Nel maggio scorso la Selvaggia nazionale si era esercitata nell’attività in cui eccelle di più: l’uso della retorica spicciola e del conflitto orientati ad arraffare quanta più attenzione mediatica e internettiana possibile, il tutto a sistematico discapito della verità dei fatti. Andiamo con ordine: dal 5 all’8 maggio scorsi si tiene a a Rimini l’adunata annuale degli alpini, con l’ormai immancabile strascico di polemiche e accuse per le molestie e le violenze sessuali che nell’ambito della celebrazione sarebbero state commesse a danno di un numero imprecisato di donne. La Lucarelli, forse perché orfana delle tematiche covid ormai sgonfiate, dunque impossibilitata a proseguire le sue cacce ai novax senza mascherina, reagisce alla crisi d’astinenza da tematiche acchiappaclick al grido di: “dagli all’alpino!”. Partorisce allora un editoriale, che lancia sul suo profilo Facebook parlando di «orde di uomini in branco, in divisa» che da sempre hanno come unico obiettivo quello di «intimorire, assalire, molestare donne, comprese ragazze minorenni e donne incinte». Toni così parossistici ottengono in breve l’effetto per cui erano stati concepiti: scoppia la polemica, molti alpini ed ex alpini indignati le rispondono, chi più educatamente e chi in modo becero, e Lucarelli può andare alla prevista mietitura. Con un dovizioso cherry-picking seleziona i commenti più buzzurri, li espone al pubblico ludibrio ma li usa anche come aggancio vittimistico per ergersi a paladina delle donne.
Poco dopo infatti ci mette sopra il carico e, a sostegno della propria campagna anti-alpini, partorisce un altro editoriale dove commenta la sentenza di condanna a 4 anni di reclusione per due uomini accusati da una minorenne di violenza sessuale. Il fatto porta acqua al mulino della Lucarelli perché si diceva fosse avvenuto durante l’annuale raduno degli alpini, nel 2015 a L’Aquila. «Ho intervistato l’avvocata della vittima», proclama la Lucarelli dal suo profilo Facebook, come se sentire un avvocato di parte significasse attingere alla fonte della verità. Attendere le motivazioni della sentenza e ponderare bene prima di sbilanciarsi pareva brutto. L’occasione è comunque propizia per declinare un’altra giaculatoria tesa a dipingere gli alpini e i loro raduni come una sorta di sequel di “Arancia Meccanica”, dove però i protagonisti tra di loro non si chiamano “drughi” ma “veci”, non bevono “lattepiù” ma grappa, non portano il sospensorio ma la penna sul cappello. I toni usati dalla pubblicista di Civitavecchia, a valutarli razionalmente, sono oltre il ridicolo, ma lei conosce il gregge che influenza e sa che funzionano. Sa anche, perché l’ha calcolato, perché fa sempre così, che il bersaglio vero, l’Associazione Nazionale Alpini, è inerme, non può rispondere, data la sua natura istituzionale (anche se quest’anno, finalmente, ha deciso di reagire in modo formale, come abbiamo raccontato qua). Questo lascia campo libero al popolino internettiano che discute e si accapiglia sotto i suoi post: la baruffa è la forza che sospinge la Lucarelli là dove ha l’assoluta necessità di stare, in ribalta, in cima ai trend-topic.
L’ostacolo alle vere vittime.
