Come ogni giugno da qualche decennio, buona parte del dibattito mediatico è occupato dalle polemiche intorno al “mese dell’orgoglio GLBT”, istituito nel 1970 in seguito ai fatti di Stonewall del giugno 1969. Inevitabilmente, in questo periodo saltano particolarmente all’occhio le maggiori contraddizioni della propaganda arcobaleno: mentre le associazioni e i movimenti di settore approfittano di questo periodo per gonfiare in tutti i modi la percezione di una presunta discriminazione “sistemica” delle persone omosessuali nell’opinione pubblica, i principali marchi finanziari e di beni di consumo, ma anche i più alti livelli delle istituzioni e della ricerca, tipicamente si tingono di tutti i colori in onore della “bandiera arcobaleno”. Qualche esempio: Amazon che sponsorizza il Pride tramite i suoi canali ufficiali e con il suo “gruppo affiliato” Glamazon; la NASA che fa sventolare la bandiera arcobaleno dal suo quartier generale; Apple che «celebra la comunità LGBTQ+» mettendo in commercio il cinturino Sport Pride Edition con quadrante e sfondo iOS abbinato; Starbucks che per promuovere il suo caffè pubblica uno spot in cui un padre si riconcilia col figlio Arpit diventato figlia, “Arpita”: «Sei sempre la mia bambina, c’è solo una lettera in più nel tuo nome»; qui in Italia TIM sponsor del Pride con lo slogan “Connettiamo tutti”, e si potrebbe continuare a lungo.
Sono ormai diversi anni che questo assurdo logico è sotto gli occhi di tutti, ma forse non era mai stato evidente quanto in questi giorni del 2023. Si leggano insieme queste due notizie. Notizia uno: lo scorso 10 giugno Joe Biden ha celebrato alla Casa Bianca il più grande evento dell’orgoglio GLBT di cui si abbia memoria nella storia del governo americano, facendo sventolare la bandiera arcobaleno accanto a quella statunitense dal porticato frontale del palazzo. Per l’occasione il Presidente degli Stati Uniti, quindi uno dei soggetti politici più potenti al mondo, ha celebrato il mondo GLBT dichiarando: «Tra di voi ci sono alcune delle persone più coraggiose e meritevoli di stima che io conosca, e dire che conosco un sacco di brave persone. Siete un esempio per la nostra nazione, e per il mondo intero». Si può dire quindi che l’impegno delle rivendicazioni arcobaleno sia stato premiato, raggiungendo il picco massimo cui potesse aspirare, no? No. Notizia due: lo scorso 6 giugno, appena quattro giorni prima, Human Rights Foundation, il più grande movimento statunitense impegnato nelle rivendicazioni arcobaleno (con affiliazioni in altre 80 nazioni in tutto il mondo e una rete immensa di influenze incrociate), ha dichiarato “stato di emergenza nazionale” negli USA per la situazione dei diritti degli omosessuali. Lo statement dice testualmente: «Abbiamo ufficialmente dichiarato Stato di Emergenza per le persone LGBTQ+ negli Stati Uniti per la prima volta nella nostra storia, a seguito di un aumento senza precedenti del numero di attacchi anti-LGBTQ+ da parte dei legislatori nel corso di quest’anno. Più di 75 leggi anti-LGBTQ+ sono state firmate nel corso dell’ultimo anno, più del doppio rispetto all’anno scorso. La nostra comunità è in pericolo, ma noi non cesseremo di lottare – né ora, né mai». Sembra quindi che il 2023 sia l’anno peggiore nella storia degli USA, o almeno dalla fondazione di HRF nel 2005: ci aspetteremmo di vedere persone omosessuali assaltate nelle loro case da nuovi gruppi tipo Ku Klux Klan organizzati a livello istituzionale, con fondi versati direttamente dalla Casa Bianca, una specie di apocalisse arcobaleno.
I pazzi indicatori anti-LGBT.
