Liberté, Égalité, Fraternité. Dei tre termini del celebre motto del Settecento associato all’epoca della Rivoluzione francese, quello che non sembra per nulla invecchiato è il secondo: uguaglianza. Da quando il femminismo ha conquistato il mondo occidentale, questo termine – uguaglianza o parità – regna sovrano in società, abusato nel suo uso quotidiano dalle istituzioni e dai media. L’uguaglianza è spesso malintesa, altre volte manipolata e usata come arma, vale dunque la pena riflettere su questa parola. Prima del Settecento si può affermare che questo concetto fosse perlopiù sconosciuto, la disparità era la regola e l’ordine naturale delle cose. Ovunque esisteva una disparità di classe, la legge cambiava a seconda del ceto sociale, e anche spesso le pene, il carcere e la pena capitale. Se, ad esempio, eri nobile, non pagavi le tasse. Spesso esisteva una disparità religiosa, nella Spagna del XVI secolo, ad esempio, c’erano delle restrizioni per i nuovi cristiani per le posizioni politiche, militari o religiose. Esisteva la disparità per età, quella per sesso (ad esempio, certe torture erano riservate solo agli uomini), ecc. Insomma, la disparità era la norma, e quella sessuale non era né l’unica né la più importante, come vorrebbe farci credere la narrazione femminista. Non è neppure vero che il concetto della parità tra i sessi sia nato con il femminismo, valga come semplice esempio il quarto comandamento cristiano che chiede di onorare il padre e la madre, cioè pari rispetto per entrambi i genitori già dai tempi biblici. Il Settecento non seminò unicamente il concetto di uguaglianza di fronte alla legge (liberalismo), ma teorizzò altri tipi di uguaglianza. Tra tutti i teorici sull’uguaglianza del Settecento possiamo ritenere a Rousseau il più importante, come era già stato accennato in un intervento precedente.
Nella Lettera a d’Alembert, Rousseau denuncia la disuguaglianza nella società e adopera la metafora del teatro, fatto da autore e attori da un lato e da spettatori dall’altro, per metterla in evidenza. In questo stato di disuguaglianza lo spettatore è tagliato fuori dalla partecipazione. Infatti si può partecipare solo fra uguali. Per Rousseau quel che succede a teatro accade con ben maggior forza nello spettacolo reale della vita, gli esclusi tendono sempre a uscire da una situazione subalterna e alienata. La tensione all’uguaglianza è quindi insopprimibile perché esclude dalla partecipazione sociale. Se l’uomo non è altro che i suoi rapporti sociali, chi non può partecipare non può avere rapporti umani. All’uomo non è concesso di accettare questa condizione, pena il perdere la propria umanità. A questa luce l’uguaglianza non appare, dunque, come una meta ultima e ottimale della convivenza sociale, ma come una necessità primaria, che deve essere conquistata a qualsiasi costo. Rousseau indica, allora, un’unica possibile soluzione: «Mettete gli spettatori nello spettacolo, rendeteli essi stessi attori». L’uguaglianza è concepita come un valore assoluto, necessario e irrinunciabile. E qui sorge la prima perplessità: cosa succede se qualcuno non può o non vuole partecipare? Se qualcuno vuole solo essere spettatore, deve essere costretto a recitare? Se costringiamo gli spettatori anche a recitare e gli attori anche ad essere spettatori, la conclusione più ovvia è che non esiste più il teatro. Non tutti sono in grado di recitare e non tutti hanno la voglia di farlo. Nel suo desiderio di rendere tutti uguali, nella sua metafora del teatro, Rousseau appiattisce e omologa gli esseri umani, conferisce a loro le stesse capacità e competenze, e ignora la loro volontà e la loro libertà di scelta di voler essere attori oppure spettatori.
La “discriminazione positiva”.
Sarà il filosofo Morelly, contemporaneo di Rousseau, a risolvere la questione della diversa capacità, con una formula per il superamento immediato di tutte le disuguaglianze naturali e sociali che influenzerà Marx: «da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni», formula adottata nella tarda Critica al programma di Gotha di Marx, come traguardo dell’ultima fase della rivoluzione comunista. Molley si rende conto di essere approdato ad un dilemma irresolubile. Da una parte il modello della «libertà civile» cade in difetto nel momento in cui si tende a «una massima libertà a sacrificio dell’uguaglianza» (come proporrebbe il liberalismo, in qualche modo esempio attuale del sistema capitalistico). Dall’altra parte però il modello della «libertà egualitaria», proposto da Rousseau, cade anch’esso in difetto quando tende a «una massima uguaglianza a sacrificio della libertà» (come proponeva e propone il modello comunistico). Del massimo che si afferma di voler conseguire, si rischia di cadere in un minimo: la libertà senza uguaglianza si rivela ingiustizia e oppressione, l’uguaglianza senza libertà diventa totalitarismo che ricrea la suddivisione fra dominanti e dominati. In altre parole, l’uguaglianza non è di per sé un valore sempre positivo, uguaglianza non è sinonimo di equità. L’equità si focalizza sul punto di partenza, ovverosia diritti e doveri, l’uguaglianza a tutti i costi approda invece ad un potenziale punto di arrivo annullando le diverse capacità e coprendo i diversi bisogni, al di là dell’equità delle misure che impongono l’uguaglianza.
