La Fionda

Il gender “non esiste” (parte prima)

“Il gender non esiste”. Questo è quello che vogliono farvi credere attivisti e lobbysti GLBTIQ+, accusandovi di “complottismo”, con qualche risatina, ogni volta che si parla di teoria o ideologia gender. Purtroppo, invece, la gender theory esiste eccome: ci sono perfino corsi e manuali universitari ad attestarlo. La gender theory deriva dal campo di discipline note come gender and queer studies, che analizzano mascolinità e femminilità a partire dall’assunto che siano meri costrutti sociali, fortemente influenzati dalle contingenze storiche, ambientali, economiche e allo stesso tempo analizzano la complessità della sessualità umana ipostatizzandola in “identità” congenite, fisse e immutabili. Uno dei concetti chiave del gender consiste nell’idea che il sesso biologico di un individuo non corrisponde necessariamente a un’altra sua presunta caratteristica, detta appunto “genere” (gender). Si tratta di un termine cooptato dall’ambito grammaticale (“il genere di una parola”), divenuto poi di uso comune per indicare le espressioni più tipiche di un sesso (quell’insieme di caratteristiche fisiche, comportamentali, attitudinali che ci segnalano se una persona è un uomo o una donna), ma che nella gender theory nella sua piena maturità acquisisce un significato essenzialista, va a indicare qualcosa di ontologico, immateriale, profondo e innato nell’individuo (ma allo stesso tempo, potenzialmente “fluido”, indeterminato), e soprattutto, totalmente slegato dal sesso biologico (i “generi” non sono due ma diverse decine e potenzialmente infiniti). Mentre l’espressione del “genere” perde ogni legame con la realtà biologica e psicologica per diventare una pura performance ad uso sociale, come argomentato in uno dei testi fondanti dell’ideologia gender, Gender trouble di Judith Butler, filosofa statunitense lesbica e “non-binaria”.

La gender theory è uno dei componenti di quell’ideologia complessiva – derivazione del postmodernismo filosofico e della critical theory (ne abbiamo parlato ad esempio qui), riassunta anche con l’espressione “politiche dell’identità” e con il termine di recente importazione statunitense, “woke” – che comprende femminismo, BLM (Black lives matter) e altre forme di antirazzismo militante, attivismo queer e ultimamente anche l’ambientalismo estremista. Matrice comune della religione woke è il richiamo – da attuarsi con ogni mezzo e ad ogni costo – ad una urgente presa di coscienza (detta “raggiungimento della coscienza critica”) del fatto che l’uomo (nel senso di maschio, bianco, occidentale, “etero-cis”) da millenni si troverebbe in una posizione di predominio e privilegio sociale, dall’alto della quale opprimerebbe in modo volontario e sistematico praticamente ogni altra categoria di esseri, umani e non (donne, uomini “non-etero-cis”, animali, vegetali e minerali), e che occorre porre rimedio a ciò in modo attivo, con uno sforzo personale e politico quotidiano orientato a una riconfigurazione totale di sé, degli individui e dell’esistente: dai propri pensieri più intimi al linguaggio che usiamo, dal modo in cui leggiamo e interpretiamo il passato e la realtà ai gesti minimi della vita quotidiana, dalla legislazione ai rapporti di potere ed economici.

queer lgbtq+

Le mutilazioni ai minori.

Abbiamo in più occasioni trattato del preoccupante fenomeno dei bambini e adolescenti “transgender”. Una categoria comparsa solo di recente – non a caso, insieme alla diffusione dell’uso del web – e in rapida, vertiginosa e costante crescita, parallela a quella del giro d’affari corrispondente. Ricordiamo qualche dato al lettore: solo dieci anni fa le cliniche per il trattamento della disforia di genere nei bambini e adolescenti negli Stati Uniti si potevano contare sulle dita delle mani, ora ce ne sono oltre 400. Nel 2013 il DSM-V, considerato uno dei più autorevoli manuali diagnostici riguardo la salute mentale, fissava la diffusione della “disforia di genere” (nome dato al disagio psicologico provato da alcuni individui rispetto al proprio sesso) negli adolescenti a un caso ogni 10.000 soggetti maschili, e uno ogni 27.000 soggetti femminili. Oggi si parla dell’1-2% dei giovani, un tasso centinaia di volte più alto rispetto alla diffusione nei soggetti adulti. Il mercato della chirurgia per il “cambio di sesso” (che tale è solo nell’aspetto superficiale, naturalmente) è un ottimo affare per i professionisti del settore: il giro d’affari è valutato in 623 milioni di dollari per il 2022, e si prevede un tasso di crescita dell’11,2%, per un aumento a quasi 2 miliardi di dollari previsto per il 2032. Si usa il cavallo di Troia di progetti nominalmente dedicati alla buona causa dell’educazione alla tolleranza reciproca e all’“inclusività” per portare l’indottrinamento al culto gender nelle scuole (qui un sommario dei progetti arrivati nelle scuole italiane), anche attraverso manuali e libri per bambini e ragazzi con messaggi e disegni sessualmente espliciti. Se in passato la medicalizzazione per il cambio di sesso era una faccenda riservata agli adulti, con la diffusione del “protocollo olandese” (Dutch protocol) si è sempre più sdoganato l’uso di ormoni bloccanti della pubertà nei bambini e adolescenti fin dai 12 anni. Nella realtà attuale gli ormoni bloccanti possono essere somministrati anche a partire da diversi anni prima, mentre a 12 anni iniziano talvolta gli interventi chirurgici. Non importa che recentemente si sia compreso come gli studi su cui la raccomandazione di quel protocollo si era basata fossero profondamente viziati nella forma e nella sostanza.

