In sintesi, e per smentire le numerose falsificazioni ideologiche circolanti, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che l’aborto non è un diritto costituzionale, ma un diritto legale regolamentato dalle assemblee legislative dei vari stati. Cosa ben diversa dalla “abolizione del diritto all’aborto” su cui strillano in molti e di “trionfo del diritto alla vita” su cui strillano altri. Negli USA sull’interruzione di gravidanza vi saranno stati con legislazioni restrittive e stati con maglie più larghe. I cittadini eventualmente contrari alla legislazione statale potranno, alle prossime elezioni locali, dare la maggioranza a chi voglia cambiarne la disciplina. È la democrazia, bellezza. O piace sempre, o non piace mai, le vie di mezzo a seconda delle convenienze non sono ammesse. Eppure è quello che accade, e l’isteria predominante dà l’occasione per fare qualche riflessione sulla tossicità dell’approccio ideologico a questioni semplici trasformate in “bandiere”. Per sgombrare il campo subito da ogni strumentalizzazione: per noi l’aborto è un mero intervento terapeutico, assolutamente legittimo e doveroso nei tempi stabiliti dalla scienza medica e in determinate circostanze, ovvero quelle elencate dall’attuale Legge 194/1978, meno laddove la giustifica per motivi legati al pericolo per la condizione “psichica”. Perché facciamo questa eccezione? Perché quella del danno psichico è una condizione non oggettivamente rilevabile, dunque è ampiamente manipolabile, e una legge non dovrebbe mai dare appigli alle manipolazioni o ai soggettivismi. Tuttavia la nostra posizione sul tema non è rilevante. Molto più interessante è mettere insieme alcuni degli argomenti affermati a gran voce da chi oggi s’indigna o esulta per la sentenza della Corte Suprema USA e paragonarli ad alcune realtà fattuali.
Il punto di partenza è sicuramente il concetto-mantra secondo cui l’aborto è “un diritto umano” o “un diritto universale”. A tutti gli effetti un diritto è tale solo se è umano (al netto dei doverosi ed esistenti diritti degli animali…), cioè se si applica a tutti gli esseri umani quale elemento chiave della loro esistenza, ed è universale solo se vale per tutti, senza distinzioni. Se quel tale diritto invece vale soltanto per una frazione dell’umanità, mentre a un’altra frazione viene negato, allora non è più un diritto, ma un privilegio. Così appare essere l’interruzione di gravidanza, trattandosi di un intervento terapeutico effettuabile soltanto su persone di sesso femminile al fine di sgravarle dall’essere incubatore naturale di una futura vita umana. Se non che non ci sarebbero né incubatore né futura vita umana se qualcuno, un uomo o genericamente un seme maschile, non fosse precedentemente intervenuto. Dunque gli attori della situazione sono due, ma la decisione sui suoi sviluppi è rimessa, sotto forma di diritto, soltanto a uno di essi, mentre l’altro non ha assolutamente alcuna voce in capitolo, in nessun caso. La questione, dal lato analitico, attiene ai diritti riproduttivi di uomini e donne, incrociando i quali si possono avere, a seconda che padre e madre del nascituro vogliano o meno portare la gravidanza a compimento, quattro esiti possibili dove, come si nota, in caso di disaccordo tra i due è sempre la volontà della donna a prevalere:
La sovranità sul proprio corpo.
C’è un motivo per tutto questo, e lo analizzeremo tra poco. Resta il fatto che, stanti così le cose, non si può legittimamente parlare dell’aborto come diritto umano o universale nel momento in cui una delle parti che ha contribuito a determinare la circostanza del suo esercizio viene estromesso dallo scenario nei casi in cui le volontà delle due parti in causa non collimino. Si tratta di uno sbilancio risolvibile? Forse. Le proposte in questo senso non mancano e si imperniano tutte su una possibile compensazione riconosciuta a quello dei due soggetti che soccombe nella scelta finale, in caso di intenzioni non coincidenti. Quello che manca è la serenità con cui discutere di una questione cruciale, ovvero i diritti riproduttivi maschili, che spariscono polverizzati dal giganteggiare dei “diritti della donna”, che si sono intestati il predominio, un vero e proprio diritto di vita e di morte sul nascituro, sul tema dell’aborto. Un predominio che poggia essenzialmente su un postulato chiaro e netto, ancora oggi ripetuto e gridato con forza: “il corpo è mio e decido io” (lo slogan in inglese suona: “my body, my choice”). C’è chi contesta questo postulato facendo notare che nel momento in cui il corpo femminile diventa incubatore di un altro corpo e di un’altra vita potenziale, alla crescita e nascita della quale quell’intero corpo si asservisce dal lato fisiologico, quel possesso esclusivo menzionato nello slogan perde di mordente. Tuttavia l’argomentazione rischia di risultare debole di fronte alla difficile domanda: “quando l’embrione è individuo, ovvero sviluppa una coscienza e la dignità intangibile di persona?”. La scienza ha dato risposte in questo senso, ma orientative, non certe al cento per cento. Nessuno sa, sebbene tutti si sbilancino con certezza in merito, quando l’embrione diventi a tutti gli effetti un essere umano senziente.
