La Fionda

Gender un paio di palle

Perché, se una rosa è una rosa da quando c’è il mondo, io devo cambiare?
Perché, se il mare e il cielo e il sole e il vento non cambiano mai?
Perché, se l’amore è l’amore da quando c’è il mondo, io devo cambiare?
Pino Donaggio, L’ultimo romantico

La quasi totalità dei gay (ovvero i miei simili) che conosco e che da sempre mi tediano blaterando di “discriminazione” ad ogni piè sospinto, sanno tutto su Tiziano Ferro (da una decina d’anni, con tempismo perfetto, simbolo delle battaglie GLBT) ma non sanno chi fosse Umberto Bindi. È sorprendente come i due, mestiere e orientamento sessuale a parte, non abbiano praticamente nulla in comune: da una parte un mediocre autore di banali canzoncine gnegnegnè che a trent’anni era già miliardario da un pezzo e oggi è ancora pienamente sulla cresta dell’onda, bene attento a dichiararsi gay solo dopo aver completamente esaurito il suo potenziale commerciale di idolo delle ragazzine e quindi senza più nulla da perdere (anzi), con totale libertà creativa (non voglio infierire, niente paragoni artistici crudeli), che vive in felice matrimonio che non è certo un segreto per pochi intimi, in una splendida villa negli Stati Uniti, con due bambini ottenuti tramite GPA e un cane, simbolo GLBT pure lui, e ciononostante unanimemente commiserato e “poverinato”; dall’altra parte “un uomo gentile, buono e un grande artista massacrato, deriso, umiliato e poi dimenticato”, come lo definì Gino Paoli, cantautore raffinatissimo, uomo dalla vita privata appartata e schiva, gettato da parte, calpestato, reietto, trattato da lebbroso in quanto nemmeno dichiarato (se non in età avanzata e più per ammissione dell’evidenza che per volontà) ma solamente “chiacchierato”, bandito per decenni dalle tv e morto in povertà, che dovrebbe essere, lui sì, un vero simbolo, e invece precipita sempre più nell’ignoranza e nell’oblio, con l’eccezione di pochi, perlopiù attempati, che ancora affettuosamente ne coltivano la memoria artistica e umana. Forse perché Umberto Bindi non scriveva canzoncine gnegnegnè.

Questo per dire quanto sia demenziale oggi il concetto di “discriminazione”. Succede sempre più spesso di trovarmi a “discutere” con gente che sostiene le baggianate antiscientifiche sulla cosiddetta “identità di genere” (la famosa “teoria del gender” di cui per dieci anni ho sentito negare vigorosamente l’esistenza fino alle lacrime di cispa e glicerina), del tipo “sei quello che senti di essere”, con corollario di espressioni deliranti come “sesso biologico” o “sesso assegnato alla nascita”. Come se il sesso potesse avere altre classificazioni oltre a quella di “biologico” (l’acqua bagnata) o come se l’assegnazione alla nascita fosse qualcosa di casuale, superficiale, frettoloso, un atto asservito alle convenzioni “eteronormative” del “patriarcato” fatto senza riflettere su ciò che ha deciso Judith Butler.

Umberto Bindi
Umberto Bindi

La ferocia dei puri.

Chiarisco un mio punto di vista, beninteso non perché io abbia qualcosa di cui scusarmi: potete “tuttə” baciarmi il fondoschiena, e se vi offendete, chi se ne frega, ma perché è importante. Un conto è affrontare una transizione di genere, con tutto ciò che comporta, fino all’intervento chirurgico: è un percorso coraggioso, doloroso e irto di sofferenze, per il quale ho il massimo rispetto, e non ho alcuna remora a dire convintamente che un uomo che lo compie fino in fondo è (o se preferite “diventa”) rispettivamente una donna a tutti gli effetti, così come naturalmente una donna che lo compie diventa un uomo. Ben diverso è alzarsi una mattina e dire “da oggi mi sento così e quindi sono così” senza avere attraversato tutto quello che hanno attraversato gli altri, e pretendere che tutti lo riconoscano senza discutere sulla base di fantasie – ripeto, antiscientifiche – inventate praticamente l’altro ieri da personaggi tutt’altro che disinteressati e soprattutto privi di qualsiasi titolo per farlo.

