In una discussione sincera e oggettiva riguardante le relazioni tra sessi non può che emergere come innegabile (perché conforme alla natura) il seguente assioma: la donna è sempre valutata per ciò che è, l’uomo per ciò che fa e per ciò che ha. Non c’è alcuna distinzione di valore tra le due cose, non è lecito dire che l’una sia migliore dell’altra, nella misura in cui non è lecito dire che la neve è migliore della pioggia (o viceversa) o che la produzione di insulina da parte del pancreas è migliore della produzione di succhi gastrici da parte dello stomaco (o viceversa). È così e basta. Il DNA, prima ancora che l’esperienza storica e l’evoluzione culturale, dettano che sia così. Ciò che conta è che da quell’assioma si possono sviluppare alcune riflessioni rilevanti rispetto a ciò che costituisce la natura femminile e ciò che costituisce la natura maschile. Della prima non ci occupiamo: sarebbe dovere delle donne declinare una definizione autonoma e coerente, invece di perdersi in sciocchezze comparative come il gender pay gap o altre fanfaluche ideologiche simili. Più interessante per noi è occuparci della seconda.
Se un uomo è valutato per ciò che fa (e spesso ciò che ha deriva da ciò che fa), vuol dire che la sua identità maschile deriva in gran parte dalle cose che è in grado di mettere in atto. Più cose sa fare e meglio le sa fare, più la sua identità maschile si precisa e si rafforza. Il non-uomo, non a caso, è quell’individuo di sesso maschile le cui potenzialità vengono ridotte a una routine minimale o addirittura annullate. Il non-uomo posa la testa sul cuscino, di sera, e sta male perché sente di non aver fatto nulla di utile per sé o per gli altri durante la giornata. Il non-uomo è l’essere più innocuo e governabile che ci sia. Anche per questo, probabilmente, la società moderna industriale e post-industriale lo pone nelle condizioni di fare il meno possibile o di non fare nulla: lavori ripetitivi e standardizzati seguiti da un tempo libero sostanzialmente inattivo (tramite l’ipnosi televisiva o telematica) che intercettano il bisogno primario di un rifugio in cui l’uomo possa nascondersi a fronte del suo ruolo naturale di artefice: la pigrizia o, più precisamente, l’abulia (mentale e fisica).
L’uomo felice perché fa.
Definito il non-uomo, cosa costituisce l’uomo? L’azione e la costruzione, due elementi che sussistono anche come antitesi dell’abulia. L’uomo esiste, nella pienezza di una condizione soddisfacente, se fa ed è consapevole di fare. Non per forza rivoluzioni capaci di cambiare intere realtà. Anche piccole iniziative capaci di cambiare qualche piccolo angolo di qualche piccolo mondo, una volta portate a termine, danno all’uomo quel senso di pienezza che è tipicamente maschile e che afferma la maschilità in tutta la sua positività, sia che l’azione sia diretta a beneficio di se stessi o di altri o di un’intera comunità. L’uomo-uomo (ma la dinamica non è affatto estranea anche alla natura femminile) è colui che posa la testa sul cuscino, di sera, pervaso dalla sensazione di aver fatto qualcosa durante la giornata, che si tratti di una piccola riparazione, o di un esercizio fisico che contribuisce al suo benessere, o di un’azione generosa che migliora la vita di chi gli sta attorno, o di un qualunque lavoro iniziato e portato a termine. Non solo: l’uomo-uomo che si trova in questa condizione è più sollevato, felice e mosso da una pulsione a replicare più e più volte l’esperienza. L’azione, per l’uomo, è come una droga: più fa, crea, realizza, risolve, più è preso dal desiderio di fare, realizzare, risolvere. La sua identità più profonda è lì e la pulsione ad alimentarla è quanto di più naturale esista.
Rimane il punto più difficile: come innescare il passaggio dall’abulia imposta a livello sistemico a uno stato maschile pieno e proprio? Va detto che il fare ha il contraltare negativo della fatica, dell’impegno, di un percorso spesso tortuoso per raggiungere il compimento dell’azione intrapresa, di qualunque cosa si tratti. Caratteristiche quanto mai respingenti per il non-uomo impigrito, per quanto spesso consapevolmente depresso, il quale in genere contrappone una mancanza di motivazione all’azione. Si sta bene come si sta, spalmati su un divano a guardare lo sport in TV, non c’è motivazione a spegnere e ad agire in prima persona, dopo una svuotante giornata di lavoro uguale a tutte le altre. La chiave è capire che la motivazione ha effetti inversamente proporzionali alla disciplina: la prima è un fuoco che esplode nell’immediato, salvo spegnersi miseramente dopo poco, mentre la seconda è una piccola fiamma che faticosamente si fa strada, se debitamente alimentata, per poi divampare irrefrenabile lungo un percorso di impegno all’azione solo inizialmente gravoso, ma poi denso di endorfine e serotonina, le stesse che una gran massa di non-uomini assumono in modo artificiale. Alimentare una disciplina orientata al fare è uno degli elementi qualificanti dell’essere uomo. E dunque una delle principali soluzioni per coloro che si trovano nell’atroce condizione di non-uomini consapevoli di essere non-uomini. Fate un test con i vostri figli maschi abulici, ipnotizzati davanti ai videogame o ai social: farete l’esperienza di vedere la vita rinascere negli occhi di un giovane uomo, felice perché, finalmente, fa.