Racconta Aleksandr Solženicyn nel suo saggio Arcipelago Gulag: «Si racconta che nella notte dal 25 al 26 ottobre si discusse nel palazzo Smol’nyj se uno dei primi decreti dovesse essere quello di abolire in perpetuo la pena di morte. Lenin derise allora giustamente i suoi compagni utopisti. Lui sapeva meglio di chiunque che senza la pena di morte non sarebbe stato possibile muovere in direzione della nuova società. Tuttavia, nel formare il governo di coalizione con i socialisti rivoluzionari di sinistra, si fece una concessione ai loro falsi concetti e la pena capitale fu abolita dal 28 ottobre 1917. Naturalmente non poteva venire nulla di buono da quella posizione da persone per bene. E poi, abolita come? All’inizio del 1918 Trockij ordinò di processare Aleksej Sciastnyj, appena promosso ammiraglio, per essersi rifiutato di far colare a picco la flotta del Baltico. Il presidente del tribunale supremo Karlkin lesse rapidamente la condanna in un russo storpiato: “Fucilare entro le 24 ore”. La sala si agitò: la pena di morte era stata abrogata! Il procuratore Krylenko spiegò: “Perché vi agitate? È stata abolita la pena capitale. Non è questa che comminiamo a Sciastnyj, lo fuciliamo.” E così fecero» (Arcipelago Gulag, Parte I, cap. 11). L’imputato non è stato condannato a morte, è stato fucilato. Come ci aveva illuminato Humpty Dumpty nell’intervento precedente, sul potere di conferire alle parole significati arbitrari, «la questione è chi è che comanda – ecco tutto».
Da quando il mondo è mondo, il potere cerca di condizionare le menti dei cittadini attraverso il linguaggio, ciò che George Orwell nel libro 1984 denominò acutamente Neolingua. Durante la Seconda guerra mondiale, i militari giapponesi chiamavano donne di conforto le schiave sessuali, per i nazisti lo sterminio degli ebrei era la soluzione finale, e in Russia, i Gulag, campi di lavoro forzato, erano campi di rieducazione. E oggi, chi comanda nel mondo occidentale? Qual è l’ideologia dominante? Grazie alla neolingua femminista oggi possiamo dire frasi del tipo “la legge della salute riproduttiva delle donne permette la rimozione del prodotto del concepimento mediante un’interruzione volontaria della gravidanza”; oppure: “nell’interesse superiore dei minori è assegnata la dimora coniugale alla madre separata dal marito, assieme a un assegno alimentare mensile da versare”, che tradotte stanno a significare “le legge antiriproduttive permettono l’uccisione del nascituro mediante un aborto”, e “con la scusa dei figli (che tra l’altro non erano mai stati espulsi dalla casa del padre) si assegna la proprietà del marito alla moglie (perché possa vivere gratuitamente), e in più si costringe il marito a versare a favore di lei un tributo mensile che lo vincola a vita”. Sono molti ormai i documenti ufficiali in Occidente che adoperano la neolingua femminista. Ad esempio nel Patto di Stato spagnolo contro la Violenza di Genere del 2017, questo è il vocabolario che possiamo trovare: giustizia patriarcale, dominazione patriarcale, concezioni patriarcali, concezioni maschiliste, maschilismo strutturale, violenza maschilista, violenza patriarcale, relazione privilegiato-oppressa… Una cascata di concetti ideologici per combattere un fenomeno (la violenza) reale – tra l’altro lo Stato parte dalla premessa che esista il Patriarcato, verità assiomatica senza obbligo di dimostrazione.
Il gioco delle definizioni di “femminismo”.