Su quest’ultimo aspetto (ma anche su tanti altri) evito da tempo di accettare provocazioni dai miei simili, oramai quasi tutti completamente rimbambiti dal loro egotismo, ma purtroppo questo non basta più: i miei ultimi interlocutori sono stati degli eterosessuali paladini della causa di qualche povero “discriminato” essere umano munito di barba e testicoli irsuti, traumatizzato dalla mia “violenza” nel dirgli con la massima tranquillità che per me può sentirsi quello che gli pare, ma siccome io so ancora riconoscere come sono fatte le donne (se non altro per evitarle come compagne di letto), lui non lo è. La discussione con questi difensori per conto terzi sfocia spesso rapidissimamente negli anatemi di “retrogrado”, “discriminatore”, “transfobico” e nei casi più acuti di stronzaggine di “frocio di merda, adesso come ti senti?” (testuale): e già qui c’è tutta la reale e recondita violenza che scorre sotto questo falso paradigma vittimario. Che il sottoscritto sia “frocio” non è esattamente la scoperta del secolo – magari non “di merda” visto che faccio largo uso di sapone e deodorante – ma mi sento benissimo e fatico a considerarla un’argomentazione a me sfavorevole: specialmente da parte di chi non lo è epperò asserisce di lottare contro le “discriminazioni”.

lgbt queer gender

“Essere” e “sentirsi”.

Anche quando non si arriva a tanto, comunque, le argomentazioni per difendere le scemenze gender  girano attorno a diversi capisaldi, tutti facilissimamente abbattibili con un minimo di riflessione, con una minima disponibilità a rinunciare a un po’ della smisurata, egocentrica e pericolosa vanagloria da “progressisti” di chi ama compiacersi della propria coscienza pulita da “giusta causa”: giusta causa – letteralmente – un paio di palle. La prima è: “si è quel che si sente di essere”. Evidente contraddizione in termini, perché o si “è” o si “sente” di essere. “Ti senti” quello che “ti senti” e che ti pare, ma “sei” quello che “sei”: se due concetti così elementari sono logoi diversi e differenziati, un motivo c’è, e non è la transfobia patriarcale strutturale ciseteronormativa. Di solito questa massima anodina si accompagna ad affermazioni tranchant, stizzite, apodittiche, del tipo “il sesso biologico (vedi sopra) e il genere sono due cose diverse e non necessariamente coincidono, PUNTO!”. Punto. Capirai, ipsə dixit, si incazzano pure di fronte alla necessità di ribadire quello che a loro sembra palese e ovvio: come se l’attivismo fosse scienza, come se questa affermazione tautologica fosse un dato assodato, come se questa epistemologia identitaria fosse una granitica certezza secolare, come se questa puttanata autoreferenziale fosse un’incontrovertibile verità. Queste stesse persone, se solo fino a dieci-quindici anni fa andavi in giro a cianciare perle di sagacia come “non binario” o “identità di genere” come minimo, con la stesso tono categorico, chiamavano la neuro – e facevano bene. Tutto questo dimostra in maniera lampante una cosa: che è stato creato ad arte un problema che non esisteva. La gente scema è molto più narcisista di quanto si creda, non vede l’ora di auto-identificarsi in qualcosa, la storia è piena di mode dementi e di ideologie strampalate, alcune delle quali (ad esempio il femminismo) hanno persino avuto successo.

In base a cosa poi “ci si sente” una cosa o l’altra? Matt Walsh, commentatore politico piuttosto di destra (quindi non esattamente nelle mie corde) ha girato un docufilm stranamente ancora non rimosso da tutte le piattaforme come fu all’epoca The Red Pill, intitolato What is a woman?, che passa come un treno sopra a tutte queste contraddizioni. Walsh intervista diversi fuffologi gender che blaterano di “sentirsi” o “identificarsi” in un genere al quale evidentemente non appartengono ponendo loro una semplice domanda: “cos’è una donna?” Nessuno degli intervistati, ovviamente, sa dare una definizione convincente: i meno fessi abbandonano la discussione capendo che non è aria, i più “ingenui” si impantanano ancora di più ricorrendo a una definizione circolare, ovvero “Una donna è un essere umano che si riconosce come donna”: il serpente che si morde la coda, anzi il pisello. In questa voragine dialettica, sulla base di cosa ci “si identifica” in una donna o in un uomo resta un mistero profondo. Ipotizzo io: in base al fatto che da piccoli si gioca con le bambole o con i robot? Perché ci si veste in gonna o in pantaloni? Perché ci piace il rosa e non l’azzurro? Ma come: non sono proprio quegli stereotipi di genere radicati da millenni che volevamo abolire?

