L’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, venerdì 23 settembre scrive sul suo profilo Facebook parole di fuoco sul CSM, rispetto alle quali non si registrano reazioni da parte della politica. Parole – ma soprattutto fatti – che in un Paese normale dovrebbero scatenare un terremoto giudiziario, politico e mediatico. Invece siamo in Italia quindi nessuno ha alzato un sopracciglio. E non si dica che oggi la politica è distratta dalla necessità di racimolare voti: lo scandalo giudiziario di Asti risale a oltre due anni fa, quando le elezioni non erano nemmeno all’orizzonte. E in questi due anni nessuno ha voluto o saputo affrontare il problema, lo stesso assordante silenzio di oggi. Il post di Caiazza si intitola “Magistrati e deontologia, una esemplare vicenda disciplinare”, e riporta quanto segue: «Forse qualcuno ricorderà la incredibile vicenda accaduta tempo fa al Tribunale di Asti. Si celebrava un delicato processo di violenza sessuale (di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito). Giunti alla conclusione della istruttoria dibattimentale, discute il PM, che chiede una pena molto dura; discutono i due difensori della madre, e si rinvia ad altra udienza per la discussione del difensore del padre, imputato principale. Discussione che però non avverrà mai perché alla udienza successiva il Tribunale legge solennemente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli sbalorditi astanti, compreso lo stesso P.M., fanno garbatamente presente al Presidente che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso.
Il Presidente si dice dispiaciuto dell’incidente, accartoccia il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato, e dà la parola al secondo difensore. Il quale ovviamente si rifiuta, eccependo l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale deposita egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello. Insorge la Camera Penale del Piemonte occidentale, con modalità giudicate da ANM e Procuratore Generale, come dire, esagerate: con il risultato di spostare il focus dalla gravissima, incredibile condotta di quel Collegio giudicante, al tono e ai modi della protesta. La vicenda fu segnalata al CSM, che – apprendiamo oggi da dettagliate notizie di stampa- dopo la bellezza di oltre due anni e mezzo, ha concluso con la sanzione della censura, per di più – e qui siamo al mistero più profondo – nei riguardi del solo Presidente; prosciolte le due giudici a latere. Non sono ancora depositate, a quanto pare, le motivazioni della bizzarra (è un eufemismo) decisione, ma c’è davvero poco da approfondire. La censura è poco più di una tirata di orecchie, ed è ovvio che la entità della sanzione irrogata fotografa impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione in quella incredibile vicenda. Nel dare notizia di questo stupefacente esito, l’articolo viene così titolato: “Sanzionato il giudice che ha letto la sentenza di condanna prima dell’arringa del difensore”, un titolo che la dice lunga su quanto sia indietro questo nostro Paese in termini di comprensione dei principi fondamentali che regolano il processo penale.
Il trucco c’è e non si deve vedere.
Qui non si tratta di “aver letto la sentenza di condanna prima dell’arringa”, quanto invece del fatto che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza della ipotesi accusatoria o invece di quella difensiva, e deciso la irrogazione della pena di 11 anni di reclusione (undici anni, dico) senza avere mai ascoltato il difensore (unico difensore, per di più) dell’imputato principale. Il fatto non può ovviamente avere spiegazioni alternative all’unica sensata: la totale indifferenza di quel giudice collegiale alle argomentazioni in difesa di quell’imputato. Converrete con me che un giudice che ritenga di pronunziare sentenza nei confronti di un imputato senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione. Il giudice non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio divino, ma è un signore il cui compito è esattamente quello di formulare un giudizio solo all’esito della compiuta espressione delle posizioni contrapposte tra accusa e difesa. Insomma, non è che si debbano spendere ulteriori argomenti: si tratta di un fatto di inconcepibile gravità. Che però è stato punito con la pena della censura, un buffetto sulla guancia. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Talmente poco grave, da rendere addirittura misteriosamente possibile il proscioglimento dei due a latere, pur avendo essi partecipato alla camera di consiglio e deliberato la condanna: come a dire, una marachella del solo Presidente. È già gravissimo che un fatto di questa enorme gravità possa essere accaduto in un Tribunale della Repubblica, ma è addirittura desolante e ancora più allarmante che il supremo organo di autogoverno della magistratura possa averlo giudicato alla stregua di un banale incidente professionale. C’è qualcuno che sappia darci una spiegazione, e soprattutto che senta il bisogno, prima ancora che il dovere, di farlo?».
Aggiungiamo a queste dure considerazioni il nostro modesto contributo. Lo scriviamo da anni: per certi magistrati l’importante è prendere una decisione, poi il motivo si trova. Magari arrampicandosi sugli specchi, ma si trova. Da Asti, ma soprattutto dal CSM arroccato a Palazzo dei Marescialli, arriva la prova: la decisione preconfezionata è tanto ferrea da rendere inutile l’arringa difensiva: ormai il collegio ha deciso per la colpevolezza quindi la difesa non serve, potrebbe argomentare in qualsiasi maniera tanto la sentenza è già scritta. In questa ottica perversa ha un senso anche la sanzione ridicola per il solo Presidente e il proscioglimento per i due giudici a latere, vale a dire il secondo problema rilevato da Caiazzo. C’è poco da indignarsi, il CSM tratta la questione come un banale incidente professionale perché questo è: un banale incidente professionale. Il CSM dimostra di non disapprovare le sentenze preconfezionate, ma non si deve sapere in giro. L’incidente professionale è del Presidente che si è fatto pizzicare – come dicono a Roma – col sorcio in bocca. Il collegio si è riunito, ha discusso, ha deciso e ha messo nero su bianco la propria decisone senza ascoltare le motivazioni a difesa dell’imputato quindi senza garantire la regola più elementare del giusto processo, ma questo non merita di essere sanzionato perché in fondo funziona sempre così? Lo sanno tutti e quindi sembra saperlo anche il CSM che infatti non ci trova nulla di strano, nulla di irrituale, nulla di illecito, nulla di inammissibile, nulla di sanzionabile? I fatti (non le opinioni, i fatti) dicono che colui che viene sanzionato, seppure blandamente, è il Presidente che ha avuto fretta e ha fatto scoprire la magagna. Avrebbe dovuto aspettare l’arringa della difesa, fare finta di ascoltarla, fare finta di valutarla, fare finta di confrontare le diverse posizioni, fare finta di consultarsi con gli altri componenti del collegio, fare finta di prendere una decisione dopo avere acquisito tutti gli elementi necessari e poi… voilà, tirare fuori dal cilindro la sentenza già scritta. Il trucco c’è, ma non si vede. Tuttavia anche il prestigiatore più accorto può sbagliare i tempi del suo spettacolo, capita… Ecco, l’errore del maldestro Presidente viene sanzionato come quello di un prestigiatore che ha la colpa di aver lasciato capire il trucco.