturali, ma frutto del condizionamento e costruzione sociale. La società maschile – denominata successivamente da Kate Millett Patriarcato, terminologia femminista nata durante gli anni 70′ – avrebbe costruito l’ente donna, moralmente, intellettualmente, fisicamente. La donna non sarebbe un soggetto, chiede dunque alle donne di accettare la responsabilità di progettare la propria vita, superando «la tentazione di fuggire la propria libertà» e rifiutando ogni complice sottomissione agli uomini. Il condizionamento operato sul comportamento delle donne dai fattori culturali, sociali, di ambiente familiare ecc., avrebbero reso vana l’imputabilità delle azioni e dei comportamenti femminili, per le quali le donne non avrebbero alcuna responsabilità né morale né legale. Ne Il secondo sesso de Beauvoir afferma «poiché in partenza ha meno possibilità dell’uomo, non si sente colpevole a priori di fronte a lui; non spetta a lei riparare l’ingiustizia sociale, e non è sollecitata a farlo» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, p. 125). Le donne, esseri irresponsabili, anche moralmente, non per colpa loro, sono quindi esseri innocenti.
La responsabilità coincide con il dovere di chi ha il potere di agire per il bene di ciò che o di chi dipende da lui. E le donne non avrebbero mai posseduto questo potere. Paradigma di atteggiamento responsabile è la responsabilità parentale: i genitori hanno il dovere di fare tutto ciò che è nelle loro possibilità per il bene dei propri figli, assicurando loro un’infanzia felice, una buona educazione, un futuro, ecc. La responsabilità parentale ha le caratteristiche della totalità – i genitori hanno nei confronti dei figli una responsabilità che investe ogni aspetto, dalla semplice esistenza fino ai bisogni più elevati (educazione, cultura, felicità, benessere, sicurezza, protezione) – e della continuità: l’esercizio della responsabilità non può cessare, né concedersi alcuna tregua. Per molti aspetti analoga è la responsabilità dell’uomo politico nei confronti del cittadino. E se la politica, il potere, la costruzione del mondo è risieduta sulle spalle dell’uomo, su questo è ricaduto l’onere della responsabilità nei confronti della donna. Dunque, così come i genitori rispondono delle proprie azioni e sono sottoposti insindacabilmente al giudizio dei figli (anche di quelli “ingrati”), parimenti le donne si sono assunte questa potestà, attraverso il femminismo, di giudicare storicamente gli uomini e le loro azioni. Così facendo le donne hanno implicitamente ammesso la loro innata irresponsabilità e il loro ruolo di subordinazione e di dipendenza per ogni bisogno (educazione, cultura, felicità, benessere, sicurezza, protezione) dagli uomini, così come i figli ce l’hanno nei confronti dei genitori.
La colpa è sempre dell’uomo.
Sono gli uomini esseri assolutamente responsabili, come ipotizza Sartre? Viceversa, sono le donne esseri intrinsecamente irresponsabili, come sostiene implicitamente de Beauvoir? Concludo l’intervento con un’altra perla tratta dall’opera Questa metà della Terra di Rino Della Vecchia (disponibile anche in rete), a pagina 368: «In una riunione di famiglia associai quelli di mia madre a certi cattivi comportamenti di mio padre e li accomunai nel criticare certe falle, certe loro pecche educative nei confronti dei figli. Mia madre, scossa dalle mie parole, così disse con voce alterata: “Tutto quello che ho fatto l’ho fatto con infinito amore!”. Chi le può imputare qualcosa se la sua intenzione era eccellente, cosa può imputare a se stessa se ogni suo fare proviene da amore infinito? Mia madre è innocente. Mio padre, invece, quando viene attaccato, tace come se sentisse che le sue buone intenzioni non bastano ad escludere le sue responsabilità e infatti non bastano né davanti ai nostri occhi né davanti ai suoi. Accade come se i due vivessero in dimensioni morali separate, come se fosse vero che i maschi partecipano dell’Universo della Causa dove l’intenzione non conta nulla e le femmine di quello della Volontà dove la disposizione d’animo significa tutto e gli effetti – il male procurato agli altri – non hanno alcun valore». Inoltre, aggiungo io, agli occhi di tutti, la colpa di quel male ricade comunque sul marito, tanto nella dimensione morale quanto in quella penale, come sapevano molto bene le femministe di Seneca Falls.