Alcuni momenti del documentario “What is a woman” di Matt Walsh.

I miei esperimenti con la verità naturalmente non finiscono qui. Dal momento che queste asserzioni autoritarie di principio con me stranamente non funzionano, il passaggio successivo è la rievocazione storiografica, declinata in varie forme purché ruotino tutte rigorosamente intorno alla parola-chiave “Medioevo”: “guarda che il Medioevo è finito”, “se fosse per te torneremmo al Medioevo” eccetera. Jacques Le Goff spostati, è arrivata la nuova ondata deə medievalistə. E per renderla più convincente, beccati l’attacco personale: “Guarda che fino a pochi anni fa l’omosessualità era considerata una malattia mentale!”, ma non mi dire, non lo sapevo, “proprio tu che sei omosessuale discrimini gli altri?”. Come se essere omosessuale implicasse automaticamente essere anche un dissociato mentale o un rincoglionito.

In effetti sono passati “solo” quarantotto anni dal 1975, l’anno in cui dal DSM, ovvero quello che in italiano si chiama “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, fu rimossa l’omosessualità. 1975, rendiamoci conto: quarantotto anni fa, proprio l’altro ieri, come no. Quando non esistevano internet, i cellulari, i social, lo streaming, i download illegali, tutte quelle cose senza le quali ə fierə attivistə millennial transfemministə non potrebbero sopravvivere un quarto d’ora. Mezzo secolo in cui non solo tutti i piscialetto non binari, ma anche gran parte dei loro genitori, hanno fatto in tempo a nascere in un mondo in cui l’omosessualità non è più considerata un disturbo mentale ed è anzi oggi un fatto pienamente normalizzato, accettato e persino pubblicizzato. Quale sia il nesso storiografico è tutto un altro mistero: nel tanto evocato Medioevo non mi risulta che venisse negata l’esistenza dell’omosessualità. Anzi, veniva era cercata e perseguita (quella maschile, i soliti privilegiati) tramite scomunica, sanzioni pecuniarie, esilio, fustigazione, taglio della mano, castrazione, rogo, impalamento, impiccagione per i genitali, supplizio della sega. Proprio come dire a una confusa ragazzina con la sesta di tette “tu non sei non binariu, sei solo scema”, certo, sì, la stessa cosa, come no, proprio uguale. Non mi risulta proprio che, perlomeno in Occidente dove maggiormente fioriscono queste cretinate, tutte queste cose succedano ai sedicenti trans non binari “non cisgender”, laddove per “sedicenti”, ripeto, intendo quelli che non hanno affrontato nessuna transizione ma si “percepiscono” e quindi pensano che sia la stessa cosa: e quanto alla parola “cisgender” ci sarebbe da riflettere sull’impegno e la fatica, degni di miglior causa, che ci mette questa gente per inventarsi un lessico così farneticante. Dove starebbe poi la “discriminazione”? Definizione del dizionario Treccani: “distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone, cose, casi o situazioni, […] diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi […]” “Discriminazione” è impedire a qualcuno di andare da qualche parte, di lavorare in un certo posto, di fare qualsiasi cosa in base alla sua appartenenza a questa o quella categoria: che cacchio di “discriminazione” sarebbe dire a qualcuno “asserisci di essere quello che vuoi ma non ti aspettare che io ti dia retta”?

Diritti e capricci.