Il femminismo è riuscito a conferire a molte parole nuovi significati, ma due meritano una menzione speciale: femminismo e parità. La Piccola guida sul femminismo spiega: «Come faccio a sapere se sono femminista? Credi che donne e uomini debbano avere gli stessi diritti? Se la tua risposta è affermativa, complimenti, sei femminista». Femminismo è parità, ci viene riferito con un martellamento costante da ogni dove. È un argomento che stato trattato in precedenza (qui e qui) e ogni volta riporto fonti ed esempi diversi. Si tratta di un argomento di un’importanza fondamentale, perché è il punto di inizio di qualsiasi dibattito sul femminismo. Se il femminismo è parità, chi è contro la parità? A questo punto il dibattito è già perso, le femministe si sentono moralmente superiori e legittimate ad affermare qualsiasi cosa, perché, in quanto femministe, sono già dalla parte della ragione, cioè dalla parte della parità, e la controparte in automatico è dalla parte del torto. Da notare ogni volta il tono saccente e indulgente di queste donne – “piccola guida” sul femminismo, “complimenti” –, come se loro fossero costrette a spiegare qualcosa di ovvio e le persone che si dichiarano non femministi fossero degli stupidi che non capiscono bene. Come è già stato spiegato in altri interventi, il femminismo è l’ideologia che sostiene l’oppressione storica e attuale delle donne per mano degli uomini in un sistema denominato patriarcato. La parità non c’entra. Ma le femministe, quando sostengono che femminismo è parità, sfoderano un argomento convincente, quello che nel mondo anglofono è stato definito argumentum ad dictionarium, cioè citano il dizionario a sostegno della propria tesi: tutti i dizionari del mondo, o almeno i più importanti, definiscono la parola femminismo con il termine di parità. La RAE (Real Academia Española), istituzione ufficiale che dirime tutti i dubbi linguistici nel mondo ispanofono, definisce il femminismo «ideologia che difende il fatto che le donne debbano avere gli stessi diritti degli uomini».
Il dizionario è uno strumento prezioso non solo per diffondere la conoscenza ma anche per manipolare il linguaggio. È il deposito della conoscenza di un’epoca o di una comunità, e quindi gli utenti vi ripongono la loro fiducia. Come ogni prodotto, frutto di una determinata società in una determinata epoca, l’opera è debitrice dell’ideologia dell’epoca e degli autori. Si tratta di un’opera socioculturale che contiene non solo la visione del mondo e della la vita degli autori, ma lascia intravedere anche il pensiero della società e della cultura del momento in cui si pone. Nell’elaborazione i dizionari tendono a catturare un modo di pensare e di vedere la realtà dei lessicografi, un riflesso della loro ideologia. Quindi i dizionari non sono una scienza esatta. Questa non è solo una mia tesi, le teoriche femministe hanno sempre denunciato la poca attendibilità e tendenziosità dei dizionari, hanno contestato numerosi vocaboli e richiesto la modifica o la cancellazione dei loro significati, contaminati dal patriarcato, già dal primo dizionario, L’encyclopédie di Diderot e D’Alembert, fino ai dizionari attuali. Risulta dunque contraddittorio da parte del femminismo adoperare l’argumentum ad dictionarium a proprio vantaggio quando sono le femministe le prime che lo contestano. Resta il fatto che i dizionari sono effettivamente uno strumento di diffusione dell’ideologia dominante, anche a livello inconscio. Ad esempio, se cerchiamo la parola “emancipazione”, subito dopo la definizione il dizionario cita l’esempio «emancipazione femminile: raggiungimento, da parte della donna, della parità di condizioni sociali, economiche e giuridiche con l’uomo» (Dizionario Garzanti 2010). Da una ricerca in teoria non ideologica salta fuori un esempio ideologico che stabilisce che gli uomini non hanno bisogno di emanciparsi (non c’è “emancipazione maschile”) e che la parità è qualcosa di cui hanno bisogno le donne nei confronti degli uomini. Femminismo allo stato puro.
L’asimmetria nelle ricerche.
