«La base su cui si fonda da ultimo la buona reputazione in ogni comunità industriosa, altamente organizzata, è la potenza finanziaria; e i mezzi per dimostrare la potenza finanziaria e guadagnarsi così o conservare un buon nome, sono l’agiatezza e un consumo vistoso di beni. Di conseguenza, ambedue questi metodi sono in auge fin dove è possibile; e negli strati inferiori in cui i due metodi sono usati, tutt’e due le mansioni sono in gran parte assegnate alla moglie e ai figli. Più giù ancora, dove ogni grado di agiatezza, persino apparente, è diventato impraticabile per la moglie, rimane il consumo vistoso di beni e la moglie e i bambini lo praticano. Il capofamiglia pure può fare qualcosa in questo senso e, di regola, lo fa effettivamente; ma scendendo ancora più in basso nei gradi della indigenza – ai margini dei bassifondi – l’uomo, e ora anche i bambini, virtualmente cessano di consumare dei beni di valore per le apparenze e la donna resta virtualmente l’unica esponente dell’onorabilità finanziaria della casa». Questa è la tesi di Thorstein Veblen (1857-1929) nella sua opera principale, La teoria della classe agiata (1899), come è stato approfondito nell’intervento precedente. La moglie spende, e lo fa per la gloria del marito. «In grazia della sua derivazione da un passato patriarcale, il nostro sistema patriarcale fa consistere essenzialmente la funzione della donna nel mettere in evidenza la capacità di spendere della sua casa. In armonia col moderno schema di vita civile, il buon nome della casa alla quale lei appartiene dovrebbe essere cura particolare della donna; e il sistema di spese onorifiche e di vistosa agiatezza con cui questo buon nome è principalmente sostenuto, è perciò la sfera della donna».
Questa prodigalità della donna, «l’agiatezza e il consumo vistoso di beni», che in realtà muta sempre a beneficio della reputazione dell’uomo, non risponde a un comportamento volontario della donna. Lei è schiava, serva, soggetta al dominio patriarcale: «secondo lo schema ideale della cultura finanziaria, la signora della casa è la prima serva della famiglia». Spiega Veblen, «nello stadio dello sviluppo economico in cui le donne erano ancora in senso pieno la proprietà degli uomini, l’esibizione di consumo e agiatezza vistosi venne a far parte dei servizi da loro richiesti. Poiché le donne non erano padrone di se stesse, l’evidente agiatezza e dispendiosità da parte loro ridondava alla buona fama del padrone piuttosto che alla loro propria; e perciò quanto più costose e più patentemente disoccupate sono le donne della casa, tanto più utile ed efficace sarà la loro vita ai fini della rispettabilità della casa o del suo capo. Al punto che le donne non soltanto sono state richieste di testimoniare una vita agiata, ma persino di rendersi inette a ogni attività lucrosa». A dimostrazione della propria tesi Veblen sceglie un elemento paradigmatico: l’abbigliamento. «I nostri abiti per servire effettivamente al loro scopo , non dovrebbero soltanto essere costosi, ma dovrebbero pure dichiarare a tutti gli osservatori che chi li porta non si occupa di nessun genere di lavoro produttivo. […] L’abbigliamento delle donne va anche più lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione produttiva».
Le donne totalmente irresponsabili.
«Lo sciupio e il consumo vistosi sono stimabili perché segno di potenza finanziaria; la potenza finanziaria è stimabile e onorifica perché, in ultima analisi, denota successo e forza superiore; e quindi la prova di spreco e di agiatezza offerta da un individuo a nome proprio non può concretamente assumere una forma, o esser portata a un punto, tale da denotare inettitudine o scomodità notevole da parte sua; poiché l’esibizione in questo caso mostrerebbe non forza superiore, ma inferiorità, e tradirebbe così il suo scopo. Pertanto, dovunque la spesa superflua e lo sfoggio di astensione del lavoro sono di regola, o in media, condotti al punto di mostrare un disagio patente o una menomazione fisica volontariamente provocata, là si trae immediatamente la conseguenza che la donna in questione non fa questa spesa superflua né si sobbarca questa menomazione per un proprio guadagno personale in fatto di reputazione finanziaria, ma per conto di qualcun altro, con cui ella si trovi in rapporto di dipendenza economica, rapporto che, nella teoria economica, deve ridursi in ultima analisi a un rapporto di servo a padrone. […] il tacco alto, la gonna, il cappellino niente pratico, il busto e la generale indifferenza per il disagio, che è una chiara caratteristica dell’abbigliamento di tutte le donne civili, sono altrettanti segni che nel moderno schema di vita civile la donna è ancora, in teoria, la dipendente economica dell’uomo – che, forse in un senso altamente idealizzato, ella è ancora il suo oggetto. La semplicissima ragione di tutta questa vistosa agiatezza e questa toeletta da parte delle donne sta nel fatto che esse sono serve alle quali, nella differenziazione delle funzioni economiche, è stato affidato l’incarico di mettere in evidenza la capacità di spendere del loro padrone».