L’ultimo rifugio dei paladini contro la mia “transfobia” è il Vabbè ma a te cosa cambia?”. “A te cosa cambia”, come se fosse un fatto mio personale. La domanda è talmente cretina che sarebbe da rifiutare in partenza: cosa mi cambiano allora i terrapiattisti? Cosa mi cambia la pena di morte? Cosa mi cambia chi mette “mi piace” ai suoi stessi post su Facebook? Non è questione di cosa cambia a me: sono cose sbagliate, in quanto tali, cose che vanno contro ogni mio principio di giustizia e di civiltà, cose che peggiorano il mondo, che rendono spiacevole viverci e vanno combattute. Ma soprattutto: se per dare seguito al tuo delirio io sono costretto a cambiare la mia visione del mondo e farla aderire al tuo scollamento dalla realtà, addirittura a cambiare il mio linguaggio e magari, prima di relazionarmi a te, seguire un passaggio ulteriore sempre creato ad arte e cioè chiederti “il tuo pronome” e ricordarlo come il genere dei sostantivi in tedesco, mi pare evidente che sì, qualcosa mi cambia. E mi inquieta questa sfiancante pedanteria dell’antilingua con cui questi imbecilli indottrinati normano rigorosamente il loro modo di parlare fatto di perifrasi ridondanti, sfiancanti, grottesche come “persone con utero” e così via, e vorrebbero imporlo a me. Non ultimo il fatto che quel semplice pronome “che non mi cambia nulla” è solo l’inizio e non la fine delle rivendicazioni: per cui, una rivendicazione “che non mi cambia nulla” dopo l’altra, si arriva a deliri come negli USA in cui detenuti di sesso maschile, sulla base della autopercepita “identità di genere”, hanno chiesto e ottenuto di essere reclusi in carceri femminili, in cui le condizioni sono meno dure (sempre i soliti privilegiati noialtri), e soprattutto hanno stuprato delle detenute che erano donne davvero. Io posso “percepirmi” l’Agenzia delle Entrate: “a te cosa cambia”?! Nulla, poi però se da questo consegue che tu mi devi dei soldi, allora vedi se qualcosa ti cambia oppure no. Se poi pretendi che la tua idea venga imposta per legge come pensiero unico e addirittura insegnata nelle scuole, se pretendi (sempre come negli USA) codici di linguaggio nei posti di lavoro che regolamentino quello che posso e che non posso dire incluse addirittura le espressioni facciali, se pretendi l’epurazione dalle biblioteche di libri che “offendono” categorie sensibili, se ciò porta al fatto che una manciata di “attivisti” del tutto minoritaria può mettere in ginocchio università, aziende, istituzioni sulla base di un terrorismo psicologico, è evidente che non cambia solo “qualcosa”: cambia tutto.

Cambiare il modo in cui si parla della realtà non cambia la natura delle cose. Tentare di imporre dei cambiamenti linguistici significa legittimare implicitamente le teorie sballate che stanno alla loro base. Introdurre tabù rende impossibile il dissenso (vedi ddl Zan), peggio poi se viene fatto sfruttando l’empatia e l’altruismo delle persone in buona fede facendole sentire dalla parte giusta in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità”, “uguaglianza”, “diritti”. Eccole, le parole magiche che questa gente non vede l’ora di pronunciare, perché come si fa ad essere contrari a queste belle cose? Tra “diritti” e “capricci” c’è una bella differenza, ma questa distinzione non può essere oggetto di discussione, pena l’anatema.

disforia di genere

Il mito della disforia di genere.

A differenza dell’omosessualità, la disforia di genere è ancora considerata un disturbo mentale: e aggiungo, giustamente. Questo non deve essere uno stigma, ma una consapevolezza: coloro che ne soffrono vanno aiutati, non assecondati. Non bisogna avere paura di affermare un concetto: se tu “credi di essere” qualcosa che non “sei”, il problema è tuo, non mio. Non sono io che devo adattare la realtà alle tue psicosi. Dire a un uomo che asserisce di sentirsi una donna che sì, è vero, ha ragione, non è lui ma il mondo intero a non capire la realtà, è come dire sempre di sì ai matti: si fa prima ed è più facile, ma non li si aiuta, anzi, si nega loro un aiuto del quale non sanno di avere un grande bisogno. Se si vuole aiutare davvero queste persone bisogna invitarle a comprendere il loro scollamento dalla realtà, a capire che hanno subito un lavaggio del cervello, a non vivere ogni minima contrarietà come un’intollerabile violenza, una “discriminazione” addirittura da normare per legge (ddl Zan), e a ricorrere a un aiuto di tipo medico. Chi soffre di disforia di genere è una vittima sì: ma non della “transfobia”, bensì di un disagio psicologico, con una classificazione scientifica. Aiutiamoli, aiutiamole, invece di fare i faciloni e incoraggiarli ad essere i nostri simpatici fenomeni da baraccone, le nostre adorabili scimmiette ammaestrate, solo per sentirci buoni.



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