«Appartiene a una delle più feroci gang newyorchesi il 25enne Vincent Pinkney, il killer che ha troncato la vita di Davide Giri. […] Il New York Times minimizza l’uccisione del ricercatore italiano. […] Nome, cognome, età dell’assassino sono le scarne notizie fornite ai lettori. […] Nessun interesse per la storia del killer afroamericano: se l’autore dell’omicidio fosse stato un bianco e la vittima un nero, tutto sarebbe stato diverso. […] L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo, sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni. […] Per trovare queste notizie, diffuse dalle forze dell’ordine, bisogna andare sui siti di qualche tv locale, oppure di un tabloid populista, il New York Post. Il New York Times ha scelto una reticenza che sconfina nell’autocensura. […] Il dolore per l’assurda morte di Giri non verrebbe risarcito da una diversa attenzione della stampa, però questa vicenda offre uno sguardo inquietante sul “nuovo giornalismo”, militante e condizionato dalla sua agenda ideologica. Anche la cronaca nera si piega a questa logica tribale». Con queste gravi parole denuncia il Corriere della Sera, a firma del giornalista Federico Rampini.
A razze invertite, ma sulla stessa linea, un altro articolo del Corriere, “Gabby Petito, l’America e la sindrome della donna bianca scomparsa”, a firma del giornalista Andrea Marinelli: «“Nessuno ha mai messo tante energie nel cercare una donna nera” è l’accusa che attraversa il Paese. […] In quel momento, negli Stati Uniti, c’erano 90 mila denunce di persone scomparse, ma nessuna aveva catturato l’attenzione — e le risorse — come Petito e Laundrie, che dominavano ormai telegiornali e programmi d’intrattenimento. Molte famiglie afroamericane e ispaniche lamentarono una differenza di trattamento con i propri cari, la cui scomparsa non colpiva l’immaginario come quella dei due ragazzi della Florida. È “doloroso”, aveva detto alla CNN David Robinson, che per cercare il figlio Daniel, scomparso da mesi in Arizona, aveva dovuto assumere un investigatore e mettere insieme una squadra di volontari. […] “Quando Gabby Petito è scomparsa, la caccia all’uomo messa in atto è stata incomparabile rispetto a questo caso”, ha commentato l’avvocato di famiglia. Ancora una volta, il Paese era rimasto vittima della Missing White Woman Syndrome, la sindrome della donna bianca scomparsa teorizzata vent’anni fa dalla storica conduttrice afroamericana di Pbs Gwen Ifill per spiegare la maggiore attenzione che viene data a una donna bianca in pericolo, rispetto a una nera nella stessa situazione. […] “Il modo in cui questa storia ha catturato il Paese ci fa domandare come mai la stessa attenzione mediatica non viene mai riservata alle persone di colore”. Alla scomparsa di Smith-Fields era dedicata una pagina Reddit con 235 membri, ad esempio, mentre quella di Petito ne aveva oltre 100 mila: l’hashtag #GabbyPetito in un mese aveva avuto quasi un miliardo di visualizzazioni su TikTok».
Lo strabismo dei media italiani.
Entrambi gli articoli coincidono nel sottolineare la gravità della discriminazione subita, la responsabilità e il ruolo attivo dei media nel creare e promuovere tale discriminazione e infine l’importanza del fattore etnico: nel primo caso la vittima è discriminata e ignorata in quanto bianca, nel secondo è meritevole di attenzione e dunque privilegiata in quanto bianca. Il ragionamento dei giornalisti è basato sulla sostituzione, nel primo caso “se l’autore dell’omicidio fosse stato un bianco e la vittima un nero, l’attenzione sarebbe stata diversa”, e nel secondo “se la persona scomparsa fosse stata nera o ispanica invece di una donna bianca, l’attenzione sarebbe stata diversa”. È evidente che entrambi le tesi sono in aperta contraddizione, ma questo non è il tema di questo intervento. I due articoli convergono su un altro fattore, il fattore sessuale o – come è solito dire oggigiorno – di genere, questione che i due giornalisti non riescono misteriosamente nemmeno a intravedere. Al di là del fattore etnico, in entrambi i casi il sesso maschile risulta il sesso discriminato: nel primo caso la vittima discriminata è un uomo, nel secondo la vittima meritevole di attenzione e dunque privilegiata è una donna. A nessuno dei due giornalisti viene in mente di applicare al sesso lo stesso ragionamento della sostituzione che hanno applicato al fattore etnico: se la vittima di omicidio fosse stata una donna invece che un uomo, l’attenzione dei media sarebbe stata diversa? Se la persona scomparsa fosse stata un uomo invece che una donna, i mezzi per l’indagine e l’attenzione dei media sarebbero stati diversi? Nessun ipotetico sospetto, nessun confronto. L’ipotetica discriminazione che potrebbe subire l’uomo in quanto uomo rimane a tutti invisibile, persino a quei genitori che cercano il figlio Daniel, colpevole non di essere uomo ma di essere ispano-americano. Purtroppo nulla di nuovo negli Stati Uniti, dove enti e istituzioni denunciano continuamente i dati asimmetrici che colpiscono la popolazione nera rispetto a quella bianca, e tacciono su quelli che colpiscono la popolazione maschile rispetto a quella femminile, malgrado percentualmente il divario nei diversi dati statistici tra uomini e donne sia molto spesso di gran lunga superiore rispetto al divario tra neri e bianchi.
