Si è chiuso oggi uno dei procedimenti per diffamazione che negli ultimi anni sono stati aperti a mio carico. Forse il più simbolico di tutti. A segnalarmi all’autorità giudiziaria è stato, tramite la sua presidente Antonella Veltri, niente meno che il consorzio D.I.Re., il più ampio e importante coordinamento nazionale di centri antiviolenza e case rifugio in Italia. La loro querela individuava tre circostanze “delittuose” in particolare. La prima era questo articolo uscito nel marzo 2020 sul vecchio blog, per altro nemmeno scritto da me, ma di cui ero comunque responsabile in quanto titolare dello spazio web. Si trattava di un pezzo di satira sugli allarmi che, durante il periodo del lockdown e delle certificazioni, la politica, i media e l’ampio circuito dei centri antiviolenza diffondevano sulle donne italiane “prigioniere” in casa con aguzzini privi di ogni misericordia. In querela si sosteneva che le varie ironie fossero indirizzate, con scopi diffamatori, specificamente ad Antonella Veltri e a D.I.Re ma, a mio parere, è sufficiente rileggere il pezzo per rendersi conto che si trattava di un’accusa priva di fondamento: il bersaglio era, è e rimane, non una singola associazione, tanto meno una singola persona, ma un complesso insieme di lobby e interessi, nonché una mentalità generale, la cui esistenza rappresenta, a mio avviso, un gravissimo fattore inquinante per le relazioni tra uomini e donne.
La seconda circostanza riguardava un mio intervento su Facebook dove, stando alla querela, mi sarei comportato da “troll”, sollecitando i miei follower a recarsi su una pagina di D.I.Re. a disturbare un evento musicale online che vi si stava tenendo. Anche quest’accusa era, a mio parere, priva di fondamento, a partire dal fatto che l’evento in questione non si teneva su una pagina di D.I.Re., ma su quella dell’associazione “KeepOnLive” dove, di tanto in tanto, durante le esibizioni, venivano mandati spot con la richiesta di sostegno economico a D.I.Re. In tutto questo, l’aspetto più significativo è che per dimostrare il mio atteggiamento da “troll”, le querelanti hanno allegato lo screenshot di un post dove dicevo ai follower: «al posto della gita fuori porta potremmo ritrovarci tutti là per far presente (con educazione, per favore) che esiste un punto di vista diverso». Per la prima volta nella storia di internet, insomma, un “troll” raccomandava ai propri follower di essere pacati ed educati nell’esprimere un proprio parere. E forse per la prima volta nella storia giudiziaria un allegato inserito per dimostrare la colpevolezza dell’accusato ne accertava invece l’innocenza.
Anomalie del sistema.
L’apoteosi però è la terza circostanza menzionata. In querela si dice che in un certo momento (senza data precisa), in un certo posto (non si precisa dove), io avrei scritto «inqualificabili parassite» riferendomi, secondo la querela, «all’associazione D.I.Re., le sue rappresentanti e socie e chi ci lavora». Commento, dice la querela, che poi è stato cancellato ma che però è disponibile come screenshot in allegato. Peccato che dal 27 maggio 2020, data in cui la Procura dichiara di aver accertato il reato, alla data di oggi, quell’allegato non c’è mai stato, non s’è mai visto, non esiste. Non mi stupisce: quello non è il modo con cui esprimo le mie critiche, tanto meno su profili o pagine altrui. In ogni caso, in giuridichese questa cosa si chiama “assenza del corpo del reato”, situazione che in genere comporta l’archiviazione immediata della querela. Cosa in prima istanza avvenuta, per altro, presso la Procura di Cosenza dove era stata depositata: dietro opposizione delle querelanti, però, il procedimento è partito ed è stato spedito alla Procura di Genova, competente per territorio. Ed è qui che le cose si fanno curiose e angoscianti allo stesso tempo. Perché a Genova non solo il procedimento non è stato archiviato, ma si è addirittura concluso con una mia condanna.
A norma di Codice di Procedura Penale e limitatamente a reati non gravi, infatti, la Procura ha la possibilità di condannare l’accusato, se ritiene che il suo reato sia palesemente dimostrato, dunque senza che ci sia necessità di accertamenti e dibattimenti. Può capitare, in sostanza, come è capitato a me, di trovarsi condannati senza aver partecipato a un processo, perché la commissione del reato è giudicata dai magistrati palese e provata già solo dal narrato della querela e dai suoi allegati probatori. Quello che mi è scattato addosso, insomma, è un meccanismo di cui non ero a conoscenza, prima di finirci invischiato, pensato per desaturare i tribunali da cause di poco conto. Lì si è incardinata la stortura, ben rappresentata dal capo d’imputazione con cui la PM di Genova ha ritenuto di potermi condannare senza necessità di un processo. In esso si dice che il sottoscritto «pubblicando sul blog www.stalkersaraitu (visibile a tutti) un commento all’articolo intitolato “1522 e centri antiviolenza ai tempi del Covid”, nel quale si stigmatizzava l’operato dell’Associazione D.I.Re ed in particolare la presidente Antonella Veltri definendola imbonitrice e rea di lucrare sulla violenza nonché “inqualificabile parassita”, offendeva la reputazione di quest’ultima».
