L’11 novembre scorso si è tenuto a Siena un convegno incentrato sui temi riguardanti la tutela delle relazioni familiari, organizzato dal Movimento Mantenimento Diretto. Durante l’incontro, alcuni interventi hanno dirottato l’attenzione su altri argomenti, come poi ha fatto notare Matteo Bernini sul suo profilo Facebook:
A quanto pare, dunque, le tesi degli “esperti” sono le seguenti: 1) gli affidi a Siena sono “praticamente” bilanciati; 2) serve la qualità più che la quantità; 3) ascoltare un minore è cosa semplice che non necessita di particolari competenze; 4) c’é il problema della violenza di genere e dei femminicidi. Come giustamente fa Bernini, sorvolo sul quarto punto che non è affatto pertinente col tema del convegno (e su cui abbiamo parlato in abbondanza). L’argomento della violenza di genere ha un’accezione squisitamente ideologica e deve essere infilato a forza dentro qualsiasi discussione, tanto più con l’approssimarsi del 25 novembre. Sorvolo anche sul terzo, che evidenzia lo scollamento dalla realtà di chi fa tali superficiali affermazioni. Preferisco analizzare i primi due punti. Dire che gli affidi a Siena sono “praticamente” bilanciati è la giustificazione che da sempre utilizza chi non conosce la realtà, o finge di non conoscerla. In tutta Italia, non solo a Siena, l’equivoco nasce dalla differenza tra la dicitura “affidamento condiviso” (che in effetti compare in larga parte delle sentenze) e le misure applicative che replicano il modello di affido precedente alla riforma. In sostanza l’etichetta sul contenitore recita “condiviso”, ma i contenuti di condiviso non hanno nulla. Esiste un vistoso squilibrio nei compiti di cura della prole, continua ad essere favorito un genitore prevalente e penalizzato un genitore marginale: esattamente ciò che il legislatore del 2006 intendeva eliminare. A riprova, ecco alcuni grafici riassuntivi dell’analisi effettuata su un campione di 1.020 sentenze che prevedono formalmente un affidamento condiviso:
Lo stereotipo della quantità.
Risulta evidente l’asimmetria tra i ruoli genitoriali. Tale squilibrio confligge con stereotipi e luoghi comuni utilizzati dagli oppositori di un affido concretamente condiviso: non si può dividere chirurgicamente il bambino a metà, non si può vivere col cronometro in mano, non si può stabilire un 50% matematico. Ovviamente non si tratta di 50% matematico, ma nemmeno di 49 e 51, di 45 e 55 o di 40 e 60. Quando i compiti di cura coinvolgono un genitore in misura prossima o addirittura inferiore al 20%, risulta evidente la restaurazione del genitore prevalente, sul modello dell’affidamento esclusivo. Ne deriva che a un affidamento formalmente condiviso non corrispondono le misure applicative previste dalla riforma del 2006, quindi è fuorviante sostenere che a Siena, o in qualsiasi altra città d’Italia, gli affidi siano bilanciati.
C’è poi l’altro argomento: serve la qualità più che la quantità. Altro stereotipo da sfatare in merito ai tempi di frequentazione. In genere preferisco un’analisi asessuata dei problemi connessi alle separazioni, parlo sempre di “genitore” senza distinguere tra padre e madre. In questo caso sono costretto a fare un’eccezione, visto che il mantra “non è importante la quantità ma la qualità del tempo trascorso con i figli” è specificamente dedicato ai padri. Il Sistema Giudiziario comunica su due distinti livelli: ciò che al primo livello è biasimevole e disfunzionale viene invece imposto al secondo livello. Al primo livello abbiamo il padre all’interno di una coppia unita. Se questo padre dedica ai figli solo briciole di tempo, l’intera filiera del sistema giudiziario (magistrati, avvocati, servizi sociali, consulenti) lo valuta negativamente. Se un padre separato chiede di non dedicare ai figli solo briciole di tempo, l’intera filiera del sistema giudiziario lo valuta negativamente.
Abbiamo due comportamenti diametralmente opposti che però portano alla stessa valutazione conclusiva: è un genitore incapace di comprendere le esigenze dei figli. Il discrimine quindi non è nel comportamento, ma nello stato civile di chi lo mette in atto. Visto nell’ottica della prole, che è l’unica ad orientare il nostro lavoro, i figli hanno diritto a trascorrere tempi significativi anche col padre se la famiglia è unita, altrimenti dalla latitanza paterna ricaverebbe un danno; però tale diritto viene drasticamente compresso se la famiglia si separa. Ergo, i diritti dei minori non sono oggettivi ed inalienabili, ma dipendono dallo stato civile dei genitori. Nei confronti dei padri si succedono quindi tre fasi, antitetiche tra loro, che hanno un effetto schizofrenizzante.
Un sistema schizofrenico.
Fase 1, la critica – Il padre che dedica alla prole solo la domenica perché il lunedì ha la palestra, il martedì il calcetto, il mercoledì le coppe in tv, il giovedì il poker con gli amici, etc. viene (a ragione) valutato negativamente. Fase 2, l’educazione – Il coinvolgimento paterno deve essere costante, non è importante solo la qualità (una bella domenica) ma anche la quantità e la continuità del tempo dedicato alla prole. Fase 3, la diseducazione – Se arriva la separazione collassano i contenuti delle prime due fasi: è una fase schizofrenica, destabilizzante.
La bufala che la quantità del tempo sarebbe irrilevante rispetto alla qualità viene smentita anche dal dettato normativo che recita testualmente, all’art. 337 ter: (…) il minore ha il diritto di mantenere il rapporto EQUILIBRATO E CONTINUATIVO con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi (…). Il bene tutelato è il Diritto del Minore, non l’ego del genitore. La norma è cogente in quanto ne deriva un obbligo inderogabile; andrebbe applicata senza pregiudizi o interpretazioni di genere, sono inesistenti nell’impianto normativo discriminazioni contrarie ad un genere o favore di un altro. La sequenza dei diritti del minore è collegata ad un rapporto equilibrato E continuativo. Il legislatore utilizza la “e” che lega, non si tratta di un dettaglio, quindi non vi può essere l’uno in assenza dell’altra: l’equilibrio vive solo nella continuità. Ne deriva che tempi e modalità di frequentazione non possono concretizzarsi in qualcosa d’altro rispetto ad un rapporto equilibrato e continuativo. Lo squilibrio o la discontinuità costituiscono violazioni della norma.