La Fionda

L’orrore, la rabbia, e l’omino genderbread

Come per tutti gli uomini “bianchi etero-cis” del paese, in questi giorni gli algoritmi dei social mi subissano di post che commentano l’omicidio di Giulia Cecchettin. Una tragedia terribile, che fa gelare il sangue, che ispira orrore e rabbia, qualcosa che vorremmo non accadesse più. Tuttavia non è (solo) questo il tema di cui i social mi sommergono in questi giorni, anzi, pare semmai un aspetto in secondo piano. Ciò che il 99% dei post trasmette è la solita paternale femminista sulla “cultura patriarcale”: gli uomini (inteso con ciò i circa 25 milioni di uomini adulti del nostro paese) non possono auto-assolversi solo perché non l’hanno uccisa loro, Giulia. Sono “parte del problema”, tutti, nessuno escluso. Il coro unanime include Elena, la sorella della vittima, che così ha dichiarato alla stampa: «Gli uomini devono fare un mea culpa, anche chi non ha mai fatto niente, anche chi non ha mai torto un capello. Io sono sicura che nella vostra vita c’è stato almeno un episodio in cui avete mancato di rispetto a una donna, in quanto donna. Avete magari fatto del catcalling, dei commenti sessisti con i vostri amici, l’ironia da spogliatoio non va bene, fatevi un esame di coscienza e imparate da questo episodio». Credo, e voglio sperare, che Elena in questo momento di lutto così profondo parli così non per calcolo, ma per seria e profonda convinzione: perché è giovane e come tutti i giovani della generazione di Instagram e TikTok è cresciuta immersa in questi messaggi e slogan.

Vallo a spiegare, a questi giovani, che in Italia ci sono milioni di uomini e donne che ogni giorno interagiscono, in positivo e in negativo: volendosi bene, amandosi, sostenendosi a vicenda, ma talvolta litigando, confliggendo, alzando la voce, e in qualche caso anche manifestando la propria attrazione fisica, in modi magari maldestri e grossolani, spesso scherzosi, qualche volta meno, sporcati magari da quel disprezzo tipico della volpe che finge di sminuire l’uva cui non riesce ad arrivare. Vallo a spiegare, a questi giovani, che nonostante queste costanti interazioni quotidiane tra decine di milioni di individui dei due sessi, l’omicidio di un uomo ai danni di una donna “per ragione di dominio o possesso” conta poche decine di casi all’anno, e che in Italia succede meno che in quasi tutto il resto del mondo (lo ha ammesso perfino il Presidente della Corte di Cassazione), e che per giunta in una percentuale significativa di questi casi i perpetratori sono stranieri. A nulla vale. Siamo soffocati da decine di post, articoli, programmi tv che, tirando in ballo numeri un po’ a caso (alcuni sparano “105 femminicidi”, che invece è il numero totale delle donne uccise da inizio anno), ci dicono che siamo immersi fin dalla nascita in una “cultura della violenza e del possesso” che premia e privilegia la “mascolinità tossica”, che è urgente una “rivoluzione culturale” in cui gli uomini devono essere tutti rieducati fin dalla scuola all’affettività e al rispetto delle donne, che a commettere violenza e seminare morte sono proprio “i bravi ragazzi”, che l’uomo in-quanto-uomo deve vergognarsi e chiedere scusa a tutte le donne in-quanto-donne, e che chi non si unisce al coro deve sentirsi colpevole del delitto quanto l’assassino.

Giulia Cecchettin Filippo Turetta
Giulia Cecchettin e Filippo Turetta.

Il profluvio di elenchi gonfiati.