Il femminismo e le istituzioni occidentali hanno adottato la formula di Morelly, applicata solo nell’ambito di genere (cioè esclusi ad esempio il reddito o la classe sociale), dove gli uomini sono quelli tenuti a dare secondo le loro capacità (in realtà, secondo la narrazione femminista, non si tratta di capacità ma privilegi) e le donne a ricevere secondo i loro bisogni. La femminista spagnola Rosa Cobo ha espresso l’idea che le femministe hanno dell’eguaglianza in questo modo: «l’idea che tutti gli individui sono uguali davanti alla legge e che lo Stato dovrebbe trattarli in modo imparziale, questa modernità non interessa alle femministe, alle femministe interessa l’altra modernità ». La magistrata della Corte Suprema spagnola, Maria Luisa Segoviano, spiega quale «modernità» hanno in mente a proposito dei «procedimenti giudiziari con prospettiva di genere […] per tanto tempo si è fermata alla parità di trattamento, bisogna puntare alle pari opportunità, rendere la parità reale ed effettiva […] considerare i fattori di discriminazione indiretta, che portino ad agire positivamente a favore delle donne nei casi nei quali vi è una disuguaglianza di base, una disuguaglianza tradizionale ». Per le femministe e le istituzioni occidentali l’uguaglianza è il punto di arrivo, una «parità reale ed effettiva» all’arrivo, dunque l’uguaglianza alla partenza deve essere per forza stravolta per poter arrivare all’uguaglianza all’arrivo. Per poterlo fare bisogna stravolgere la logica e il significato delle parole, così come misero in atto George Orwell, nella sua opera 1984, o Joseph Goebbels. Guerra è pace. Amore è odio. E uguaglianza, naturalmente, è discriminazione (positiva).
Uguaglianza ed età adulta.
Alcuni esempi: «La Risoluzione 14.1 approvata alla Conferenza Generale dell’UNESCO, tenutasi a Parigi nel 1987, affermava l’importanza di adottare, nella redazione di tutti i documenti di lavoro dell’Organizzazione, una politica volta ad evitare, per quanto possibile, l’uso di termini che includessero solo un sesso, salvo nel caso di misure positive a favore delle donne» (Historia(s) de mujeres en homenaje a M.a Teresa López Beltrán, Volumen I, Perséfone. Ediciones Electrónicas de la AEHM/UMA, 2013., p. 119. È da notare come, nei testi istituzionali, le misure positive a favore degli uomini, non siano mai citate né previste, nemmeno ipotizzate come possibilità). Requisiti per accedere alle sovvenzioni statali (Spagna): «g) la percentuale delle donne affiliate deve rappresentare, come minimo, il 65% […]; h) la forza lavoro deve essere costituita, come minimo, del 65% di donne […]; i) la percentuale dei membri femminili del CdA deve arrivare, come minimo, al 65%». Requisiti per le sovvenzioni alla produzione filmatografica spagnola: «se si è donna la valutazione per ottenere la sovvenzione per la produzione di un film può raggiungere 12 punti in più rispetto ai colleghi uomini». Programma del partito femminista svedese: «tassare alla nascita tutti i bambini maschi […]; limitare la presenza degli uomini dei gruppi direttivi al 25 per cento […]; stabilire per legge che nessuna donna deve percorrere più di 15 minuti di strada a piedi per raggiungere un servizio essenziale…».
«Nella provincia di Oristano, la presenza femminile fra il personale degli uffici postali è al 64%. […] Un risultato più che positivo su un tema sempre attuale come quello della parità di genere sul lavoro». Tennis, nel 2022 il giocatore di tennis che ha guadagnato più di chiunque altro nel circuito (maschile e femminile) è stata una donna: Iga Swiatek. Il tennista Stefanos Tsitsipas ha commentato: «Se guadagnano lo stesso, forse dovrebbero incominciare a giocare cinque set» (nei Grandi Slam di tennis le donne ricevono gli stessi premi, al di là del pubblico raccolto, ma giocano soltanto tre set. In altre parole le donne tenniste di media guadagnano al minuto di gioco molto di più degli uomini). «Un giudice ordina di far indossare a una donna stalker un braccialetto elettronico, ma deve rettificare perché la misura è possibile solo sugli uomini». Possiamo continuare con altri innumerevoli esempi perché ahimè, nel mondo occidentale, gli esempi di discriminazione in nome dell’uguaglianza sono ormai pressoché infiniti. Basta pensare all’esempio per antonomasia: per decenni il servizio militare maschile è rimasto obbligatorio senza che ufficialmente nessun paese occidentale intravedesse alcuna contraddizione tra il testo delle loro costituzioni, che vietano tassativamente la discriminazione su base sessuale, e la norma che costringeva gli uomini ed esentava le donne. Nel mondo occidentale l’uguaglianza avverrà solo quando le donne incominceranno ad essere trattate come gli uomini, cioè quando saranno trattate come adulte.