Nella gigantesca tempesta mediatica scatenatasi a seguito del caso di cronaca nera che ha coinvolto Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, c’è qualcosa che manca. Una questione che nessuno pare abbia il coraggio di affrontare. Dunque, come al solito, ci pensiamo noi. Si tratta del sistema e del suo funzionamento. I circa cento omicidi all’anno con vittime donna, di cui circa 40 classificabili come “delitti passionali” (oggi comunemente chiamati “femminicidi”), al di là della loro proporzione statistica, ingenerano uno straordinario allarme emotivo nella comunità nazionale e inducono una tangibile sensazione di insicurezza che coinvolge tutti, uomini e soprattutto donne. L’apparato di assistenza sul territorio c’è ed è amplissimo, basta guardare la mappa dei centri antiviolenza in Italia e gli stanziamenti di denaro pubblico di cui si giovano per rendersene conto. Le istituzioni pubbliche sono poi particolarmente attive su quel versante, con questure e tribunali tutti dotati di sezioni specializzate per il contrasto alla “violenza di genere”, sebbene intesa solo come quella contro le donne. Non meno importante, ci sono le leggi, tante, diversificate, ognuna indurita o rafforzata ad ogni evento di cronaca, tanto che oggi lo stalking è giuridicamente equiparato a un reato di mafia e in questi giorni si parla di licenziare un “Codice Rosso rafforzato”.
Questo enorme insieme, che è tale ormai da molti anni (la legge “anti-stalking” è del 2009, ad esempio), costituisce il “sistema” che dovrebbe contribuire a ridurre la “violenza di genere”, omicidi in primis. A nessuno però viene in mente di chiedersi se per caso non funzioni e se non ci siano urgenti correttivi da fare. Eppure, se dopo tanto tempo e con tutto quell’apparato, istituzionale e non, ancora accadono tragedie come quelle di Cecchettin e Turetta e come quelle che l’hanno preceduta, forse è arrivato il momento di pensare a qualcosa di ulteriore e di meglio. Qualcosa di davvero efficace, non la solita stretta securitaria e repressiva o il solito profluvio di denari pubblici a strutture come i centri antiviolenza che, a conti fatti oggi possiamo ben dirlo mentre piangiamo l’ennesima tragedia, non funzionano. Non sfugge a nessuno che essi rappresentino ormai un’occasione mancata: il legame con l’agonizzante Convenzione di Istanbul li ha costituiti a senso unico (vi lavorano solo donne e i servizi sono soltanto per le donne) ed essi, approfittando della totale assenza di controlli da parte dello Stato che li finanzia perché svolgano attività di utilità pubblica, hanno finito per diventare in qualche caso serbatoio clientelare un po’ per tutti, con un occhio di favore per le aree progressiste, e sempre centrali lobbistiche con propaggini tentacolari in molti ambiti della vita civile.
Serve un codice etico.
Il sistema va cambiato, è evidente. La persistenza dei numeri della “violenza di genere” lungo gli anni dimostra che finora non si è centrato il bersaglio, anzi ci si è andati decisamente lontani. Oggi che l’ennesimo fatto di cronaca detta l’agenda della politica, ci sentiamo allora di avanzare noi una proposta al Governo e ai parlamentari che abbiano voglia di ascoltarla senza pregiudizi ideologici. Senza cioè, ad esempio, respingere un assunto nuovo, sebbene vecchissimo: la violenza non ha genere. Da questo si parte per concentrarsi sul vero punto cruciale, ossia le circostanze in cui per qualcuno (uomo o donna) la violenza diventa un’opzione accettabile, se non l’unica disponibile. Lì occorrerebbe intervenire, essenzialmente con azioni preventive, dal lato culturale anzitutto, quello più difficile, e poi dal lato pratico e operativo. Il primo aspetto richiederebbe sic et simpliciter, per cominciare, la rimozione da tutte le scuole di ogni programma o iniziativa che istituisca o anche soltanto suggerisca una forma di vittimizzazione per un genere e colpevolizzazione per l’altro. Inquinamenti di questo tipo sono la norma nella scuola italiana e nei suoi libri di testo, anche come declinazione dell’Agenda 2030 dell’ONU: come tali, andrebbero depennati senza esitazioni. Al loro posto servirebbe un intervento di più alto livello, antropologico, sociologico, ben radicato nella realtà biologica umana, quella che rende profondamente diversi uomo e donna ma anche profondamente complementari. S’è detto, è un lavoro complicato, anche per il coacervo di interessi che si è radicato nell’attuale tipo di didattica inquinante. È un lavoro di ripulitura lungo da farsi, ma possibile, e che dovrebbe coinvolgere, oltre alle scuole, anche istituzioni chiave come i tribunali e le forze dell’ordine.
