Siamo bombardati quotidianamente dalla propaganda secondo la quale la donna è vittima, svantaggiata, oppressa a prescindere, “in-quanto-donna”, e l’uomo è carnefice, privilegiato, oppressore di default (soprattutto l’uomo “bianco etero-cis”). C’è però un atteggiamento della società, della cultura, dei media che è altrettanto pervasivo ma di cui è più difficile rendersi conto, perché ne siamo impregnati: quello per cui la donna è sempre vista con un occhio benevolo, di riguardo, rispetto agli uomini, noto come effetto “women-are-wonderful”, “le donne sono meravigliose”. Fenomeno per nulla innocuo perché, intrecciandosi con il pregiudizio contro gli uomini, contribuisce a perpetuare comportamenti sociali che danneggiano il sesso maschile nel suo complesso: ad esempio il fatto che sia scontato dare maggiore risalto alle donne tra le vittime di una guerra, o di una calamità naturale; che si tenda a ignorare la sofferenza maschile, ad esempio la strage continua degli incidenti sul lavoro o dei suicidi, che affliggono soprattutto gli uomini; che venga naturale dare precedenza alle donne nel momento di portare in salvo le persone durante un’emergenza.
Questa miscela esplosiva è nota in ambito scientifico come gamma bias, teoreticamente elaborata dagli psicologi Seager & Barry in uno studio del 2019, definita come l’atteggiamento diffuso per cui uno dei due sessi viene magnificato e celebrato mentre contemporaneamente si sminuisce e svaluta l’altro. Ma nell’ambito della questione maschile se ne parla da molto tempo, identificando i due poli del fenomeno con i nomi di ginocentrismo, l’attitudine a mettere le donne al centro del discorso sociale, che secondo molti studiosi avrebbe radici profonde nella cultura occidentale (e se ne ipotizzano anche origini biologiche), e misandria, l’odio verso il sesso maschile, che raggiunge livelli parossistici nel femminismo ma è generalizzato e normalizzato nel nostro quotidiano (e proprio per questo si fa fatica perfino a percepirlo come tale). Non sorprende che anche nel mondo della ricerca scientifica, dove da decenni si cerca sempre più di imporre con ogni mezzo (specie economico) sia la presenza femminile sia l’epistemologia femminista, sia molto facile incontrare studi che mettano al centro del proprio focus di ricerca la presunta sofferenza sociale delle donne in ogni sua forma possibile, mentre quelli che riguardano il sesso maschile siano rarissimi e, di solito, ignorati dalla comunità scientifica.
Lo studio sui bias dimenticato.
Eppure ogni tanto i dati, magari trovati per caso, cercando qualcos’altro, vengono fuori. Come scrive John Tierney, senior fellow al Manhattan Institute, nel suo articolo The Misogyny Myth, Il mito della misoginia: «Si dice sempre che la misoginia sia diffusa nella società moderna, ma dov’è che sta, di preciso? Per decenni, i ricercatori hanno cercato evidenze scientifiche di una discriminazione massiccia agita contro le donne, come il sessismo sistemico. Ma invece di trovare la misoginia, continuano a trovare qualcos’altro». Tierney coglie l’occasione per sottolineare questo punto nella discussione di un importante studio, uscito in versione definitiva lo scorso gennaio sul prestigioso Journal of Personality and Social Psychology, dal titolo Intersectional Implicit Bias: Evidence for asymmetrically compounding bias and the predominance of target gender. Questo studio, passato praticamente sotto silenzio dai media e nella stessa comunità scientifica, è importante anzitutto perché i ricercatori coinvolti non sono dei men’s rights activists né si occupano prevalentemente di ricerca focalizzata sugli uomini: lo scopo originario della ricerca era infatti esplorare l’intersezionalità dell’implicit bias (siamo quindi in territorio pienamente woke), ossia l’interazione di vari fattori – economici, sociali, legati a età, genere, provenienza geografica etc. – nel modulare il pregiudizio inconsapevole verso determinate categorie di persone.
