Negli ultimi anni, durante il “mese dell’orgoglio GLBT”, saltano sempre più all’occhio le maggiori contraddizioni della propaganda arcobaleno: mentre le associazioni e i movimenti di settore approfittano di questo periodo per gonfiare in tutti i modi la percezione di una presunta discriminazione “sistemica” delle persone omosessuali nell’opinione pubblica, i principali marchi finanziari e di beni di consumo, ma anche i più alti livelli delle istituzioni e della ricerca, tipicamente si tingono di tutti i colori in onore della bandiera arcobaleno. La contraddizione è risaltata in questo inizio di giugno 2023, in cui si è assistito contemporaneamente alla celebrazione della bandiera arcobaleno alla Casa Bianca e al lancio dell’allarme da parte della lobby Human Research Foundation riguardo un presunto “stato di emergenza” per le persone omosessuali negli USA, in realtà rivelatosi unicamente misurato sulla reazione di alcuni Stati alla crescente pervasiva diffusione dell’ideologia gender (ne abbiamo parlato qua). Ma chi è che spinge per questa ideologia e in che modo riesce a coinvolgere in tal misura il mondo della finanza e del largo consumo, nonostante il target diretto sia una strettissima minoranza della popolazione e nonostante il largo pubblico non sembri gradire più di tanto? Il meccanismo è nascosto nelle politiche ESG.
Per capire di cosa si tratta, dobbiamo comprendere il processo per mezzo del quale il mondo dell’alta finanza riesce a indirizzare decisioni e orientamenti delle grandi compagnie commerciali in una direzione che negli ultimi quindici anni è sempre più smaccatamente quella indicata dai maggiori ideologi della cultura woke, che comprende femminismo intersezionalista, lotta al “privilegio bianco”, teoria queer, ideologia gender e anche l’estremismo green, tutti impegnati a lavorare alacremente per riscrivere il passato dell’umanità, controllarne il presente, e scolpirne il futuro in senso transumanista. Sebbene si tratti di interessi e poteri espressi principalmente dal mondo “occidentale”, è proprio attraverso l’influenza sui social media e sui grandi gruppi di mercato e di investimento che la cultura woke si diffonde in maniera capillare e surrettizia nell’opinione pubblica a livello globale. Il meccanismo che viene usato per spingere l’ideologia nel mercato scavalcando le comuni dinamiche della domanda e dell’offerta ha un nome espresso da tre lettere: ESG, Environmental, Social & Governance (istanze ambientali, sociali e normative). Nelle intenzioni dichiarate, si tratta di una visione di finanza a lungo termine in cui i fondi d’investimento non vengono impiegati unicamente guardando al profitto, ma a un complesso bilanciamento tra profitto e “sostenibilità” ambientale e sociale. In questo modo gli investitori possono scegliere di impiegare le proprie risorse prevedendo un profitto magari non massimizzato, ma “sostenibile” per l’umanità e il pianeta, avendo così la percezione di fare la propria parte per migliorare il mondo. Fin qui sembrerebbe nulla di male, anzi, un progetto positivo. Peccato che nel corso degli anni la politica ESG da una libera scelta degli investitori sia diventata preponderante e pressoché obbligatoria, perché i principali assets managers (i grandi gruppi di gestione dei fondi d’investimento) hanno iniziato sia a porla in automatico alla base delle proprie scelte legate alla gestione dei fondi, sia a seguire classificazioni della “sostenibilità” delle imprese basate su criteri variamente definiti, sulla carta legati a istanze di ambientalismo e politiche sociali, ma nella pratica legati all’ideologia che si vuole spingere. Per cui ci saranno imprese “buone” nel proprio livello di impegno ESG e imprese “cattive”, e naturalmente i fondi andranno in preferenza alle imprese “buone”.
La politica ESG.