Più semplice, nell’immediato, potrebbe invece essere il versante operativo. I centri antiviolenza e i servizi annessi vanno profondamente ripensati. La loro natura associativa dev’essere superata, perché per sua natura non consente un pieno controllo dello Stato sulle attività che svolgono. Meglio allora l’obbligo della forma cooperativa o di una delle tante altre forme giuridiche disponibili. La loro collocazione geografica dev’essere poi collegata ai dati sulle condanne per i “reati spia” registrate sui singoli territori, onde garantire di intervenire là dove serve, e la loro attività deve conformarsi alle normative che valgono per ogni soggetto che operi in sussidiarietà dello Stato, quindi quelle sulla trasparenza o sulla rendicontazione al centesimo dei contributi ricevuti, a loro volta da far dipendere da risultati dimostrabili. Ovvero: per ogni persona di cui si provi l’uscita da una situazione di violenza acclarata da terzi (i tribunali), si ottiene un punteggio. A fine anno chi ha maggiori punteggi riceve maggiori risorse, chi invece su questo aspetto è inefficiente ne riceve meno o non ne riceve proprio. In ogni caso, le risorse dovrebbero essere vincolate alla prestazione di servizi all’utenza, con limiti d’uso rigorosi per attività collaterali (comunicazione, convegnistica e similari), ferma restando la possibilità di trovare ulteriori fonti di finanziamento diverse da quelle pubbliche. In altre parole, lo Stato deve mettere meglio a frutto il denaro pubblico che investe nella prevenzione attraverso i centri antiviolenza, operando da controllore, da un lato, e dall’altro da guida organizzativa e geo-sociale. A regolamentare il tutto, un codice etico, che sarebbe il cuore della riforma che proponiamo.
Politicanti o persone di Stato?
Nel codice etico si supererebbe ad abundantiam, quindi per il meglio, il dettato stringente e ormai destituito di autorevolezza della Convenzione di Istanbul e si allargherebbero i servizi anche agli uomini. Non soltanto quelli vittime di violenza che, sebbene minoritari, esistono (ne teniamo un conteggio parzialissimo qui) e non possono essere trascurati, e nemmeno quelli “maltrattanti”, su cui si è innestata per altro un’altra inefficace pratica di assorbimento di risorse pubbliche, anche in questo caso trascurando indebitamente le donne “maltrattanti”. La “sezione maschile” dei centri antiviolenza dovrebbe essere pensata come una forma omologa e riarticolata per genere di quanto già esiste per le donne. Queste possono facilmente trovare, dal 1522 in su, non solo assistenza se subiscono violenza, ma anche sostegno umano e psicologico in momenti di dubbi, crisi, squilibrio emotivo, incertezze. Criticità da cui gli uomini non sono immuni. Differiscono molto spesso (ma non sempre) nel modo di reagire al disagio ed è lì che possono determinarsi le circostanze che ad alcuni fanno apparire la violenza come una via percorribile. L’uomo lacerato dal dolore per un abbandono in Italia è lasciato solo con i suoi pensieri, senza nessuno che possa fermare le spirali innescate da lacerazioni profonde, la cui dignità è ora che venga riconosciuta. L’uomo piegato dal dolore interiore non ha mai nessuno a portata di mano per quel confronto con l’altro che già solo per il fatto di esistere è capace di fermare le contorsioni emotive e psicologiche più pericolose. Si tratta di condizioni umane che non vanno derubricate con sufficienza, tanto meno derise o sottovalutate, solo perché riferite al mondo maschile. Riconoscere una dignità al dolore degli uomini è già un primo passo per arginare la possibilità che esso possa tracimare e concretizzarsi in gesti estremi.
Così, dunque, una riforma del sistema, nel mettere a regime i centri antiviolenza esistenti, dovrebbe rendere obbligatoria la presenza di “sezioni maschili”, orientate ad accogliere, sostenere e consigliare chi è vittima di violenza. Ma soprattutto esse avrebbero lo scopo precipuo di mettersi a disposizione degli uomini in stato emotivo critico, via telefono o via web, ma preferibilmente di persona. Non servono particolari competenze, non servono psichiatri, psicologi o educatori per parlare con un uomo disperato per ragioni “passionali”. Tra gli uomini che mantengono questo blog nessuno ha competenze specifiche del genere, eppure negli ultimi sette anni hanno salvato dal suicidio una quindicina di uomini e da gesti inconsulti contro terzi altri quattro. E l’hanno fatto sempre incontrando i soggetti di persona, diventando, occhi negli occhi, la loro camera di compensazione, mostrando loro il campo aperto delle possibilità future che il dolore avvolgeva nel buio cieco di una disperazione legata all’oggi, ai ricordi e alle promesse infrante. Per distogliere da pensieri estremi un uomo spesso è sufficiente un altro uomo che abbia passato le stesse sofferenze e ne sia uscito o un padre miracolosamente sopravvissuto a una separazione conflittuale. Ausili di questo tipo, legittimati e sostenuti in attività di intercettazione del disagio, in pochi anni ridurrebbero la quota di “omicidi passionali” dai soliti quaranta annuali a forse una decina, magari anche meno. E non è un’ipotesi né una proiezione, è certezza. Nel mettere mano alle leggi dunque, signori e signore delle istituzioni, lasciate perdere le manette o i braccialetti elettronici. Armatevi di coraggio e revisionate radicalmente questo sistema disfunzionale, ormai degradatosi in un meccanismo che alimenta i conflitti, non li risolve, anzi spesso li esacerba per creare così l’occasione di lucrarci sopra in qualche forma. Avrete meno plausi nell’immediato, ma i risultati arriveranno in breve tempo. La nostra esperienza e le nostre conoscenze, nel caso, saranno al vostro servizio. L’iniziativa, però, resta affidata alle vostre mani e alla vostra capacità di scegliere tra il cinismo del politicante o la lungimiranza della persona di Stato che ha a cuore i propri cittadini e il loro futuro.