Anche in Australia, come in Europa e in molti stati americani, monta il dibattito sull’approccio dell’affermazione di genere (“gender affirming”) per bambini e adolescenti, ossia l’idea di assecondare in tutto e per tutto l’identità di genere proclamata dal minore e “affermarla” sia socialmente che tramite farmaci e interventi chirurgici: pratica in vertiginoso aumento negli ultimi anni, che garantisce ingenti profitti alle cliniche e ai professionisti che la promuovono. Si sostiene tipicamente che “la comunità scientifica” abbia definitivamente stabilito i benefici di questo approccio, che consentirebbe di salvare molti ragazzi con “incongruenza di genere” dal suicidio o da comportamenti autodistruttivi, e di migliorare la loro qualità della vita. In realtà tale approccio è sostenuto da alcune corporazioni di professionisti del settore e soggetti politici, come l’AAP (American Academy of Pediatrics), il WPATH (World Professional Association for Transgender Health) e la stessa OMS, ma questo non equivale all’esistenza di un ampio consenso scientifico sull’argomento. Lo conferma il fatto che paesi come il Regno Unito, la Svezia, la Finlandia, la Florida abbiano bandito o fortemente limitato tale pratica basandosi proprio su una valutazione complessiva (in gergo tecnico: review) dell’evidenza scientifica disponibile, e molti altri paesi come Irlanda, Norvegia, Olanda, Nuova Zelanda abbiano iniziato tale processo.
Il dibattito in corso in Australia su questa problematica ci consente di illustrare la discrepanza che può esistere tra l’evidenza scientifica e le pressioni politiche, sebbene queste ultime vengano spacciate per la prima. Partiamo da alcuni dati: il numero di minorenni medicalizzati nelle cliniche per disforia di genere in Australia sono aumentati da meno di 500 nel 2016 a oltre 2000 nel 2021; i trattamenti possono essere ottenuti gratuitamente, a spese dello Stato. L’approccio “gender affirming” è sostenuto dalle linee-guida ufficiali attualmente seguite nella pratica clinica in tutta la nazione. Qualche mese fa questo quadro è stato messo per l’ennesima volta in discussione quando la psichiatra Jillian Spencer, licenziata con l’accusa di “transfobia”, si è espressa pubblicamente contro l’affermazione di genere, sostenendo che il modello affermativo di fatto impone ai clinici di procedere con la transizione sociale e farmacologica dei bambini e degli adolescenti nonostante l’evidenza scientifica non dimostri che i benefici superino i rischi e i danni. Su questa base, Spencer ha proposto qualche settimana fa una petizione affinché sia affrontata e promossa dal Parlamento australiano una review scientifica indipendente sulla pratica clinica dell’incongruenza di genere per i minori, sullo stile di quelle che hanno portato a decisioni in senso diverso in Regno Unito e altri paesi: la petizione è già stata sottoscritta da almeno un centinaio di professionisti del settore. «Purtroppo» ha sottolineato la Spencer «molti colleghi non si esprimono pubblicamente in merito, per paura di perdere il proprio posto di lavoro».
Evidenze di bassa qualità.
Già era stato fatto un tentativo di petizione nel 2019: in pochi giorni aveva raccolto centinaia di adesioni. Nonostante ripetuti attacchi hacker, forti di questi numeri, i proponenti riuscirono a portare le proprie istanze al ministro della Salute in carica al tempo, Greg Hunt. Spinto anche da una serie di articoli di denuncia dedicati al problema dal The Australian, Hunt chiese al Royal Australasian College of Physicians (RACP) di condurre una review dei trattamenti per la disforia di genere sui minori. Il RACP rispose con una lettera in cui, pur ammettendo la generale mancanza di solide evidenze scientifiche a sostegno dell’affermazione di genere nei minori, e senza minimamente discutere i diversi approcci possibili, né i rischi delle pratiche affermative, invitava il governo a intraprendere politiche per facilitare l’accesso a tali pratiche, sconsigliando al tempo stesso la produzione di una review perché «l’esposizione mediatica procurerebbe ulteriore danno ai pazienti più fragili e alle loro famiglie», e suggerendo piuttosto di seguire «i suggerimenti e la pratica clinica di quei professionisti che hanno specifiche competenze sulla condizione in oggetto». In parole povere: lasciamo stare l’evidenza scientifica, si senta unicamente il parere di coloro che su queste pratiche ci fanno profitti.