Per quanto possa sembrare ironico, è perfettamente legittimo indirizzare le gravi accuse sui comportamenti manipolatori dei media americani denunciati dal Corriere delle Sera allo stesso mezzo stampa, in specifico, e a tutti i media italiani in genere, riguardo al modo nel quale riportano le notizie a seconda del sesso interessato. Inutile fare un infinito elenco degli innumerevoli trattamenti asimmetrici, di cui forse il caso più emblematico e attuale in Italia è quello di Luana D’Orazio, accompagnato dall’assordante silenzio di quella strage anonima, prevalentemente maschile, di decessi sul lavoro. Oltre a tutti quegli uomini vittime di violenza, che compaiono copiosi puntualmente nelle statistiche del Ministero dell’Interno a fine anno, ogni anno, spariti misteriosamente prima dalla cronaca dei media, dei quali si sa poco o nulla. Difficile dimenticare gli uomini vittime di aggressione con acido, menzionati superficialmente e di sfuggita, mentre la cronaca ci aggiorna in ogni dettaglio delle vittime femminili. Proprio sul Corriere della Sera: «…alle voci “lucia annibali” più “ansa” o “lucia annibali” più “corriere della sera” o solo “lucia annibali” ci sono 53 000, 19 600 e 348 000 risultati rispettivamente; alle voci “william pezzullo” più “ansa” o “william pezzullo” più “corriere della sera” o solo “william pezzullo” ci sono 641, 619 e 4 750 risultati rispettivamente. Sul blog La27ora del Corriere della Sera alla voce “Lucia Annibali” in data 30/04/2014 ci sono 12 risultati/articoli per nessuno alla voce “William Pezzullo”, malgrado La27ora è «un blog al femminile», e femmine sono nel primo caso la vittima (12 risultati) e nel secondo la carnefice (0 risultati)» (tratto dal libro La grande menzogna del femminismo, p. 769).
Gli uomini inesistenti.
L’immaginario femminista si costruisce con il linguaggio, con le parole, ma anche con il silenzio, la censura. I media hanno un ruolo attivo fondamentale nella costruzione e diffusione di questo immaginario. Con le parole costruiscono l’immaginario della sofferenza femminile, con il silenzio l’inesistente sofferenza maschile, che rimane invisibile, inimmaginabile. Così i media «si autocensurano». Sembra una regola non scritta del giornalismo: l’uomo vittima non deve esistere. Molto illustrativo a questo proposito è la guerra apertasi all’interno del femminismo tra le femministe transgender e le femministe critiche del genere, nominate in maniera dispregiativa come Terf («Trans Exclusionary Radical Feminists», femministe radicali trans-escludenti). Stando ai media, gli attivisti Lgbt+ mediante «una serie impressionante di episodi di censura e di intimidazione» stanno coartando la «libertà d’espressione», «in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria Kathleen Stock» (La Repubblica, Senza libertà d’espressione). «Non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse», «pur minacciando tutti, oggi colpisce soprattutto le donne, specie se femministe e/o impegnate in una professione intellettuale». Tutti conosciamo le vicissitudini di J.K Rowling, autrice di ‘Harry Potter’, «altre donne sono state criticate, molestate o emarginate per essersi opposte a quello che loro chiamano “lobby trans”». «Noi donne abbiamo già sofferto troppo e ora veniamo osteggiate da diversi fronti». La deputata laburista «Angela Rayner, ha denunciato “l’intollerabile livello di misoginia” che ha dovuto subire la sua correligionaria» (El Mundo, La campagna ‘Respect My Sex’ ha condannato J.K Rowling).
Di conseguenza, inevitabilmente, una donna, Raquel Rosario Sánchez, è riuscita «per la prima volta a portare un’università britannica sotto processo per aver consentito le molestie degli attivisti Lgbt+» – l’ennesima “per la prima volta come monopolio femminile”. «Tutto quello che mi è successo, mi è successo perché sono una donna, non per le mie convinzioni». (Abc, Primo processo contro un’università britannica per molestie di attivisti). Per tutte queste femministe, e per i media che riportano le notizie, non esistono James Damore, licenziato da Google per aver osato congetturare una spiegazione biologica per le diverse prestazioni di uomini e donne nelle professioni tecnico-scentifiche, o Alessandro Strumia, professore di fisica allontanato del CERN per motivi simili, o Will Knowland, licenziato dal prestigioso liceo britannico di Eton per aver pubblicato un video sul patriarcato, o tantissimi altri che è inutile elencare. Ci sono decine di video di proteste in Youtube, alcuni all’epoca diventati virali, tra i più noti le proteste contro Warren Farrell nell’università di Toronto, quelli nelle università americane contro Milo Yiannopoulos, o le proteste di attivisti contro Jordan Peterson fuori dall’università di Toronto, grazie alle quali Peterson divenne una celebrità. Senza andare troppo lontani nel tempo, è da qualche settimana fa la campagna organizzata contro lo studente messicano Christian Fernando Cortés Pérez per togliergli la laurea in psicologia dopo il suo discorso nell’università a favore della vita e contro l’ideologia di genere. Le femministe e i media non solo stanno travisando la realtà, stanno cambiando la Storia. Prima ancora che il termine Terf esistesse molti uomini che si opponevano all’ideologia di genere e al femminismo, subivano censura, intimidazione, accuse e minacce. Da quando il femminismo è diventato dominante, la libertà d’espressione delle persone che opinano diversamente a livello accademico e istituzionale, molti di loro uomini, è sotto minaccia. Da 50 anni. Ritorsioni, minacce e licenziamenti. A sentire le femministe e i media, questi uomini non esistono e non sono mai esistiti. Riscrittura della Storia, fabbricazione dell’immaginario femminista.