La notizia ieri è rimbalzata tra i media mainstream: l’Associazione Nazionale Alpini ha presentato diverse querele per diffamazione in relazione al recente raduno di Rimini, in occasione del quale da più parti i “veci” sono stati accusati di essere ubriaconi, molestatori e stupratori. «Le persone querelate sono un politico, un giornalista e due soggetti che hanno offeso il corpo e l’associazione», dichiara Massimo Cortesi, portavoce dell’ANA, che aggiunge: «A due il provvedimento è già stato notificato, agli altri arriverà a giorni». Secondo Cortesi questo è solo l’inizio di un percorso di autodifesa che l’antica e gloriosa associazione intende intraprendere per difendere la propria onorabilità rispetto a un andazzo che dura da fin troppo tempo. Per l’esattezza dall’esplosione del fenomeno #MeToo. Fu quello a dare la stura a una “caccia allo stregone” su vasta scala, di cui gli alpini caddero vittime fin da subito.
La loro kermesse annuale è stata presa di mira dalle false accuse del femminismo organizzato, ampiamente supportato dai media mainstream custodi del conformismo politicamente corretto, fin dal 2017. Ne parlammo nel blog precedente a questo: già allora l’ANA minacciò querele, le preparò ed era pronta a depositarle, ma rientrò nei ranghi su pressione, così ipotizzammo noi senza mai essere smentiti, dell’allora Ministro della Difesa Roberta Pinotti la quale (nostra illazione, che riteniamo molto vicina al probabile) non esitò a ventilare un taglio dei contributi ministeriali all’Associazione di fronte a una prosecuzione dell’azione legale. Riteniamo probabile questo scenario perché, in allora, non solo l’ANA non querelò nessuno, ma addirittura redasse e diffuse un’umiliante lettera di scuse (!!!). Un corpo orgoglioso come quello degli alpini che sa di essere incolpevole eppure s’inginocchia a quel modo può giustificarsi soltanto con il fatto che qualcuno in quel momento l’avesse preso per il collo.
L’ANA non abbia esitazioni.
La controprova sta nell’oggi: l’ANA ha di fatto le mani libere per agire. Al Ministero della Difesa siede un uomo, per di più impegnato ad affrontare una questione ben più spinosa delle inesistenti molestie degli alpini, ovvero la guerra in Ucraina. Soprattutto quell’uomo fa parte di un Governo dimissionario. Non potrebbe esserci occasione migliore per l’ANA per lavare l’onta del 2017 ma anche di tutte le polemiche sorte negli anni a seguire ad ogni loro adunata, quando le città ospiti si riempivano di graffiti diffamanti e i giornali rilanciavano accuse e denunce. Che lì rimanevano: tutti gli anni il fenomeno si è manifestato con fiammate comunicative, concentrate specialmente sui social e rilanciate dai media mainstream. Soltanto lì le denunce venivano esposte, con resoconti sempre anonimi e, curiosamente, sempre stilisticamente uguali, all’interno delle varie pagine femministe, da quelle collegate a “Non una di meno” in su. Alla prova dei fatti, però, nelle procure non arrivava mai nulla, al massimo due o tre denunce, immediatamente archiviate per mancanza di riscontri. La stessa cosa è accaduta quest’anno per il raduno di Rimini, con in aggiunta al solito circo, anche una raccolta firme (naturalmente online) addirittura per abolire il raduno nazionale annuale.
La montagna della mobilitazione online alla fine, anche quest’anno, ha partorito il topolino di una sola denuncia, naturalmente priva di riscontri, o meglio con l’unico riscontro della parola dell’accusatrice. Stando ai postulati del femminismo politico (leggasi Valeria Valente in primis), tale parola dovrebbe bastare e avanzare, come accade in paesi incivili come Spagna o Svezia, ma invece no: ancora scampoli di Stato di Diritto resistono cocciutamente qua e là nel sistema giudiziario italiano, isolati e apparentemente irriducibili come il villaggio gallico di Asterix e Obelix contro gli assalti dei romani. È anche a seguito di quest’ultima archiviazione che i legali dell’ANA hanno deciso di depositare le loro querele, che per il momento prendono di mira singoli personaggi mentre, così riporta il comunicato stampa dell’Associazione, «si sta valutando anche la posizione dell’associazione femminista “Non una di meno”, la prima a segnalare online le presunte molestie». Come sarebbe “si sta valutando”? Quale esitazione ancora trattiene la mano dell’ANA dal colpire la causa prima, il mandante ideologico e l’esecutore materiale delle diffamazioni, che è tale non per nostra opinione, ma perché le invasate stesse che ne fanno parte lo rivendicano orgogliosamente?