Ma le mire degli attivisti gender puntano ad anticipare il più possibile e a cominciare la “transizione sociale” dei bambini fin dalla più tenera età, per essere sicuri di non perdere mai più l’appartenenza dei nuovi adepti – mentre il fenomeno di coloro che si pentono del proprio “transgenderismo”: i desisters (coloro che rinunciano alla transizione) e i detransitioners (coloro che si pentono della transizione conclusa o avviata, dato che in molti suoi aspetti le conseguenze sono irreversibili), è in costante crescita nei numeri e nella consapevolezza pubblica. Un noto detto attribuito ai gesuiti recita: «portateci un bambino entro i 10 anni di età e ne faremo un gesuita per tutta la vita». Non a caso nell’ultima versione, la 8°, degli “Standards of Care” recentemente rilasciata dal WPATH (la lobby internazionale dei professionisti del settore), linee-guida ritenute autorevoli dalla comunità scientifica internazionale e seguite da molte cliniche e molti legislatori nel mondo, si è abbandonata ogni raccomandazione di un limite di età minima richiesto per le pratiche chirurgiche e farmacologiche della transizione di “genere”, con l’eccezione della falloplastica. La preoccupazione che il soggetto non sia effettivamente in grado di prestare un consenso informato a una medicalizzazione a vita (molto costosa, spesso altamente invasiva e con gravi potenziali effetti collaterali) si può archiviare, visto che la consapevolezza della propria “identità di genere”, secondo gli ideologi del gender, si può sviluppare già entro l’età di 3 anni. E mentre per votare, bere, fumare, fare sesso è giustamente richiesto il raggiungimento di una certa soglia di età, nel caso della transizione di genere non ci sono soglie. Tanto che uno dei responsabili della stesura delle linee-guida ha di recente affermato che anche un bambino autistico incapace di esprimersi verbalmente può esprimere il proprio consenso all’avvio del processo di transizione: è sufficiente che scarabocchi un disegno che in qualche modo esprima la sua percezione del proprio “genere”. E in molti Stati, in nome del bene superiore del minore, può essere tolta la custodia dei figli ai genitori che non dovessero prestare il proprio consenso alla transizione. Interessante notare che negli 8° “Standards of Care” tra i “generi” esistenti si include anche “l’eunuco”, e che tra gli accademici responsabili dell’ultima versione degli “Standards of Care” figurano tre personaggi coinvolti in un forum dedicato al fetish della castrazione forzata in cui si trovano anche narrazioni di questo tipo centrate su bambini e adolescenti, come ha documentato un’inchiesta di Genevieve Gluck. Rimandiamo il lettore ai nostri articoli precedenti sull’argomento dei bambini e adolescenti “transgender”: qui vogliamo argomentare che c’è molto di più in gioco quando si parla degli effetti della strisciante pervasività di questa ideologia nella nostra cultura e nel nostro quotidiano.

genderbread person
Lo schema della “Genderbread person”.

In corsa verso gli psico-reati.

