«Distruggete il patriarcato, non il pianeta»; «le donne e il pianeta Terra hanno troppo da sopportare»; «rispettare solo le donne da cui sei attratto non è rispetto per le donne»; «tutto ciò che puoi fare tu io riesco a farlo mentre sanguino»: sono solo alcuni degli slogan che si possono trovare in uno dei più noti e quantitativamente importanti network di profili Instagram e pagine web legate alle rivendicazioni del femminismo, capitanato da un vero e proprio simbolo della lotta al patriarcato, seguito e ripostato da letteralmente milioni di adolescenti: @feminist. Si sarebbe facilmente tentati di immaginare che si tratti del commovente risultato di un gruppo di attiviste “intersezionaliste”, un po’ cisgender un po’ GLBTQ, riuscite a farsi strada quasi per miracolo in questo mondo dominato da maschi violenti e misogini, che usano tutto il loro potere per opprimere il genere femminile. Ma, a quanto risulterebbe da un’inchiesta di qualche anno fa, passata inosservata specialmente qui in Italia (ma che un effetto su questo network l’ha avuto), la realtà che c’è dietro sarebbe molto più prosaica.
Cominciamo col dare un’idea del giro d’affari e influenze: l’account @feminist conta circa sei milioni e mezzo di followers, che diventano ben oltre dieci milioni se si contano anche i profili collegati – e che spesso si fanno pubblicità incrociata – come @itsfeminist, @march e @chnge (2,3 milioni di followers per quest’ultimo soltanto). Se alcuni di questi sono in teoria profili di “attivismo”, alcuni altri sono dei veri e propri brand, come appunto @chnge, che è una pagina commerciale di “moda sostenibile” tutta improntata sulle tematiche dei profili partner. È sufficiente aprire uno dei profili di questa catena, per vedere una serie di slogan woke, del tipo che i nostri lettori conoscono ormai molto bene. E tramite questi slogan, le pagine che li pubblicano fanno profitti.
Un account femminista gestito da due uomini.
Pare però che sia capitato diverse volte che alcuni di questi slogans fossero rivendicati da altre attiviste, vittime di abusi, o comunque content creators, che si erano viste ripostare i propri contenuti da questi profili, senza una richiesta di consenso e senza darne giusto credito: è il caso ad esempio di Ezra Wheels, attivista disabile, che denunciò l’uso non corretto di un proprio post (con la propria immagine e un cartello con scritto «Includete le persone disabili nell’attivismo») da parte di @feminist. L’episodio catturò l’attenzione dell’artista multimediale Sam Sedlack, che nel 2018, prima per Slay the Patriarchy poi sul suo sito personale denunciò che di fatto questa rete di accounts è gestita da due uomini d’affari: Tanner Sweitzer e Jacob Castaldi. La denuncia della Sedlack ha avuto un’eco profonda. Secondo un’ulteriore inchiesta di Medium, Castaldi aveva co-fondato nel 2015 Ivory Ella, un brand di vestiario legato alla causa animalista della conservazione degli elefanti, con la mission di donare per tale causa il 10% dei ricavi netti; a giudicare dall’entità delle donazioni, il brand in difesa degli elefanti andò molto bene, così con l’ex compagno di università Sweitzer, nel 2017 decisero di puntare anche sulle categorie umane in cerca di vittimismo: messe le mani sul nome utente @feminist, con la ditta denominata Contagious Creative e una costellazione di altri profili, hanno messo in piedi l’impero social antipatriarcale, mestruato e misandrico più famoso del web, che è essenzialmente usato per fare promozione al brand Chnge.
Dopo un articolo del 26 ottobre 2020 a opera di Cecilia Nguyen di The Revival Zine, che diventò virale, @feminist cancellò circa 2000 posts dal proprio feed. Sweitzer e Castaldi non negarono la loro paternità della rete femminista, anzi in risposta ai dubbi e perplessità suscitati dalla denuncia di Sedlack e Nguyen, e delle altre attiviste che si vedevano surrettiziamente usati i propri contenuti, pubblicarono una lettera aperta “alla comunità di @Feminist” (ora consultabile su Wayback Machine). I due mostrano una perfetta conoscenza dei linguaggi e delle strategie woke: ad esempio laddove, dopo aver rivendicato la proprietà del gruppo, si scusano con il pubblico in quanto «avremmo dovuto pensare prima che è problematico che degli account di questo tipo siano gestiti da due uomini cis, ci scusiamo per ogni distorsione causata per questo, cercheremo di rimediare», anticipando la classica accusa «non sei donna/disabile/di colore/lgbtq quindi non puoi parlare a loro nome». I due continuano promettendo una maggiore diversificazione dello staff, e di non postare mai più contenuti senza ottenere il consenso degli autori e senza darne credito. Secondo quanto documentato da Medium però (che nel suo articolo del 2021 già citato, illustra anche bene come questi profili “di attivismo” vengano in realtà usati semplicemente per fare pubblicità ai prodotti di Chnge), questa promessa è stata poi disattesa ad esempio usando contenuti presi da Twitter senza dar credito o chiedere consenso agli autori.
Attivismo o profitti?
@chnge e i suoi profili partner non si approfittano solo di vittimismo e slogan, ma, cosa forse ancora più grave, lucrano su reali tragedie, come in un esempio documentato da Medium: dove @chnge replica verbatim un post di @impact con le foto e la commemorazione delle vittime del massacro della scuola di Sandy Hook, con la sola aggiunta dell’hashtag #protectkidsnotguns («proteggete i bambini, non le armi») – e al contempo è lanciato un modello di t-shirt con lo stesso slogan in vendita alla cifra di 33 dollari. C’è da dire che la compagnia ha mantenuto la sua promessa di fare beneficienza per le cause coinvolte: ad esempio, come documentò la Nguyen nel 2020, ad allora erano stati donati 250.000 dollari a Black Lives Matter (sospendiamo un attimo il giudizio su quest’ultimo movimento…) e altri 200.000 almeno ad altre organizzazioni di settore. Ma, come ha giustamente osservato la Nguyen, «Il modo in cui promuovono @chnge sugli altri account ‘attivisti’, e per di più senza alcuna trasparenza sul fatto che siano gestiti dalle stesse persone, mi fa mettere in discussione la moralità di tutta l’operazione».
Come commenta Medium, «Chnge ha speso tempo e denaro per convincere il suo pubblico che si tratti di un brand etico e degno di essere supportato. I consumatori pagano prezzi altamente gonfiati per i loro prodotti, con questa aspettativa in mente… È un peccato che Chnge operi in questo modo. In effetti hanno donato una decente quota di denaro a enti umanitari. Ma tutte le altre loro azioni danno la percezione che queste donazioni non siano genuine, ma siano solo mezzi promozionali atti a massimizzare i profitti». Dal quadro emerso ci sentiamo di concordare. Come ha scritto la Nguyen, «A Sweitzer e Castaldi non frega nulla del femminismo. A loro interessa solo di ingrandire il proprio brand». Peccato che le milioni di adolescenti che nei loro contenuti pubblicitari ci credono ciecamente, e ai quali danno visibilità gratuita con repost su repost, non lo sappiano ancora