Prontamente troviamo schiere di uomini compiacenti, che abbassano il capo e se lo cospargono di cenere. A partire dal leader di Forza Italia Antonio Tajani: «Ancora una volta come marito, come padre e come nonno, chiedo scusa a tutte le donne per quello che uomini privi di intelligenza e privi di amore hanno fatto e continuano a fare»; passando per Piero Pelù che scrive «Mi vergogno di essere uomo. Siamo tutti da rifare» e Francesco Renga, che si rivolge direttamente a Giulia, in quanto evidentemente si percepisce correo dell’omicidio: «Giulia… ti chiedo scusa»; fino a tutta una serie di altri vips, creators e influencers che cercano di trascinare tutti gli altri uomini in questo delirio collettivo, ad esempio: «Uomini, non voltiamoci più dall’altra parte. Dover cambiare, crescere è nostra responsabilità. Vergognarsi non basta». Ma, tanto per cominciare, “vergognarsi” per cosa di preciso? Io che, pur in-quanto-uomo non ho ad oggi commesso reati né penali né amministrativi, rimango perplesso da tutte queste richieste, ho tentato di far modestamente notare sotto a questi post che anche le donne uccidono, qualche volta, gli uomini: a volte ci riescono, altre volte no (ma provare e non riuscirci non certo le assolve dal loro gesto omicida), e nel complesso il numero di casi di cronaca di questo tipo (che La Fionda raccoglie) non è poi così tanto lontano dalla quarantina di “femminicidi” che annualmente avvengono in Italia. E che però non ho sentito tutto questo rumore ad esempio nel caso di Valentina Buscaro, colpevole di aver ammazzato il partner Mattia Caruso a sangue freddo a coltellate a fine settembre, oppure per quello di Vita Di Bono, che lo scorso 5 novembre ha accoltellato il marito Luigi Buccino mentre dormiva, per poi suicidarsi. Risposte tipiche: i fenomeni non sono paragonabili (invece lo sono), i femminicidi sono in aumento (no, sono costanti), sono un problema sociale (perché allora le vittime maschili no?), perché tiro fuori questi dati solo ora che è stato commesso un femminicidio? (no, ne parlo sempre, sono i media che non ne parlano mai), sono un misogino incel, devo vergognarmi e stare zitto e basta (vabbè, lasciamo perdere).

Questo caso di cronaca però a ben vedere non è diverso dagli altri che hanno visto una vittima donna, perché allora anche in tv non si parla d’altro e si esprime chiunque? Il mistero sembrerebbe ben presto risolto guardando al calendario: siamo a pochi giorni dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne: data intorno alla quale il martellamento mediatico sulla “violenza di genere”, da fastidioso e costante rumore di fondo, diventa per 2-3 settimane un boato assordante, per poi tornare il solito fastidioso costante rumore di fondo. Eppure dev’esserci qualcos’altro: l’anno scorso, di questi tempi, non si faceva così chiasso su un singolo episodio. Vero, le due vittime più prossime al 25 novembre 2022 erano state uccise da assassini di origine straniera (e quindi non contano, no?), però c’era stato il caso di Paola Larocca il 16 novembre, ammazzata dal marito, italiano, perché non voleva separarsi: caso perfetto da manuale femminista. Mi viene in mente che già prima del caso di Giulia si stava alzando sui media il volume sulla “violenza di genere”, ma con un “tema” ricorrente. Ad esempio, avevo notato sul numero 47 di Vanity Fair la dicitura: “Numero speciale contro la violenza sulle donne”; personaggio di copertina Paola Cortellesi, con il titolo Domani è adesso, e il sottotitolo: «Per fermare i femminicidi, per insegnare il rispetto, per abbattere il patriarcato. La donna più forte del momento apre uno squarcio sul futuro da costruire subito». Incuriosito da questo “futuro da costruire subito”, mi sono messo a leggere. Apre la rivista l’editoriale di Simone Marchetti: «Molte attiviste ci hanno insegnato che non si può cedere di un passo, che non si deve perdonare nulla, che non si può sopportare un sopruso in più. Dal linguaggio che usiamo e che va ripensato ai privilegi riservati solo agli uomini, fino alle leggi da cambiare – per spezzare lo status quo occorre un’azione senza se e senza ma, un’azione dura, a volte persino spietata»: sembra di sentire una delle dichiarazioni o dei post di questi giorni. Segue l’elenco di 85 “vittime di femminicidio” dall’inizio del 2023: elenco gonfiato, come quasi tutti gli altri, tranne forse quello tenuto da femminicidioitalia.info, il cui criterio di selezione è vicino a quello della Polizia di Stato, che ne conta 39.

genderbread person
Lo schema esplicativo della “genderbread person” di Sam Killerman.

Un cavallo di Troia per entrare nelle scuole.