Il linguaggio è strettamente legato al pensiero. Come parliamo influisce in modo decisivo su come pensiamo, e limitare il linguaggio di qualcuno significa limitare di egual misura la portata e la potenzialità del suo pensiero: un monito lanciatoci con potenza esemplare da George Orwell nel suo 1984, dove il partito unico impone al popolo un linguaggio minimale, il Newspeak, studiato apposta per rendere quasi strutturalmente impossibile la stessa formulazione di pensieri “eretici”: i thoughtcrimes, “psico-reati”. Attivisti e lobbysti gender lavorano pesantemente sulla ristrutturazione del linguaggio ai fini di ristrutturare la società: e se è vero che a sancire i mutamenti del linguaggio in ultima analisi è l’uso corrente, è anche vero che si può “indirizzare” l’uso corrente, facendo leva sulla buona volontà delle persone con richiami a linguaggi “non offensivi” e “inclusivi”, e influenzando i media in tal senso. Anzitutto stigmatizzando l’uso del maschile generico (l’espediente linguistico per cui si usa riferirsi a un generico maschile quando si parla di persone in modo non specifico) in ogni ambito – quotidiani, romanzi, saggi, conferenze, lezioni a scuola, televisione etc., proponendo, in alternativa, caratteri (appunto detti “inclusivi”) come l’asterisco o la u o la schwa. Ugualmente stigmatizzato è l’uso dei pronomi maschile e femminile quando ci si riferisce ad altre persone: perché staremmo presumendo immotivatamente il “genere” (la caratteristica innata, essenziale, distinta dal sesso biologico di cui abbiamo parlato) dell’interlocutore, che potrebbe essere invece differente. Ciò equivale a commettere lo psico-reato di “misgendering”. Guai poi a usare il primo nome – quello dato dai genitori, detto deadname nel Newspeak gender – per nominare la persona trans: il “deadnaming” è praticamente equiparabile a un efferato omicidio a sangue freddo. La proposta alternativa è chiedere ogni volta il pronome di preferenza all’interlocutore, o usare formule neutre come “they/them” (essi/loro), tenendo presente che il pronome di preferenza può anche cambiare nel corso del tempo. Riferirsi a un uomo appena conosciuto in modo automatico come a “lui” deve diventare un thoughtcrime, uno psico-reato: e infatti c’è gente che propone di rendere reato l’uso del pronome sbagliato, atto equiparato a una vera e propria violenza, perché può ferire l’interlocutore nella sua “identità di genere”, portandolo a un’acuta sofferenza interiore e finanche al suicidio.

Il lavoro di riconfigurazione del linguaggio comune non si ferma però a questo. Si introducono nuovi termini, e nuove accezioni di vecchi termini, che sempre per le solite logiche “inclusive” dovrebbero essere sempre tenuti presente e usati. A partire dal nuovo significato di “genere”, che abbiamo già visto, passando per queer (un termine-ombrello che finisce per significare tutto e niente, indicando semplicemente il fatto di divergere, nel solito individualismo esasperato, dal modello della persona “etero-cis” e non-woke), per arrivare a “cis” (ossia un individuo il cui “genere” corrisponde, per mera coincidenza fortuita s’intende, col sesso biologico). Ma la lista sarebbe molto lunga. Particolare pregnanza ha lo sforzo degli ideologi gender per ristrutturare l’intero linguaggio della medicina (e della legge, per ora con meno risultati) in termini neutri, in modo da rispettare il dogma centrale della gender theory che “uomo” e “donna” siano termini privi di significato oggettivo ed empirico, si riferiscano unicamente a entità astratte, convenzioni sociali, per cui “uomo” è chi si identifica come tale e così per la “donna”. Ne consegue che il lessico di intere porzioni della pratica sociale dev’essere ridefinito: un neonato non è maschio o femmina, ma ha un “sesso assegnato alla nascita” (sex assigned at birth), che i medici attribuiscono quasi tirando a indovinare (e può rivelarsi sbagliato in seguito). Termini come “madre” e “padre” vanno sostituiti con espressioni più neutre come “genitore1” e “genitore2”. Una donna sarà un “corpo che fa nascere i bambini” (birthing body), un “possessore di un collo dell’utero” (cervix haver) o, più astrattamente, un “non-uomo”. Una donna incinta sarà una “persona che porta un bambino” (childbearing person), un uomo sarà una “persona col pene”, e via dicendo. Si stigmatizza in modo immediato ogni deviazione dal pensiero woke per cui una persona “non-etero-cis” è istituzionalmente, strutturalmente, ontologicamente oppressa e vittima, ed è un thoughtcrime dire qualcosa di diverso, così come negare che gli individui “transgender” siano costantemente vittime di un letterale “genocidio” a causa della violenza sociale cui sarebbero soggetti a tassi stellari. Narrazione che, dati alla mano, si smentisce facilmente, come ha fatto ad esempio il New York Post, e più modestamente anche noi). Così come è thoughtcrime osare esprimere l’opinione che l’omosessualità, il transgenderismo o altri comportamenti legati all’espressione sessuale siano almeno per una parte, o almeno in alcune occorrenze, questioni di salute mentale. Ammesso che quest’opinione sia anti-scientifica (come vedremo successivamente), fino a poco tempo fa era consentito esprimere pareri anti-scientifici, cui si può pur sempre opporre la forza dell’argomentazione scientifica, mentre oggi gli attivisti della gender theory spingono affinché diventi uno psico-reato, l’hate speech, “espressione di odio” (sebbene con l’odio, spesso e volentieri, non abbia nulla a che fare). Perfino parlare di gender theory è un thoughtcrime: perché, si sa, “il gender non esiste”.



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