La vicenda della separazione “pubblica” tra Massimo Segre e Cristina Seymandi è finita in tendenza, com’era prevedibile, un po’ su tutte le piattaforme social, generando la tipica divisione tra quelli che “sto con lei” e quelli che “sto con lui”. Dà speranza nel futuro constatare che questi ultimi siano una strabordante maggioranza, composta per altro da un numero spropositato di donne. Gli altri, anche questa cosa del tutto prevedibile, virano invece verso il vittimismo, qualcuno definisce la reazione di Segre “una violenza” (con l’immancabile e tragicomico richiamo al “femminicidio”), mentre avvocati improvvisati suggeriscono che si tratti di diffamazione, dimenticando però che, essendo lei lì presente, la diffamazione non può essere lamentata. La stessa Seymandi, invece di optare per un dignitoso silenzio, chiama a raccolta i media per dire la sua e contrattaccare come può. Ne esce un quadro sgangherato, dove un po’ sembra alludere che anche lui avesse delle amanti, un po’ si descrive come vittima di un complotto, un po’ mostra i muscoli dell’empowered woman, mentre sul Corriere la fretta le fa dire (o fa scrivere al giornalista amico?) il nome sbagliato dell’ex, che da “Massimo” diventa “Giorgio”.
E mentre Seymandi, invece di una ritirata strategica e in buon ordine, decide di assomigliare a un carro armato che avanza dopo che una mina gli ha fatto saltare i cingoli, i peggiori a manifestarsi sono quelli che “ma cosa ce ne frega? Non sono fatti nostri!”. Si tratta indubbiamente di una vicenda privata, che però è arrivata alla conoscenza pubblica, e il fatto che i protagonisti non siano due persone “qualunque” ma appartengano a quella che in qualche misura può essere definita la classe dirigente contemporanea, legittima l’opinione pubblica a vedere nella condotta dei due qualcosa di esemplare, da esaminare e da cui eventualmente anche imparare qualcosa. È indubbio che ci siano questioni ben più importanti delle beghe pre-coniugali di due persone eppure, come abbiamo provato a dire ieri, l’intera gestione della faccenda può risultare paradigmatica. Anche per questo il femminismo nazionale si è scatenato, dopo aver tranquillamente ignorato il “femminicidio” di Iris Setti in quanto commesso da un immigrato («un pover’uomo», per altro «fisicamente spettacolare», come sottolineato dalla procuratrice di Rovereto Dr.ssa Del Tedesco, ora sotto indagine CSM per le sue parole…). Metti caso che altri uomini prendano Segre a modello e comincino ad alzare la testa… Non sia mai. Ed ecco che si diffonde una ridda di bislacche argomentazioni, tutte riducibili al concetto: “come ha osato Segre non subire il tradimento tacendo, al massimo gestendo la cosa in privato?”.
La verità è maschile.
Segre quindi viene accusato di aver fatto un gesto “patriarcale”. Chi siamo noi per biasimare il sacrosanto diritto femminile di saltare da un materasso all’altro, rendendo cornuto il poveretto al quale è in procinto di giurare amore eterno? Massimo (o Giorgio? Boh…) avrebbe dovuto accettare un matrimonio che nasceva all’insegna del tradimento e della menzogna, oppure avrebbe dovuto accettare con rassegnazione le voglie della sposina, facendo autocritica e chiedendosi perché lui non è stato in grado di darle quella soddisfazione che lei ha cercato tra le braccia di un altro. O di più di un altro, secondo lo sposo mancato. Ma soprattutto Massimo avrebbe dovuto tacere in pubblico, convocando lei in privato per dirle: «tesoro, so che stai fingendo di amarmi ma intanto ti fai le tue storie con altri uomini, ho le prove di un paio di amanti ma chissà quanti sono realmente. Non ti sposo più ma cerchiamo il modo di salvare la tua dignità, la tua immagine, la tua reputazione. Lasciamo che le tresche con i tuoi amanti le conosciate solo tu, i tuoi amanti, il personale degli alberghi nei quali vi incontravate e dei localini appartati che frequentavate, gli amici con i quali si sono vantati gli amanti e le amiche con le quali ti sei vantata tu, e poi quelle 2 o 300 persone del nostro ambiente presso le quali circolano battutine a doppio senso e pettegolezzi al vetriolo».
Non solo. Un uomo come lo sognano le femministe che oggi commentano il fatto avrebbe dovuto continuare: «lo sai, cara: per diffondere un segreto alla velocità della luce basta raccontarlo a un’amica raccomandandole di non dirlo a nessuno. E infatti il segreto è arrivato anche a me, nonostante il cornuto sia sempre l’ultimo a saperlo. Mi dispiacerebbe se tu venissi etichettata come una poco di buono dalla doppia faccia, una che vuole blindare il futuro sposando il “buon partito” ma intanto nel presente si fa i cazzi suoi. Letteralmente. Facciamo così: lasciamoci con una scusa farlocca, stendiamo un pietoso velo sulle corna lasciando che la verità la conoscano solo le persone che già ne sono al corrente e diamo una versione di comodo che ti salvi la faccia. Devi essere tu a lasciarmi alla vigilia del matrimonio. Racconta che sono alcolista e cocainomane, divento violento, ti maltratto e ti costringo a rapporti sessuali senza consenso. Va tanto di moda, ti crederanno, non hai idea di quante persone usino questa tattica per coprire le scappatelle. Per un po’ dovrebbe funzionare, almeno fino a quando la verità ufficiosa non scalzerà quella ufficiale, serpeggiando sotto forma di pettegolezzo da parte dei soliti bene informati». Invece no, Massimo non si è comportato come le femministe avrebbero voluto, non si è dimostrato sufficientemente sottomesso. Massimo ha preferito dire la verità. E così la verità viene fatta passare per “patriarcale”. Mentre in questo caso è solo e semplicemente maschile.