Ovviamente non è questo il caso, ma si sa che per battere cassa e ottenere risultati politici uno degli strumenti più potenti è far leva sulla percezione del pericolo nel grande pubblico, tramite la retorica dello “stato di emergenza”. Conosciamo bene questo tipo di strategia nella propaganda femminista: trasformare un fenomeno come l’omicidio a motivazione passionale – che per quanto esecrabile ha un’incidenza commisurabile a quella delle persone che muoiono colpite da un fulmine – in un’emergenza nazionale e in un pericolo imminente per ogni singola donna italiana. Di cosa parla quindi il report della HRF? Andando a vedere gli indicatori considerati per misurare questo “stato di emergenza” per ciascuno Stato, si capisce subito di cosa si sta parlando: solo uno degli indicatori può essere vagamente collegato alle rivendicazioni omosessuali, la presenza di una “legge anti-discriminazione” (un equivalente di ciò che qui in Italia si spingeva attraverso il DDL Zan, che come sappiamo però, conteneva anche molte altre cose). Tutto il resto degli indicatori, che si possono trovare estesamente descritti nel report allegato alla campagna, riguarda rivendicazioni unicamente ascrivibili alle “T” e “Q” nella sigla, cioè all’ideologia gender e alle cosiddette “persone transgender”.
Conta infatti se nelle leggi di uno Stato sia o meno adottata una limitazione o un divieto: per le procedure gender-affirming, cioè di immediata “affermazione” del genere di preferenza del soggetto, e quindi medicalizzazione immediata in direzione del “cambio di sesso”. Conta anche per le “terapie di conversione”, ossia di ogni protocollo di trattamento di adulti, ragazzi e bambini “transgender” diverso dalla “affermazione”, cioè appunto medicalizzazione immediata (in questo caso ovviamente il divieto è valutato come positivo). Ma anche per l’utilizzo dei bagni del sesso opposto, e in merito alla possibilità di gareggiare nelle categorie sportive del sesso opposto, per le persone “transgender”, in merito alla possibilità di discutere i concetti della teoria queer e dell’ideologia gender nelle scuole e l’uso in ambito scolastico dei “pronomi di preferenza” dello studente (ciò che qui in Italia viene spinto da alcune scuole e alcune amministrazioni comunali quale “carriera Alias”), o ancora per le performance di drag queens in contesti scolastici o in presenza di minori. Infine ancora un obbligo a usare nei linguaggi istituzionali (sanità pubblica, scuole, legislazione etc.) di una definizione «bio-essenzialista ed escludente» della parola “sesso” (cioè la definizione scientifica, che rispecchia la realtà della sessualità umana, che è un sistema binario) e per gli educatori, al forced outing cioè di rivelare ai genitori l’uso da parte di uno studente di un nome o di pronomi diversi da quelli legalmente validi.
I tonfi dei brand arcobaleno.
Questi stessi criteri sono adottati per arrivare a dire che nell’ultimo anno sono passate più di 75 “leggi anti-LGBTQ+”. In tutto ciò vediamo ben poco che possa indicare uno stato di emergenza per i diritti umani in generale, o anche per i diritti e le rivendicazioni delle persone omosessuali nello specifico, tant’è che sono molti i movimenti di omosessuali che si oppongono a questo tipo di obiettivi ideologici. D’altra parte è la stessa HRF nel suo report ad ammettere che «dal 2015, assistiamo a un aumento nelle proposte di leggi anti-LGBTQ+, ma dal 2020, il focus primario di queste leggi è passato dalle persone LGBTQ+ in generale, alle persone “transgender” e “non-binarie” nello specifico». Siamo quindi autorizzati a concludere che, da qualche anno in qua, quando vediamo parate, marchi tinti di arcobaleno e simili, stiamo parlando dell’ideologia gender e non più delle rivendicazioni di dignità e uguaglianza delle persone omosessuali.
Ma chi è che spinge per questa ideologia e in che modo riesce a coinvolgere così tanto anche il mondo della finanza e del largo consumo, nonostante i consumatori non sembrino gradire troppo (come evidenziato dai recenti flop delle promozioni in stile gender della Bud Light e della catena di grandi magazzini Target)? Si pensa comunemente che uno dei motori assoluti del mercato sia il gradimento dei consumatori: a livello pubblicitario si punta a colpire un bersaglio il più ampio possibile, o, in alternativa, a usare canali specifici di diffusione. E soprattutto, ciò che funziona viene spinto dal mercato, ciò che non funziona tende a scomparire. Ma nel mondo del grande capitalismo finanziario non è necessariamente così e seguire determinate spinte ideologiche, come nell’assurdo (in termini pubblicitari) di puntare su campagne promozionali globali rivolte però a meno dell’1% della popolazione, può risultare conveniente alle aziende e ai brand sul medio e lungo termine, a dispetto del successo a breve termine di determinati prodotti o campagne promozionali. Ma non è tutto: tra qualche giorno illustreremo il complesso meccanismo per mezzo del quale gli ideologi gender, gli stessi che finanziano i movimenti che organizzano il Pride Month in tutti i paesi “occidentali”, riescono a orientare il mercato globale verso l’arcobaleno.