Piave o Caporetto?
Lo scenario, al momento, porta con sé due timori. Il primo è che l’ANA eviti di attaccare il cuore del problema e si accontenti di impallinare soggetti secondari, ovvero le mezze tacche della politica o del giornalismo che, alla ricerca di consenso o lettori, hanno agganciato il proprio vagone alla locomotiva mediatica di “Non Una di Meno”, facendosene megafono. Può essere che anche l’orgoglio alpino senta l’istinto di arrestarsi di fronte a una schiera di apparentemente innocue ragazzine urlanti slogan sgangherati o danzanti improbabili canzonette “contro il patriarcato”. Sarebbe un errore: quella mobilitazione giovanile ha un comando generale fatto di adulte potentemente ideologizzate, la cui propaganda ha finito per inquinare la capacità ragionativa collettiva, rendendola incapace di vedere il fenomeno per quello che è: un’organizzazione estremistica che veicola un’ideologia radicale e violenta che nulla ha a che fare con i diritti delle donne. Se queste sono le remore dell’ANA, ci rendiamo disponibili a raggiungerli presso la loro sede e a raccontare loro, con ampie controprove storiche, sociologiche e statistiche, che la loro querela a “Non Una di Meno” non solo sarebbe una doverosa e adulta lezione impartita a giovani che si sono spinte troppo in là nell’abulia del non-pensiero, ma potrebbe anche rappresentare una resa dei conti indispensabile nell’ottica di una normalizzazione del clima sociale, relativamente alle relazioni tra sessi. Costoro, e tante altre associazioni, congreghe e consorzi simili, hanno tirato la corda fino all’estremo e non è mai troppo tardi per allentare quella tensione, facendo capire quanto sgradito sia il loro estremismo vuotamente conflittuale all’interno di un corpo sociale che vuole e ha bisogno di unione, armonia e concordia.
In mancanza di una denuncia netta e determinata contro “Non Una di Meno”, l’iniziativa dell’ANA rischia di essere un mero fuoco di paglia che lascerà inalterata la prassi degli ultimi anni, anzi forse esacerberà ulteriormente le accuse, già a partire dal raduno del 2023. Medusa, insomma, cari amici alpini, si elimina tagliandole la testa, non punzecchiandola qua e là. Il tutto tenendo conto anche che sull’intera iniziativa incombe un secondo non trascurabile timore: la magistratura. Una querela per diffamazione verrebbe analizzata e discussa da giudici di prima istanza, quelli che valutano i “fatti”, ma anche quelli che più di altri da anni vengono obbligati a seguire corsi d’aggiornamento indottrinanti organizzati da associazioni simili a “Non Una di Meno”, orientati a rendere conforme e normale l’emissione di sentenze coerenti con la narrazione dominante, dove cioè chi si dichiara difensore dei “diritti delle donne” è sempre incolpevole. Si tratta di magistrati che, inoltre, sanno bene quale impatto negativo potrebbe avere sulla propria carriera avere davanti al tribunale assembramenti di invasate con cartelli di protesta e bavagli viola, supportate passivamente da mass-media e dalla peggiore politica nazionale (pressoché tutta). Per superare questi due timori occorre che l’ANA non abbia remore e agisca da par suo, dando l’assalto (giudiziario) diretto e determinato al comando generale da cui è partita l’azione diffamatoria, appunto a “Non Una di Meno”, senza lasciarsi intimorire da pressioni mediatiche o politiche. Una sua vittoria in tribunale, non esageriamo, avrebbe un significato pari alla vittoria del Piave e darebbe nuovo lustro al proverbiale “qui non si passa”. Una sua sconfitta, e ancora non esageriamo, sarebbe invece un’altra Caporetto generale. Non solo per gli alpini, ma per l’intera società italiana.