di Giuseppe Di Maio – Pare che un fedele interlocutore di mia nonna un giorno le abbia detto: “Comare, quando alla vista di un cadavere ammazzato di fresco c’è uno che dice, poveretto, che peccato, all’istante si dovrebbe dare anche a lui col pomo del bastone sulla zucca. Voi direte perché? Perché, il morto, chissà quante ne avrà combinate per costringere qualcuno a una tale violenza”. Qualche anno fa fui attaccato da una blogger del “Fatto quotidiano”, una samurai (consigliere emozionale, ella dice) dei diritti delle donne, nell’unica occasione in cui ho parlato di questa parte dell’umanità come categoria. Questa volta non addurrò cifre o bibliografia, solo improvvisi punti di vista per sottolineare che la discordia tra i generi è sì culturale, ma molto di più politica.
Il conflitto si produce dalle specificità dei sessi, e si concentra sul corpo della donna, sulla sua libertà. Se il corpo della donna è sacro, ebbene la sua volontà è quella di un essere umano. E l’umanità è capace di usare finanche il sacro pur di avvantaggiarsi nella sua personale promozione sociale. Non scordiamo che la proprietaria di quel corpo è la prima a consentire di mercificarlo, la prima ad espropriarsene per acquistare benefici. Insomma, una cosa esibita come bene dell’umanità, non può più essere considerata un vantaggio privato, e soprattutto viceversa.
Il matrimonio come progetto condiviso.
Ecco perché ho sempre faticato a seguire i leccapiedi del politicamente corretto che non tentennano mai di fronte alla parola “femminicidio”, considerandolo un concetto definitivamente acquisito. Invece penso che se dovesse significare soppressione del femminino e della libertà femminile, si dovrebbe confinarlo ai casi scatenati dalla cultura a egemonia maschile delle società integraliste islamiche, dov’è apertamente dichiarata la lotta alla femminilità. In queste società non riescono a dimenticare che essa è la causa più attiva della lotta di classe, e che solo opprimendola potranno estinguere i pericoli per una società egualitaria. E’ chiaro che colà il problema è sia culturale che politico, ma noi non siamo fondamentalisti islamici.
L’innata lotta, che desiste solo nel caso dell’amore e della vera amicizia, non s’interrompe però nel matrimonio. In esso la coalizione, la consorteria, valgono finché il partner è alleato del proprio progetto di classe. Difatti alla ferocia nella scelta del compagno/a segue un’eguale ferocia nella sorveglianza dei suoi requisiti. Non c’è da sorprendersi, dunque, che il coniugio sia la sede più frequente della violenza di genere, perché è proprio qui che la sorte del socio/partner è vigilata, giudicata, e minacciata.
La distruzione della famiglia.
Il matrimonio è una contraddizione perenne di cui già in origine non sono trasparenti le ambizioni dei contraenti. E’ un patto che si stipula in due ma si revoca unilateralmente, uno scontro insanabile tra la tradizionale gratuità e gli obblighi del diritto di famiglia. L’emancipazione per legge di ogni suo componente, che non precisa le corrispondenti responsabilità, mette in pericolo l’intero progetto. Per cui l’aggressione che la società delle merci e del capitale si ostina a portare a questo istituto fossile della società contadina, lo rende oggi un attentato vivente all’incolumità dei suoi membri.
Sono certo che di qui a poco la famiglia soccomberà del tutto alle mitologie della società capitalista, pur avendone rappresentato per tanto tempo l’unica vera opposizione. Ed è mia salda convinzione che la sua distruzione sarà stata solo in parte spontanea, ma di più compiuta di proposito dal Capitale e dai suoi scherani, che usano la guerra di genere per nascondere quella di ceto. Se non riusciremo a creare un vincolo libero dagli obblighi sociali, ciò che intendiamo oggi per famiglia dovrà sperare solo nella fine della lotta di classe. Ma la vedo dura. Allora forse non festeggeremo manco più Natale che, contrariamente a quanto si dice, è solo la festa di questa ditta consortile e delle sue proprietà.