Le linee-guida generalmente seguite in Australia sono quelle emesse dal Royal Children Hospital (RCH) di Melbourne, le quali però mostrano severe criticità: ad esempio il fatto che gli stessi autori di queste linee-guida affermassero, nella versione peer-reviewed del documento, «La scarsità di evidenza scientifica di alta qualità in merito a questo problema non ci consente di dare una valutazione di alto livello su queste nostre raccomandazioni» (e quindi su quale base le hanno emesse?). Oppure il fatto di non citare a proprio supporto alcuna review sistematica. Neanche la prima che sia stata prodotta sul problema, un paper del 2018 pubblicato su Pediatrics, cui aveva partecipato anche il direttore della ricerca dello stesso RCH: questa ricerca aveva trovato solo «evidenze di bassa qualità» in merito agli effetti fisici degli ormoni bloccanti e cross-sex, mentre riguardo gli effetti cognitivi e sociali aveva attestato una «generale mancanza di evidenze». Ma cosa si intende qui per “alta e bassa qualità”?
Ideologia e profitto.
Nell’interpretare la ricerca scientifica contemporanea occorre tener sempre presente la “gerarchia delle evidenze”, secondo la quale soppesare il peso effettivo di una data fonte. Il parere di un singolo esperto o di una commissione ristretta, per quanto utile, non può essere preso come l’ultima parola su un problema (ed è a questo livello, il più vulnerabile a influenze ideologiche e politiche, che le corporazioni e le associazioni di settore emettono le loro linee-guida e standard di condotta). Più significativo sarà un report di casi clinici, il quale però avrà un peso molto limitato. Per stabilire effettivamente lo stato dell’arte dell’evidenza scientifica su un problema occorre guardare a fonti più in alto nella piramide delle evidenze: in ambito medico si tratta soprattutto dei trial clinici (condotti su ampi campioni, usando protocolli corretti in doppio o triplo cieco, e via dicendo) e, ancora più in alto, le review sistematiche e le meta-analisi. In queste, gruppi di ricercatori prendono in esame il maggior numero possibile di singoli studi su un problema specifico, selezionano quelli condotti secondo i protocolli corretti (scartando quelli con campioni troppo piccoli, o non randomizzati, o con altri difetti di procedura: e spesso, in una review che tiene conto inizialmente di migliaia o decine di migliaia di studi, ne vengono considerati solo poche decine), e valutano, con procedure oggettive molto complesse, l’evidenza scientifica complessiva che emerge. In merito alle linee-guida del RCH era già stata chiamata ad esprimersi la Endocrine Society of Australia che così argomentò in una lettera del 2019 pubblicata sul The Australian: «Il RCP sostiene di aver stabilito gli standard di condotta per conto dell’intera nazione, ma il documento in questione rappresenta unicamente il parere di un singolo gruppo di sostenitori operanti per una singola istituzione. Ci sono innumerevoli problemi che il documento non affronta in modo adeguato (…) Il sostegno del RCH all’approccio affermativo equivale, di fatto, ad assecondare acriticamente i desideri di certi bambini, e implica che ogni riluttanza dei genitori nell’accettare il trattamento affermativo sia una resistenza dovuta a disinformazione, da superare con un “counseling” forzato orientato allo scopo».
Sulla base di tutte queste criticità anche il senatore Claire Chandler del Liberal Party australiano ha ribadito nei giorni scorsi in un’intervista per Gender Clinic News la necessità di una «indagine indipendente promossa dal governo, affinché si dia una chiara valutazione dei fatti e si ponga fine alla pratica di mettere a tacere ogni voce dissenziente, che tutti in questo dibattito hanno subito, dai genitori dei pazienti ai professionisti del settore ai giornalisti. È essenziale che l’indagine sia condotta in maniera totalmente indipendente dall’industria delle gender clinics. Non possiamo perpetuare la presente situazione in cui questa corporazione, che in pratica si dà da se stessa le regole da seguire, è considerata anche l’autorità in grado di valutare la bontà di queste regole. L’indagine di cui abbiamo bisogno dev’essere condotta in modo trasparente, sulla base dell’evidenza scientifica, e tenendo conto dei risultati già ottenuti da simili reviews intraprese in altri paesi». In altre parole: occorre seguire realmente l’evidenza scientifica, e non il culto degli ideologi del gender e delle lobby che ne traggono profitto.