Il Digital Services Act, la recente legge europea di regolamentazione dei contenuti del web, è stato elaborato parallelamente a un documento dell’ONU, Our common agenda, firmato dal Segretario Antonio Guterres (li abbiamo analizzati qui). I temi affrontati nel report sono ulteriormente dettagliati in una serie di “policy briefs”, l’ottava delle quali è appunto intitolata all’Integrità dell’informazione nelle piattaforme digitali. Il tema è complesso: se da un lato non possiamo negare l’importanza della corretta informazione e del contrasto alla diffusione di dati falsi, dall’altro occorre domandarsi se sia realmente possibile individuare soluzioni concrete che non finiscano per offrire il destro a condotte di tipo censorio su base ideologica. Cercheremo di mostrare come questi documenti non facciano eccezione e anzi si avvitino in palesi contraddizioni.
Il problema che si intende affrontare è così descritto (corsivi nostri): «L’iniziale ottimismo riguardo le potenzialità dei social media nel connettere e coinvolgere le persone si è progressivamente smorzato, di fronte alla disinformazione e ai “discorsi d’odio” (hate speech) che dai margini dello spazio digitale hanno man mano invaso il discorso mainstream. Il pericolo non può essere sovrastimato. Disinformazione e “discorsi d’odio” diffusi tramite social media possono condurre a violenze e morte. La capacità di questi strumenti di diffondere simili contenuti e smentire fatti scientificamente stabiliti pone una minaccia esistenziale all’umanità, alle istituzioni democratiche e ai diritti umani fondamentali». A sostegno di questa affermazione vengono indicate in una nota a margine cinque fonti, le quali sono tutti documenti emanati dalla stessa ONU, mancando ogni riferimento a una fonte terza che fornisca dati empirici a sostegno di questa relazione di causa-effetto. Questa autoreferenzialità si può osservare lungo tutto il documento in oggetto.
Quali basi?
Ulteriori dubbi sorgono dal fatto che una definizione precisa e operativa di quali siano i contenuti da contrastare e di come distinguerli da quelli leciti non esiste. Il documento stesso ammette questo punto debole: «Non esistono definizioni universalmente accettate di questi termini. Le Nazioni Unite ne hanno però sviluppate delle definizioni provvisorie». Ad esempio «la disinformazione è definita come ‘un’informazione falsa che venga diffusa con l’intenzione di provocare un grave danno alla società’». L’intenzione è ciò che distingue la “disinformazione” dalla misinformation, essendo quest’ultima definita come informazione falsa diffusa per inconsapevolezza. Ma come si fa a provare senza ombra di dubbio le intenzioni di un soggetto nel diffondere una certa informazione che poi si riveli scorretta? La definizione del “discorso d’odio” comprende un analogo elemento di soggettività: «ogni tipo di comunicazione che muova un attacco, o si riferisca in modo peggiorativo o discriminatorio, verso una persona o un gruppo, sulla base di aspetti della loro identità, come religione, etnia, nazionalità, colore della pelle, genere» (non ci sorprende che non si faccia menzione del sesso biologico). Ma le singole nazioni dispongono già di strumenti legislativi atti a contrastare la diffusione di informazioni oggettivamente false: «le leggi esistenti basate sulla diffamazione, il contrasto alla molestia e al bullismo online sono già efficacemente usate in svariati contesti per contrastare minacce all’integrità dell’informazione, senza la necessità di imporre ulteriori restrizioni alla libertà di espressione».
Allora di che stiamo parlando? Verrebbe da rispondere citando una delle (poche) strategie concrete proposte, il meraviglioso pre-bunking (non stiamo facendo satira, è letteralmente scritto a pag. 18): «rendere gli utenti edotti della falsità di determinate informazioni ancora prima che possano incontrarle sul web». Poiché le variazioni su un possibile dato o fatto sono potenzialmente infinite, è chiaro che non si può fare pre-bunking in senso letterale, facendo liste di tutte le possibili cose false che si possano articolare con il linguaggio (e pubblicare su web): questo metodo può essere inteso solo come mirato a specifiche affermazioni e opinioni che si decide di contrastare. E in effetti, già nel documento si inizia a fare pre-bunking, delineando alcuni prioritari esempi di verità ufficiali da difendere, come il climate change. «La disinformazione sull’emergenza climatica sta rallentando le urgenti azioni necessarie ad assicurare il futuro della vita sul pianeta. Essa può essere intesa come ogni contenuto che sminuisca le basi scientifiche ormai unanimemente stabilite dell’esistenza di un mutamento climatico in atto nel pianeta indotto dalle attività umane». Eppure il problema è complesso e il consenso scientifico su di esso tutt’altro che unanime: su quale base si può decidere che sia lecito usare il web solo per diffondere un’unica versione, piuttosto che per un dibattito aperto, pratica su cui da sempre si fonda l’indagine scientifica?