«Nel vestito della donna c’è un’insistenza chiaramente maggiore su quelle caratteristiche che attestano l’esenzione o l’inidoneità di chi li porta per ogni occupazione volgarmente produttiva. […] nel corso dello sviluppo economico la mansione della donna è diventata quella di consumatrice subalterna per conto del capo della casa; e il suo abbigliamento è pensato in vista a questo scopo. Ne è venuto che un lavoro apertamente produttivo è per le donne rispettabili una menomazione particolare, e si devono perciò avere cure speciali nell’ideare gli abiti femminili […]. La decenza esige che le donne rispettabili si astengano con maggior rigore da ogni sforzo utile…». L’«occupazione volgarmente produttiva» rimane il regno esclusivo degli uomini, un privilegio patriarcale. In conclusione, secondo Veblen l’abbigliamento inoperoso è segno di potere e benessere, segno dell’astensione da ogni occupazione produttiva. Ma l’abbigliamento maschile non può diventare troppo inoperoso (quanto?) tanto da diventare scomodo e denotare inferiorità. Dunque soltanto le donne vestono l’abbigliamento inoperoso, segno della sua completa astensione dal lavoro e della sua servitù a beneficio della reputazione dell’uomo. Ma per sostenere la sua tesi Veblen sorvola sul ruolo primario svolto dalle donne nella diffusione degli stili di abbigliamento durante tutta la storia e anche durante gli anni nei quali scrive, seconda metà dell’Ottocento e prima metà del Novecento. Nulla dice sulla diffusione delle macchine da cucire nelle case, sulle donne che confezionavano per sé e per le figlie gli abiti, sul perché nelle case senza uomini le donne, o le vedove molto numerose, continuavano ad indossare gli stessi abiti. Una tesi, dunque, quella di Veblen, che reputa le donne completamente irresponsabili di ogni azione, o, in altre parole, minorenni, ignoranti e cretine.
La perversione della logica.
La bellezza delle teorie ideologiche, per definizione soggettive, è che possono essere pacificamente ribaltate senza perdere per nulla la loro plausibilità e la loro logica. Nell’intervento precedente è stato constatato come il pensiero di Veblen può essere ribaltato invertendo i sessi senza compromettere per nulla la plausibilità del messaggio. «Nelle prime fasi della civiltà […] l’agiatezza del servitore non è un’agiatezza veramente sua […] la sua agiatezza è normalmente considerata un servizio […] diretto a favorire la pienezza di vita del padrone […] rapporto di sottomissione». Quindi in questa prima fase il consumo maschile avrebbe giovato al buon nome e alla reputazione delle donne che lavoravano per loro. Dopodiché avviene il cambio storico di ruoli che segnala Veblen, ora «tocca alle consumare quello che gli producono. Quel consumo che tocca agli è puramente casuale per l’opera loro; è un mezzo di continuare il lavoro, non un consumo diretto al benessere e alla pienezza di vita». In questa fase l’uomo «schiavo», «strumento per accumulare ricchezza», «dovrebbe consumare solo ciò che è necessario per il suo sostentamento». Ecco la tesi di Veblen ribaltata con le sue stesse parole.
Per quanto riguarda l’abbigliamento succede altrettanto. Se applichiamo la teoria di Veblen alla società, possiamo affermare che le classi sociali più povere e indigenti, per dimostrare la loro potenza finanziaria e il loro benessere, vestivano le classi più alte in maniera lussuosa e inoperosa, basta pensare ai pomposi abbigliamenti dei papa, dei vescovi, degli imperatori o dei re con quelle lunghe code. Più le classi più alte erano vestite in questo modo, più ciò denotava la rispettabilità, il potere e il successo del volgo. Così i re, con i loro abbigliamenti regali, «non soltanto sono stati richiesti di testimoniare una vita agiata, ma persino di rendersi inetti a ogni attività lucrosa». Infatti Luigi XIV era il «primo servo» del popolo, come tutti sanno. Con Luigi XVI, dall’agiatezza e dal consumo vistoso di beni di cui facevano sfoggio i nobili e l’alto clero per maggior gloria della reputazione e del successo delle classi operose del volgo, è derivata la Rivoluzione Francese. Dovrebbe essere evidente a chiunque che chi fa sfoggio di ricchezza e inoperosità, di abiti lussuosi e di consumo di beni superflui, in società (re, miliardari) o nel matrimonio (moglie) non può essere il servo, e chi deve lavorare e vive più sobriamente non può essere il padrone. Ma le ideologie fanno anche questo, pervertono la logica degli individui, anche di persone intelligenti, come presumibilmente doveva essere Thorstein Veblen.