Come spiegano gli autori della ricerca, un team di psicologi della Columbia University guidati da Paul Connor: «Nella maggior parte delle interazioni umane, gli individui mostrano diverse identità sociali sovrapposte, come razza, sesso, età, classe sociale. Eppure, nella ricerca empirica sull’implicit bias, si imposta l’indagine sempre isolando e misurando il pregiudizio verso una singola categoria binaria, ad esempio per dimostrare un pregiudizio che favorisce i bianchi rispetto ai neri. Non si è mai approfondito come le diverse caratteristiche contribuiscano congiuntamente al pregiudizio inconsapevole. Esistono categorie sociali più influenti di altre? Queste categorie interagiscono tra loro in modo tale che, per esempio, il pregiudizio verso il sesso si manifesta in modo diverso a seconda della razza, dell’età, del peso o altre caratteristiche?». Per garantire dei risultati significativi lo studio ha coinvolto un campione rappresentativo di oltre cinquemila adulti, e ha percorso cinque fasi. Nella prima, i soggetti erano chiamati a dare a impatto una valutazione positiva o negativa a 130 foto di uomini, bianchi e neri, di diverse classi sociali. Nella seconda fase, le valutazioni sono state estese a fotografie di soggetti asiatici e donne, di diverse età e classi sociali. Nella terza, sono state incluse foto che mostravano solo la parte superiore del corpo. Nella quarta fase, il corpo di immagini da valutare era lo stesso della fase precedente, ma le valutazioni sono state richieste a due diversi campioni rappresentativi di adulti. La quinta fase è stata quella di analisi, in cui i dati delle prime quattro fasi, tramite complesse procedure statistiche, sono stati confrontati e bilanciati in base alle caratteristiche demografiche dei soggetti del campione.
Una sfacciata discriminazione.
Ebbene i ricercatori hanno risposto alla propria domanda iniziale in modo in parte affermativo, trovando un piccolo ma significativo impatto dell’interazione di alcuni fattori nel pregiudizio inconsapevole: ma mentre l’età non ha mostrato avere alcuna influenza, e la razza un’influenza solo minima e non trasversale, una più elevata classe sociale (rappresentata nelle immagini valutate dall’abbigliamento e aspetto generale dei soggetti) era correlata, sia pur debolmente, a valutazioni più positive. Ma soprattutto legate a un altro fattore che, nelle parole degli autori, «guida sempre il pregiudizio»: il sesso. Il principale dato che è emerso dalla ricerca infatti è che indipendentemente da età, razza, classe sociale o sesso del soggetto valutante, si trova sempre e comunque una forte tendenza ad associare le donne a valutazioni positive, e gli uomini a valutazioni negative. Contrariamente alle narrazioni portate avanti dalle lobby femministe, arcobaleno e woke, l’unico pregiudizio che mette d’accordo tutti, di qualsiasi razza, di qualsiasi status sociale, e perfino gli uomini, è quello contro gli uomini.
Questo effetto era già stato misurato alcune volte (sebbene solo nell’ambito della ricerca specifica sulla questione maschile e mai in chiave “intersezionale”), divenendo appunto noto come “sessismo ostile” contro gli uomini o effetto “women-are-wonderful”. Però non se ne parla (e non se ne deve parlare). Una critica che viene rivolta a questo tipo di ricerche è che sebbene esse dimostrino un pregiudizio inconsapevole, “inconscio”, tale dato non implica necessariamente che esso si trasformerà in un comportamento concretamente discriminatorio: se questo in teoria è vero, nella pratica la discriminazione misandrica è sotto gli occhi di tutti. Come spiega John Tierney: «I critici dell’implicit bias sostengono che la misurazione del “razzismo inconsapevole” sia totalmente scollegata al comportamento che viene poi agito in società. Ma quando si parla di misandria, non abbiamo bisogno di scavare nell’inconscio e dimostrare questa correlazione. Dovunque si guardi, troviamo innumerevoli esempi di una cosciente, sfacciata e capillare discriminazione contro gli uomini e i ragazzi nelle società moderne».