Affrontare la “disinformazione di genere”…
Probabilmente bisogna fidarsi di quello che Guterres ritiene buono e giusto, perché lui vuole il nostro bene. Un altro esempio significativo non si trova nel documento ma in una delle sue fonti, cui rimanda diverse volte: il report dell’incaricato speciale alla protezione del diritto alla libertà d’opinione Irene Khan, dal titolo Disinformazione e libertà di opinione e di espressione, datato aprile 2021. Argomentando su come la disinformazione possa nuocere alla regolarità dei processi elettorali, Khan cita ad esempio Trump e i suoi collaboratori che, durante la campagna elettorale per le elezioni USA del 2020, «cercarono ripetutamente di minare la fiducia degli elettori nel sistema di voto postale, tramite affermazioni prive di fondamento su potenziali frodi elettorali diffuse sui social media». Eppure, nella storia recente sono noti casi di frodi elettorali consentite dal mezzo del voto postale: quindi su che base si può considerare “disinformazione” l’espressione di una tale possibilità? D’altra parte nella policy brief viene ammesso nero su bianco che «Campagne di disinformazione sono state portate avanti da agenti istituzionali in cooperazione con realtà non istituzionali, per promuovere narrazioni nocive», e che «La disinformazione può essere deliberatamente usata da media ideologicamente orientati, cooptati da interessi politici e finanziari». E l’ONU non è forse un attore istituzionale, che esprime interessi politici e finanziari, così come la Commissione Europea, che si è autonominata principale responsabile esecutivo del DSA negli Stati membri?
Peraltro, a questo punto non può non venirci in mente un nostro pane quotidiano: la propaganda martellante su “violenza di genere” e “mascolinità tossica” per la quale, come documentiamo da anni, i media e le istituzioni (ONU compresa) fanno uso di ogni possibile strategia di disinformazione e di “discorso d’odio” (misandrico), cooptati da interessi finanziari e politici. Ribadiamo: in questa sede non stiamo affermando che diffondere notizie e narrazioni false sia innocuo. Siamo consapevoli del potenziale nocivo che lo strumento del web possiede di danneggiare persone, gruppi, categorie: è anzi una delle principali preoccupazioni che ci muove, basti pensare a quanto la narrazione misandrica diffusa dai gruppi d’interesse femministi possa risultare deleteria per la salute mentale degli uomini e dei ragazzi. Eppure saremmo pronti a scommettere che se il DSA fosse esteso a qualsiasi piattaforma online, il nostro spazio sarebbe tacciato (come già successo innumerevoli volte) di diffondere “misoginia” e disinformazione sulla violenza di genere, e censurato a breve giro. E forse non è un’idea peregrina, se nella policy le donne e le “minoranze oppresse” sono esplicitamente poste tra le categorie da proteggere da “discorsi d’odio” e disinformazione (sulla pelle degli uomini, invece, si può tranquillamente disinformare e diffondere odio), e se pure Irene Khan, nelle raccomandazioni espresse alla fine del suo report, scrive: «Nell’epoca del movimento Me Too, sia gli Stati che gli enti privati dovrebbero affrontare la “disinformazione di genere” su web come sforzo prioritario, e porre speciale attenzione alle sue conseguenze nel mondo reale».
Stiamo solo facendo disinformazione.
Se uno strumento di difesa dalla diffusione di notizie false e narrazioni distorte può esistere, non può essere l’istituzione di un gruppo di decisori investiti dall’alto della facoltà di decidere cosa è giusto e cosa sbagliato per il “bene pubblico”, e quindi cosa abbia diritto di entrare nel dibattito pubblico e cosa no. Se un antidoto esiste, non può che sostanziarsi nella libera circolazione delle idee e delle affermazioni (fermo restando il diritto a non essere diffamati), nel libero scambio e confronto tra le persone, i gruppi, le comunità, e quindi in un dia-logos, un discorso comune razionale e critico, in cui sia tutelato il diritto a dire una sciocchezza e quello a denunciarla come tale, attraverso il quale soltanto si può costruire una percezione più vicina all’obiettività e imparzialità. Ma questo lo sanno bene anche all’ONU. Basta leggere il già citato rapporto di Irene Khan nel quale l’autrice, descrivendo il diritto alla libertà di opinione ed espressione, finisce per evidenziare le contraddizioni insanabili della policy brief: «La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani tutela il diritto alla libertà di espressione, ivi inclusa la libertà di cercare, ricevere e impartire informazioni e idee di ogni tipo, incluse idee che possano sconcertare, disturbare o offendere qualcuno: gli individui hanno il diritto di esprimere opinioni e affermazioni poco fondate, così come di produrre satire e parodie. Essa tutela il diritto di intrattenere le proprie opinioni senza interferenze esterne.
Questo diritto è assoluto e non ammette restrizioni né eccezioni. Sebbene in realtà gli esseri umani siano costantemente influenzati, nei loro pensieri e opinioni, dagli altri, la libertà di esporsi a un ampio spettro di influenze è essa stessa una dimensione della propria autonomia. Ogni sforzo teso a imporre una data opinione o l’abbandono di un’opinione dev’essere proibito, così come ogni forma di azione manipolatoria tesa a influenzare il processo di ragionamento in modi non consensuali: l’equivalente di ciò nel mondo digitale potrebbe ad esempio consistere in dispositivi che consentano ad agenti statali e sovrastatali il controllo dei contenuti mediante potenti “raccomandazioni” alle piattaforme. La libertà di espressione può essere limitata solo allo scopo di rispettare i diritti e la reputazione degli individui, e di proteggere la sicurezza, la salute e la morale pubblica: ma le restrizioni devono essere eccezionali e rigidamente delineate. Leggi vaghe che conferiscano eccessiva discrezione sono incompatibili con la Dichiarazione». Ci si accorge subito che le linee-guida di Guterres e il DSA violano praticamente in ogni punto quanto stabilito dalla stessa ONU in merito di libertà di espressione. Eppure, sembra che se ne siano accorti solo in pochi. E che quei pochi stiano solo facendo disinformazione…