Ovviamente, proprio come la principale propulsione all’ideologia gender non è venuta “dal basso” ma dall’ambito accademico e da azioni di lobby nei palazzi del potere sovranazionale (un’ottima ricostruzione si trova nel libro La guerra del gender, di Dale O’Leary), così la politica ESG è stata calata dall’alto. Uno dei principali proponenti riconosciuti è Larry Fink, CEO di BlackRock (uno dei più potenti e influenti gruppi di gestione di investimenti al mondo), che in una serie di lettere aperte pubblicate negli ultimi cinque anni ha introdotto al mondo dell’alta finanza questa «nuova era». Ma la spinta era già arrivata dalle Nazioni Unite. L’ONU infatti produsse nel 2004 uno storico rapporto, intitolato Who Cares Wins, voluto non da associazioni ambientaliste o GLBT ma da banche e gruppi finanziari del calibro di Goldman Sachs, Deutsche Bank e Morgan Stanley, con il sottotitolo: Indicazioni dal settore dell’alta finanza per una migliore integrazione di istanze ambientaliste, sociali e normative nell’analisi e nella gestione dei fondi d’investimento. In questo rapporto veniva menzionata e raccomandata per la prima volta agli investitori e agli assets managers di tutto il mondo la politica ESG. Da allora, come dicevamo (e sono bastati appena due decenni) essa, da una “raccomandazione” di alcuni gruppi finanziari coadiuvata dall’ONU, è diventata la politica prioritaria o unica dei maggiori assets managers mondiali, con la conseguenza che se un’impresa non vuole rischiare di restare isolata dal mercato globale e dall’interesse dei maggiori investitori, dovrà assoggettarsi ai criteri di valutazione dell’impegno ESG. Criteri che rimangono però privi di uno standard condiviso ed empiricamente preciso, e perciò sono ampiamente soggetti all’arbitrio dei decisori che amministrano i fondi, i quali acquisiscono così la libertà di spingere le proprie agende politiche.
Per capire ancora meglio come ciò si realizzi in pratica bisogna introdurre il concetto di proxy voting, che potremmo tradurre come “voto per delega”. Semplificando, tutte le grandi compagnie tengono assemblee periodiche in cui si decidono le politiche (di mercato, di regolamenti interni, e via dicendo) da adottare, poniamo, nel corso dell’anno seguente. A queste assemblee avrebbero in teoria diritto di voto tutti gli investitori (in modo proporzionale all’investimento), ma molto spesso essi all’atto pratico “delegano” il compito di partecipare a queste assemblee ai gruppi finanziari che gestiscono i loro fondi, seguendo una dichiarazione d’intenti (“proxy statement”) generale da parte di questi managers. Quindi in sintesi, chi investe i propri soldi (e può essere un singolo individuo, una compagnia, una fondazione, un’istituzione) sceglierà a chi farli gestire tramite linee-guida che comprenderanno anche fattori non legati al mercato (ad esempio criteri di “virtuosità” sociale o ambientalista), e tramite l’affidamento dei fondi viene delegato a questi gruppi anche il diritto di voto nelle decisioni concrete, di mercato, di pubblicità, di norme interne e via dicendo, delle singole compagnie.
Forzare i comportamenti.
Ed è così che pochi gruppi estremamente potenti di gestione dei fondi riescono a piegare ai propri interessi e alla propria agenda le politiche seguendo le quali tantissime compagnie commerciali assumeranno il proprio personale, faranno pubblicità ai propri prodotti, sceglieranno su quali prodotti puntare e su quali no. L’influenza di queste reti di investimenti è così pesante sull’andamento dei bilanci delle grandi compagnie, che molto spesso la perdita momentanea per una campagna promozionale o un prodotto andato male (come nel caso della Bud Light sponsorizzata dal “transgender” Dylan Mulvaney, che ha fatto registrare grandi perdite in modo repentino) diventa un “investimento” sostenibile sul lungo termine, pur di non perdere la classificazione di “alto livello ESG”. Larry Fink ha così efficacemente riassunto il meccanismo di pressione risultante dalla politica ESG in una intervista rilasciata presso il DealBook Summit organizzato dal New York Times nel 2017, tornata di recente alla ribalta sui social: «Certi comportamenti devono cambiare. È questo che vogliamo dalle compagnie che finanziamo: dovete forzare determinati comportamenti. Alla BlackRock lo facciamo». Vedremo nell’articolo di venerdì alcuni esempi di questa politica in atto, e scopriremo qual è uno dei principali soggetti responsabili delle valutazioni di impegno ESG delle compagnie.