Si entra poi nel vivo con l’articolo di Elio Franzini, Rettore dell’Università degli Studi di Milano. Titolo: Educazione sentimentale all’università. Incipit: «Il tragico aumento dei femminicidi e della violenza sulle donne…» e già non ci siamo, perché non si assiste a nessun “tragico aumento”, come i nostri lettori ben sanno (e il Magnifico Rettore, evidentemente, no). Segue dicendo che per far fronte a questo aumento inesistente, «abbiamo avviato attività didattiche trasversali a tutte le Facoltà dedicate ai temi di parità, diritti e inclusione … iniziativa nata dalla consapevolezza che i giovani, e non solo, abbiano oggi necessità di una nuova “educazione sentimentale”». Ecco dove l’avevo sentito di recente, il ritornello “serve un’educazione affettiva fin dalla scuola”. Vado avanti: articolo Il patriarcato frena l’emotività, in cui Andrea Colamedici e Maura Gancitano ci spiegano che «l’educazione sentimentale degli uomini è stata gravemente trascurata e distorta dalla società patriarcale; questa negligenza ha generato una crisi emotiva silenziosa ma devastante, giunta oggi a una fase terminale… studi recenti in psicologia e sociologia supportano l’idea che l’inibizione emotiva, spesso inculcata negli uomini fin da bambini può portare a problemi come depressione, ansia e aggressività». Subito dopo c’è l’articolo-intervista a Paola Cortellesi. (Il suo nuovo film, mi dicono, è un inno alla narrazione femminista e il sesso maschile ne esce fuori abbastanza malconcio). Domanda: «Peccato che la scuola italiana non preveda un percorso di educazione all’affettività. Di recente una proposta per introdurre l’educazione sessuale è stata derisa in parlamento». Risposta: «Un deputato della Lega ha definito “una nefandezza” l’idea di “insegnare il sesso ai nostri figli di sei anni”.

Quando ho sentito la notizia ho pensato proprio il contrario, l’educazione all’affettività e al rispetto di sé andrebbe iniziata alla scuola dell’infanzia». E magari ci mettiamo anche l’omino genderbread e gli orientamenti sessuali, che ne dice, Cortellesi? L’intervista si chiude con l’idea geniale della regista di «unire le forze» politiche tra la Schlein e la Meloni «per un progetto, un accordo su temi che le riguardano entrambe, come la prevenzione dei femminicidi, a partire dalla scuola». Segue un articolo di Alessia Arcolaci, dal titolo La violenza è un problema di tutti (tutti!) in cui è intervistata Marina Contino, «Primo Dirigente del Servizio Centrale Anticrimine della Polizia che si occupa di violenza di genere e minori». Prima domanda: «Dottoressa Contino, da dove è necessario ripartire per contrastare la violenza di genere?». Risposta: «Per delitti che affondano le radici in una cultura di sopraffazione, non può bastare lo strumento repressivo. Bisogna fare educazione fin dall’infanzia … in passato ho utilizzato anche la campagna sul bullismo per trovare una via per parlare a quelli che saranno gli uomini di domani» (alle donne di domani non c’è bisogno), «per far capire ai ragazzi cosa si intende quando si parla di violenza contro le donne» (far capire alle ragazze cosa si intende quando si parla di violenza contro gli uomini, non importa), «un’educazione di questo genere va fatta fin dalla minore età». E prosegue: «Con il Codice Rosso possono essere attivate procedure a protezione della vittima. Purtroppo in molti casi questo non basta, ecco perché sostengo con forza che è necessario intervenire prima. Quando arriviamo al procedimento penale siamo arrivati tardi. A livello operativo è abbastanza rapido arrestare l’autore del femminicidio, ma non dà soddisfazione. Siamo arrivati tardi». Arrestare il colpevole di un reato, insomma, meh… sì, si può fare, ma “non dà soddisfazione”… sarebbe meglio arrestarli prima che commettano i reati. Ma come si può fare? Ho un’ideona, che a breve suggerirò alla Dr.ssa Contino.

manette

La peggiore politica si scatena.

La scrittrice femminista Valeria Fonte, intanto, in un recente articolo proprio per Vanity Fair ci ha insegnato che «Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida»: « Le donne sono mostri, in qualche modo; capaci di una potenza esistenziale, decisionale e sessuale che, come ogni mostruosità, va messa in gabbia. … Gli uomini, invece, mostri non lo sono per niente. Non c’è niente di più ordinario di un uomo violento», scrive Fonte. E argomenta: «Qual è l’effettiva differenza fra uno che è un femminicida e uno che non lo è? L’uccisione di una donna, mi direte. Ma basta davvero questo per aprire un baratro fra chi commette un femminicidio e chi no? Prendiamo in esame uno che commette femminicidio, uno che stupra, uno che fa catcalling. In tutti i casi gli uomini esercitano controllo e possesso, solo in modi diversi. Uno si sente in diritto di commentare il tuo corpo, uno di stuprarlo, uno di ucciderlo». Fare un commento su qualcuno e ammazzarlo sono la stessa cosa, no? «I più interessanti sono i maschi che si assolvono. Davvero vi sentite salvi? Un uomo che non fa nessuna di queste cose ma dice alla fidanzata “Sei mia” con tono romantico è forse diverso? Uno che le dice “Meglio se indossi un altro vestito”? … Anche coloro che non hanno fatto niente di tutto questo, chi mi assicura che non lo faranno domani?». Non fa una piega. Siccome ammazzare qualcuno, o dirgli “cambia vestito”, sono praticamente la stessa cosa; e siccome, anche se non avete mai detto “cambia vestito” a qualcuno, potreste sempre farlo in futuro; ecco la mia proposta alla Dr.ssa Contino, una “soluzione finale”: arrestiamo tutti gli uomini, sulla fiducia, tutti e 25 milioni. Così li becchiamo prima di aver commesso qualsiasi reato (tanto, chi ci assicura che non lo commetteranno domani?): vedrà che “soddisfazione”!