Anche per questo la tematica viene sfruttata per giorni, fino a quello che, almeno per noi, è l’apice: il post che la Lucarelli pubblica su Facebook il 17 maggio, ad accompagnamento del solito editoriale. Lo mettiamo qui di seguito, con qualche nostra sottolineatura. Leggetelo con attenzione, magari ad alta voce, usando la massima enfasi possibile. Vi accorgerete che c’è, dal lato tecnico, tutto l’armamentario retorico e manipolatorio d’ordinanza: sinistrismo di rigetto (“donne di tutto il mondo unitevi!”), mostrificazione in salsa murgiana della controparte («la bava del maschio con l’uniforme») e un solenne, quasi ieratico ipse dixit («le donne hanno parlato»), che a leggerlo nel modo giusto si possono sentire in sottofondo i cavalli che s’imbizzarriscono. In realtà non c’è nulla di concreto alla base di tanto sforzo: a nostra memoria, sono anni che attorno alle adunate degli alpini si fanno polemiche che poi non sfociano mai in denunce o condanne, segno inequivocabile che le accuse stesse sono fuffa mediatica. Ma c’è un “ma”: la sentenza di condanna dei due giovani per i fatti denunciati durante l’adunata all’Aquila nel 2015. Essenzialmente su quella s’impernia l’operazione mediatica della Lucarelli, e sul presupposto temerario che la fanciulla che si dichiara violentata all’Aquila nel 2015 sia una vera vittima, che i due ragazzi condannati siano davvero colpevoli e che il processo di primo grado sia stato gestito in modo accurato. È un presupposto temerario per il semplice motivo che è mostruoso nel nostro paese il numero di denunce per violenza sessuale che vengono archiviate o che terminano in assoluzione. Ovverosia: è mostruoso nel nostro paese il numero di denunce false, strumentali, infondate da parte di donne contro uomini per una serie di reati classificabili come “violenza di genere”. Tra queste, la denuncia falsa per violenza sessuale è tra le più gettonate (come si può ben riscontrare dai nostri modesti conteggi). La Lucarelli lo dovrebbe sapere e questo dovrebbe indurla a un minimo di prudenza, ma l’impulso alla ribalta è per lei probabilmente irresistibile.
Ed è lì che si annida lo scivolone olimpico. Quel presupposto su cui di fatto la Lucarelli ha fondato buona parte della sua campagna di rastrellamento like di maggio è infatti crollato qualche giorno fa. In appello i due ragazzi della vicenda dell’Aquila sono stati assolti con formula piena e di contro l’accusatrice ne è uscita come poco credibile, avendo cambiato versione praticamente ad ogni audizione protetta (lo racconta “Il Messaggero” qui). Dunque, cara Selvaggia, le donne non stanno affatto ridisegnando il mondo e riscrivendo le regole: semplicemente in molti, troppi casi presentano denunce infondate basate su false accuse. Le ancelle non hanno fatto cadere alcun vassoio, non si è consumata alcuna lesa maestà: semplicemente la denuncia era infondata, basata su un’accusa falsa. E no, le donne non hanno affatto parlato, come dici tu. Le donne, quelle vere, non approfittano di un sistema che le favorisce per inguaiare uomini, spinte dai più svariati motivi, presentando denunce infondate basate su accuse false. Quelle di cui parli tu e a cui ti sei rivolta a maggio sono solo pericolosi fenomeni di devianza sociale alimentati dalla politica, dall’associazionismo femminista, dai media e dagli influencer come te. Fenomeni la cui esistenza tossica ottiene solo di avvelenare il clima tra i sessi e soprattutto di rendere difficile, quasi impossibile, alle vere vittime di accedere al riconoscimento e alla protezione che meritano.
Forse ci starebbero delle scuse.
Ultimo, e non per importanza, l’assoluzione dei due giovani in appello certifica che gli alpini non sono colpevoli di nulla, non esiste una loro intrinseca tossicità maschile o maschilista, e le loro adunate restano ciò che sono sempre state: feste cittadine all’insegna del cameratismo e della goliardia, con un persistente sottofondo di orgoglio nazionale per un corpo che oggi, nei momenti critici della società civile, c’è e si schiera a sprezzo del pericolo per il benessere comune. Sono feste grandi, di massa, e può capitare che qualche pirla con un berretto pennato acquistato a un banchetto faccia l’imbecille con qualche ragazza. Ma, nel caso, gli alpini e la loro adunata non c’entrano, e per punire il pirla in questione servono fatti reali e prove da portare davanti a un giudice. Non davanti all’account social di una influencer. A questo proposito: ci informano che in questo periodo la Lucarelli è in vacanza in Nepal. Lì forse internet non è stabile e ancora non deve avere saputo dell’assoluzione in appello dei due giovani per i non-fatti dell’Aquila. O forse l’ha saputo, ma la connessione ballerina non le ha ancora permesso di postare sui suoi profili social un testo di scuse rivolto agli alpini e ai suoi lettori per la sua campagna diffamatoria di maggio e le connesse fantasie femministe. Siamo certissimi che appena le sarà possibile lo pubblicherà.