La questione va dunque vista sotto un altro profilo, più logico e nuovamente inserito nel novero dei principi e dei diritti universali. Se “il corpo è mio, decido io” è il criterio con il quale si delibera sulla futura esistenza di un individuo e si nega un diritto attuale a una delle parti che hanno concepito quell’individuo, allora ha senso estendere quello stesso criterio a ogni altra situazione in cui sia in gioco la decisione individuale sul proprio corpo. In questo senso, in effetti, vanno gran parte delle costituzioni nazionali occidentali e la quasi totalità delle convenzioni internazionali sui diritti umani: ogni individuo è sovrano sul proprio corpo e ogni imposizione esterna sul corpo altrui è un crimine. Ma come valutare questo postulato oggi, a un anno dall’imposizione diretta e indiretta di una terapia asseritamente contro il virus covid-19 che, oggi si può dire con tranquillità (finalmente), dati scientifici alla mano, non solo è risultata del tutto inefficace, ma anzi apertamente dannosa? In quale misura il postulato della sovranità del corpo resta valido per l’interruzione di gravidanza e per le sole donne laddove non è stato rispettato per nessuno, né uomini né donne, relativamente alla vaccinazione obbligatoria o indotta col ricatto? Così come il concetto di democrazia, quello di sovranità sul proprio corpo sembra quindi cambiare cogenza a seconda delle circostanze o dei comodi o delle esigenze del dettato ideologico dominante: è validissimo se si tratta di aborto, non vale più niente se si tratta di imporre un regime sanitario-totalitario orientato da un business globale. Simbolo supremo, se si vuole anche comico, di questa anomalia è l’invito del premier canadese ipervaccinista e iperabortista Justin Trudeau a tutte le donne statunitensi: «se avete necessità di decidere liberamente sul vostro corpo», ha dichiarato sui suoi canali social, «il Canada vi accoglie a braccia aperte». Peccato che ad oggi in Canada si possa entrare soltanto se tridosati.
Serve un dibattito sanificato dall’ideologia.
La domanda che attraversa i media mainstream, ora, è se la sentenza della Corte Suprema USA avrà ripercussioni anche sulla legislazione italiana. La risposta immediata è no: negli USA vige un sistema di common law, dove le sentenze fanno legge, mentre da noi fanno “solo” giurisprudenza, cioè letteratura giuridica che i giudici eventualmente consultano per prendere decisioni quanto più possibili uniformi. Ed è qui che si innesta un fatto poco conosciuto e poco ricordato. C’era una coppia sposata in Campania, che aveva tentato una prima volta di avere un figlio tramite procreazione assistita, senza però riuscirci. I due alla fine si separano e dopo un po’ la donna chiede di poter usare i gameti conservati per essere fecondata e avere un figlio dall’ex compagno, che ovviamente si oppone: i figli si fanno come scelta d’amore, cosa impossibile con una ex moglie. I due vanno in tribunale, decisione del giudice (gennaio 2021): sì all’impianto dell’embrione anche se l’ex marito non vuole. Ossia prevale la volontà femminile anche quando non è coinvolto il suo corpo. Ovuli e spermatozoi infatti erano fisicamente collocati in contenitori criogenici e sarebbero stati congiunti in laboratorio, per poi radicare il risultato nell’utero della madre. Prima di quel momento nessun corpo era coinvolto, eppure il “diritto” (privilegio) di decidere è stato riconosciuto alla componente femminile, mentre quella maschile è stata gravata del dovere di attrezzarsi per mantenere l’ex moglie e di accettare un figlio non voluto concepito con una persona non più amata.
La sentenza del tribunale di Santa Maria Capua a Vetere non farà legge, come accadrebbe negli USA, ma è un precedente significativo ed emblematico di come di tutto il discorso relativo a un mero intervento terapeutico, utile e doveroso in determinate circostanze, si siano appropriate ideologie estreme e contrapposte, una di carattere conservatore e confessionale e l’altra femminista suprematista asseritamente progressista. Mentre la prima deraglia sovente in affermazioni moraleggianti lontane anni luce dalla realtà, la seconda opera allo scopo di stabilire un diritto di primazia per un genere soltanto, un diritto di vita e di morte sugli individui futuri riservato alle donne, a pieno detrimento di ogni diritto dell’altra parte direttamente coinvolta, quella maschile. Che oltre a non poter mettere minimamente bocca sulla questione, nemmeno quando il corpo della donna non è coinvolto, vede stracciato ogni diritto a gestire la propria volontà riproduttiva e viene gravata dall’obbligo del mantenimento economico, anche nelle circostanze più distanti ed estreme. Ad esempio, ricordiamolo, anche quando un esame del DNA prova che il figlio non è suo, cosa che secondo alcune recenti statistiche capita una volta su dieci. È indubbio insomma che l’aborto, risultando determinante come intervento terapeutico, debba essere garantito. Ma è altrettanto indubbio che sia necessario aprire un dibattito pulito e aperto, ovvero da un lato che tenga conto davvero della sacralità del diritto di tutti a disporre del proprio corpo e dall’altro che sia sanificato da ogni lordura ideologica estremista, specie se mirante a istituire un privilegio per un genere e un grave danno non compensato per l’altro. A giudicare dalle volgarissime manipolazioni e mistificazioni che si stanno facendo oggi nel commentare la sentenza americana, quel tipo di dibattito è ancora molto lontano ma, sarà inevitabile, sul lungo periodo gli sbilanci finiranno per pesare così tanto che un cambiamento di rotta razionale ed equilibrato sarà d’obbligo.