Non solo i dizionari, oggi che viviamo nel mondo tecnologico di Internet, i condizionamenti inconsci mediante le parole sono continui. Se scrivo su Google di forma incompleta “i diritti delle ”, compaiono in automatico 10 possibilità diverse da scegliere, che hanno in comune la presenza del termine donne: “i diritti delle donne in Iran, …donne oggi, …donne riassunto, …donne nella storia…, ecc”. Se scrivo “i diritti degli ”, tra le 10 possibilità che appaiono in automatico la voce “uomini” compare solo due volte – molto meglio del risultato della mia prima ricerca fatta nel 2017, dove il termine non compariva affatto e comparivano altre voci “animali, studenti, immigrati, alunni, altri, invalidi…”. Purtroppo la ricerca in italiano è imperfetta perché il plurale maschile presenta due desinenze, i diritti “dei” o “degli”, che distorce il risultato del confronto. In spagnolo questo problema non esiste, se scrivo al femminile “los derechos de las ” compare in automatico “mujeres” (donne) al primo posto; se scrivo al maschile “los derechos de los ”, tra i 10 risultati che compaiono in automatico la voce “hombres” (uomini) non compare nemmeno una volta. A livello inconscio potete immaginare le ripercussioni che questi risultati asimmetrici, che spuntano in automatico e indirizzano il pensiero, possono avere sulle menti, soprattutto menti in formazione (ad esempio le bambine si sentono chiamate in causa mentre i bambini non associano al termine “diritti” il termine “uomini”.
Dall’altra parte, attualmente Internet è uno strumento straordinario per capire chi detiene il «potere», un semplice clic può offrire una risposta immediata e inequivocabile, grazie a ricerche mirate di parole chiavi su Google o su Wikipedia, ecc. Ad esempio, una ricerca mirata su Google, “i diritti delle donne sono diritti umani” rileva 5150 risultati, mentre “i diritti degli uomini sono diritti umani” rileva solo 2 risultati. Potete provare anche voi, anche con altre parole chiavi e in altre lingue, le variabili possono essere tantissime (molti altri esempi si possono trovare nell’opera La grande menzogna del femminismo). Purtroppo i risultati asimmetrici non cambiano. E il «potere» che attribuisce una connotazione negativa ai termini che vengono associati alla mascolinità, come è stato approfondito nell’intervento precedente, e una connotazione positiva a quelli associati alla femminilità. Nel 1975 l’ONU proclama il “Decennio delle Nazioni Unite per le donne: equità, sviluppo e pace“, nel 1977 introduce la “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale” (8 marzo), nel 2000 approva la Risoluzione 1325 intitolata “Donne, Pace e Sicurezza”… Che necessità c’è di associare alle celebrazioni e agli eventi istituzionali che riguardano le donne termini positivi, come ad esempio al concetto di pace – quando tra l’altro già esiste una Giornata internazionale della pace (21 sett.)?
Uguali e diseguali.
Infine, se al termine femminismo è stato attribuito un significato arbitrario, il significato di parità è stato completamente stravolto. In nome della parità il femminismo ha promosso, a seconda del sesso, fondi e sovvenzioni diversi, esami diversi, divieti di ingresso, prezzi agevolati, borse di studio diverse, condanne civili e penali diverse, normative e leggi diverse, sconti e aiuti pubblici diversi, ecc. Per il femminismo la discriminazione maschile è parità, così come per i rivoluzionari russi fucilare qualcuno non era condannarlo alla pena capitale. E questo è sempre stato così già dal primo incontro femminista in Seneca Falls (1848), dove l’invito a partecipare vietava l’ingresso degli uomini il primo giorno. Femminismo è parità. A mio parere le femministe hanno preso troppo alla lettera le parole di Aristotele che affermava «per esempio si pensa che il giusto sia eguaglianza, e lo è, ma non per tutti, bensì per gli uguali; anche l’ineguaglianza si pensa sia giusta, e lo è, in realtà, ma non per tutti, bensì per i diseguali» (Politica, III). Per il femminismo le donne sono «gli uguali», gli uomini «i diseguali». (Continua domenica prossima)