Ovviamente, sto scherzando. La soluzione finale al problema della “violenza di genere” c’è, e ce l’hanno indicata filosofi, rettori, giornalisti, registi e dirigenti della Polizia, tutti d’accordo e in coro: è l’educazione affettiva degli uomini, fin dalla scuola dell’infanzia. Un bell’omino genderbread, una bella paternale sul rispetto delle donne e magari facciamo alzare in piedi tutti i bambini per chiedere scusa alle compagne, e i femminicidi saranno azzerati, vedrete. E ce l’avevano già detto! Per fare qualche esempio il 19 novembre, col cadavere di Giulia appena ritrovato, Marco Furfaro, deputato del PD, scriveva su X: «Ok, va bene, l’avete ridicolizzata, definita degradante, bocciata più volte, evocato fantomatiche teorie gender, ma che almeno la morte di Giulia Cecchettin serva a farvi rinsavire e compiere un gesto di civiltà: approviamo subito l’educazione sessuale e all’affettività nelle scuole». Siete rinsaviti, ora? E Monica Cirinnà: «Educazione al rispetto e all’affettività erano nella nostra legge Zan affossata in Senato dalla destra con voto segreto seguito da applausi. Ora tutti costoro devono tacere e sentirsi in colpa. Nel nome di Giulia Cecchettin basta lacrime di coccodrillo: ci ripensate?» Vi sentite in colpa, ci ripensate? “La destra” sembra di sì: il 20 il ministro Roccella dichiarava a La Stampa la disponibilità del governo a una legge bipartisan sull’educazione all’affettività, mentre già il giorno prima su Orizzonte Scuola si leggeva: «Il governo ha pianificato una campagna nelle scuole, coinvolgendo i ministri delle Pari Opportunità e della Famiglia, della Cultura e dell’Istruzione, per promuovere una maggiore consapevolezza». L’ha pianificata tutta nel pomeriggio del 19 o era già pronta?

false accuse false denunce

Soluzione finale e rieducazione.

Sembra quasi che stessero, tutti insieme, aspettando un caso di cronaca forte, d’impatto, possibilmente con colpevole italiano – un classico “bravo ragazzo” – sulla cui onda emotiva spingere per far ingoiare a tutti i genitori italiani (bipartisan) il rospo di una nuova spesa pubblica per l’urgenza di dover rieducare tutti i loro figli, ché il patriarcato e la mascolinità tossica, ora vi sarà evidente, ce l’hanno dentro. Fatto sta che lo stesso giorno il sottosegretario all’Istruzione Paola Frassinetti ha annunciato il piano “Educare alle relazioni”. Il progetto «mira all’educazione all’affettività tra bambini e ragazze, un passo fondamentale per contrastare il fenomeno del femminicidio e della violenza di genere» e «prevede l’introduzione di un’ora settimanale nelle scuole superiori. Gli incontri, estesi per tre mesi all’anno e per un totale di dodici sessioni» vedranno il supporto di «psicologi, avvocati, assistenti sociali, e organizzazioni contro la violenza di genere. Particolare attenzione verrà data all’interazione con influencer, cantanti e attori» e naturalmente «un aspetto chiave sarà la diffusione del numero verde antiviolenza 1522, con il coinvolgimento anche del mondo dello sport». Praticamente l’ora di dottrina femminista, con l’ingresso a scuola, in veste di figure autorevoli, di “figure professionali” formate ad hoc, influencer vari e attivisti rosa e queer. Tutti pronti a rieducare noi e i nostri figli. Non cascateci. Non fatevi rieducare.



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