La strana metamorfosi dal plurale al singolare.
La Procura, in sostanza, ha mescolato le lagnanze relative a tre circostanze diverse creando dal nulla un evento unico in realtà mai avvenuto. Chissà, forse è una nuova tecnica dadaista insegnata nei numerosi corsi che i centri antiviolenza tengono ai magistrati… Con una grave ed emblematica anomalia in più: quell’espressione non provata da alcun allegato e che in querela appariva al plurale, nel capo d’imputazione magicamente si trasforma al singolare, come fosse direttamente rivolta ad Antonella Veltri. Naturalmente, appena la condanna mi è stata notificata e ho constatato quelle che mi parevano gravi storture, ho fatto ricorso. Da lì è nato un procedimento durato complessivamente trenta mesi, durante i quali ho depositato una memoria difensiva che polverizzava tutto il castello, e conclusosi oggi, quando la querelante ha ritenuto opportuno ritirare la denuncia da cui tutto era partito. A seguito della mia accettazione, il procedimento è estinto, così come la mia precedente condanna. Con il mio legale abbiamo proposto di subordinare l’accettazione alla garanzia che D.I.Re. non proceda dal lato civile, ma la controparte ha rifiutato. Segno che, fallito miseramente il tentativo dal lato penale, probabilmente proveranno ancora a farmi passare per colpevole e a portarmi via quanti più quattrini possibile (manco ne avessi) in un altro Tribunale.
Al di là del non sorprendente approccio aggressivo di D.I.Re., tuttavia, il punto vero è come il sistema giudiziario abbia ritenuto accettabile di trasformare una querela infondata e priva di prove in un procedimento. I molti a cui ho mostrato le carte sono stati unanimi nel definire il tutto, compreso il capo d’imputazione “dadaista”, un trappolone teso per vessare quanto più possibile, e così magari mettere a tacere, una persona le cui idee, opinioni e pubblicazioni proprio non si trova il modo di digerire né tanto meno di confutare. L’eventuale causa civile che volessero intentarmi confermerebbe questo piano di lettura. Non voglio però pensare né credere che sia così. Sicuramente è stata una sfortunata coincidenza astrale che ha coniugato l’ipersensibilità di D.I.Re. e delle sue animatrici rispetto a critiche argomentate ed espresse con un blando sarcasmo, lo zelo degli avvocati che seguono il consorzio e il sovraccarico di lavoro della Procura di Genova. Quello stesso sovraccarico che, a quanto mi consta finora, la induce a sonnecchiare sulle mie denunce e a svegliarsi solo per archiviarle (per poi andare in direttissima quando l’accusato sono io…), l’ha probabilmente indotta in questo caso a redigere quel il capo d’imputazione dadaista e addirittura a condannarmi in base ad esso.
Interessa il confronto o è solo questione di bavaglio e soldi?
Per la precisione, la condanna includeva, come spesso accade per gli incensurati come me, la sospensione della pena, sostituita da un’ammenda pecuniaria, anch’essa però “abbuonata”. Il mio certificato penale sarebbe rimasto pulito, insomma, e non avrei dovuto sborsare un centesimo. Avrei potuto accettare il (mis)fatto compiuto, pagare e tacere. Il problema è che ho una dignità che prescinde dai documenti giudiziari e quella condanna, emessa per di più con i presupposti che ho descritto, avrebbe rappresentato una macchia che per rispetto di me stesso non avrei mai accettato. Mi è costato molto questo procedimento, sia in termini economici (in piccola parte ammortizzati dalle donazioni dei lettori, che non finirò mai di ringraziare), che di salute, ma davvero non potevo non fare opposizione e chiedere, come previsto dalla legge, un dibattimento vero, che andasse a fondo su quell’anomala condanna sentenziata “in contumacia” con così nulle evidenze a supporto. Purtroppo non c’è stato il dibattimento che desideravo, ma la mia decisione di oppormi ha comunque obbligato tutti a scoprire le carte, con un risultato finale che è una frettolosa ritirata accompagnata da molto (ma davvero molto) rumore per nulla.
A fronte di tutto ciò rimangono gli altri procedimenti aperti, di cui darò conto alla loro conclusione, ma soprattutto rimane il senso generale di ciò che ho fatto in questi ultimi anni: provocazioni, ironie, sarcasmi, espressioni a volte audaci, è vero, ma mai dettati dalla volontà sterile di insultare per il gusto di insultare (tanto meno singoli individui), bensì un modo appassionato per sollecitare le controparti e l’opinione pubblica a un confronto nel merito, dati e argomenti alla mano, con lo scopo di cercare di fermare lo stillicidio che da troppo tempo avvelena le relazioni tra uomini e donne e di cui di recente abbiamo avuto prove spinte al parossismo. Per ora le mie controparti, invece di cogliere l’invito al confronto, hanno optato per le carte bollate, ossia, a mio parere, per il tentativo di delegittimarmi, chiudermi la bocca e forse vuotarmi le tasche tramite sentenza. Le tasche le hanno svuotate, perché difendersi in tribunale costa maledettamente, ma è davvero l’unica magra consolazione che possono vantare.