20 giugno 2022 – Senato, Commissione Giustizia. In calendario vi sono le audizioni sui DDL 2530 e collegati, sul tema del contrasto alla violenza contro le donne. I primi due auditi siamo Davide Stasi e io ed entrambi, con argomenti diversi, sottolineiamo la faziosità dei DDL in esame e il pesante condizionamento ideologico che ne cancella il requisito irrinunciabile dell’imparzialità. Stasi mostra dati incontestabili sulle denunce che si dimostrano prive di fondatezza, citando tabelle estratte proprio dalle note introduttive del DDL 2530. Mette quindi in discussione la stessa ratio dei Disegni di Legge, e tanto altro. Io ripercorro brevemente le radici del fenomeno “false accuse”, citando un dossier del 2011 (80% di accuse infondate), un’indagine del biennio 2016/2017 (90% di accuse infondate) e soprattutto i dati ministeriali del trio Cartabia, Lamorgese, Bonetti, appena citati da Stasi (95% di accuse infondate). Il problema nasce dal fatto che il fenomeno delle false accuse – in costante aumento da oltre 10 anni – invece di suscitare preoccupazione viene costantemente ignorato a livello istituzionale.
La cosa sembra aver dato fastidio al terzo audito, il dr. Roia, che prima del suo intervento sente il bisogno di contestare i dati sulle “false denunce”. Sarebbe stato più corretto ed elegante attenersi, come tutti gli auditi, alle proprie considerazioni senza contestare quelle altrui, anche perché non era un dibattito tra gli auditi con diritto di replica, ma evidentemente il dr. Roia non ha saputo trattenersi. Non ho mai parlato di false denunce, non è possibile farlo. Una denuncia non può mai essere definita “falsa”, possono essere prive di fondatezza giuridica le accuse dalle quali una denuncia prende vita, ma la denuncia in sé non può essere “falsa”. Semmai il termine esatto è false accuse, o accuse infondate (che sono la causa) dalle quali nascono denunce che esitano in archiviazione, proscioglimento o assoluzione (che sono quindi l’effetto delle accuse prive di fondatezza), circoscrivendo ad un residuo 5% la percentuale di denunce che si concretizzano nella condanna del reo. I numeri sono incontestabili poiché la fonte è lo stesso DDL che reca le tre prestigiose firme governative, allora il dr. Roia prova a darne una personalissima chiave interpretativa: «quanto detto prima non trova fondamento nella realtà giuridica, perché le archiviazioni e le assoluzioni vanno tarate su quello che tutti sanno essere il ciclo della violenza, le forme di ritrattazione o minimizzazione normali nelle donne che subiscono violenza. (…) forse bisogna portare dati in relazione a donne che sono state denunciate per calunnia, in relazione alle false denunce».
L’inconsistenza del reato di calunnia.
Meraviglioso! Una posizione accettabile, forse, qualora provenisse da un soggetto digiuno di Diritto e casistica giudiziaria come un carrozziere, un pastore o un fruttivendolo, meno accettabile se proviene da un magistrato di lungo corso quale il dr. Roia è. Anche uno studente al primo anno di giurisprudenza sa che per il reato previsto all’art. 572 cp (maltrattamenti contro familiari o conviventi) la procedibilità è d’ufficio, non è quindi possibile la remissione di querela come forma di ritrattazione. Per il reato previsto all’art. 612 bis (atti persecutori) la procedibilità è a querela di parte, ma la remissione di querela può essere solo processuale. Non esistono quindi casi in cui dalla eventuale remissione di querela possano nascere archiviazioni prima che venga incardinato un processo; vi sono inoltre una quantità di eccezioni per le quali la procedibilità diventa d’ufficio. Questo per dire che i cosiddetti reati-spia numericamente più rilevanti, citati nelle note introduttive del DDL 2530, non possono essere “ritrattati” tramite remissione di querela. Esempio: per maltrattamenti in famiglia i 37.874 procedimenti del 2018 esitano in 1.373 condanne (4% del totale) e in 36.501 archiviazioni, proscioglimenti o assoluzioni; i 39.107 procedimenti del 2019 esitano in 1.448 condanne (ancora 4% del totale) e in 37.659 nulla di fatto; i 37.638 procedimenti del 2020 esitano in 1.949 condanne (5% del totale) e in 36.265 nulla di fatto. La sproporzione tra le denunce delle quali viene accertata la fondatezza e quelle dimostratesi infondate è macroscopica. Vale a dire che, nel triennio preso in esame, circa 110.000 uomini sono stati bersaglio di accuse che, alla verifica giudiziaria, in oltre il 50% dei casi si sono dimostrate prive dei requisiti minimi per istruire un processo (archiviazione) e anche per coloro rinviati a giudizio hanno prodotto una percentuale irrisoria di condanne senza che una sola volta su 110.000 sia intervenuta la remissione di querela. Questo solo per quanto attiene al reato di maltrattamenti.
Ma tali dati non piacciono al dr. Roia, lui è disposto a considerare privi di fondatezza (le chiama “false denunce”, ma abbiamo già chiarito che è un errore definirle così) solo i casi in cui l’accusatrice, dopo l’assoluzione dell’accusato, viene poi a sua volta denunciata per calunnia. No dr. Roia, questo errore da principiante non è da lei. Come sopra, anche uno studente di giurisprudenza sa che il reato di calunnia (art. 368 cp) prevede il dolo, si configura infatti qualora si accusi qualcuno sapendolo innocente. Lo spostamento dell’asse giudiziario dall’oggettività alla soggettività comporta la configurabilità pressoché impossibile del reato di calunnia, per quanto attiene alle accuse di reati – o presunti tali – consumati tra le mura domestiche. La legge sullo stalking e il successivo codice rosso hanno sovvertito l’onere della prova, architrave del nostro ordinamento, preparando la strada ad una mole anomala di accuse che, alla verifica giudiziaria, si rivelano prive di fondatezza. Così scriveva il Prof. Avv. Carlo Taormina in data 6 dicembre 2011.
L’inghippo dei “reati di percezione”.
Lo spostamento dell’asse giudiziario dall’oggettività alla soggettività comporta una sorta di impunità per chi inventa false accuse, rendendo di fatto impossibile dimostrarne il dolo, l’accusa costruita in malafede. Con l’introduzione del concetto di “percezione” un comportamento non si configura più come reato per caratteristiche proprie, oggettive e verificabili, ma diventa reato nella misura in cui la presunta parte lesa lo percepisce come tale. L’accusa di stalking, in sostanza, arriva quando la presunta vittima “si sente” perseguitata. Il perdurante stato d’ansia non è accertabile clinicamente, neanche il timore per la propria incolumità personale o dei propri familiari, criteri alla base delle denunce per il reato di cui all’art. 612 bis cp. Non esistono elettroencefalogrammi o analisi del sangue che possano certificare lo stato d’ansia causato dal comportamento del presunto stalker. La parola della presunta vittima è l’unico elemento dal quale dedurre lo stato di perdurante ansia e/o il timore per l’incolumità. Viene sovvertito l’asse portante del processo, l’onere della prova: non è l’accusatrice a dover dimostrare che un fatto sia avvenuto, ma è l’accusato a dover dimostrare che non sia avvenuto. Cosa oggettivamente ardua, in alcuni casi impossibile come sa qualunque avvocato. Nonostante ciò le denunce per atti persecutori vengono depositate a decine di migliaia ma in misura largamente superiore al 40% vengono archiviate, non essendoci i requisiti minimi per il rinvio a giudizio.
Anche in caso di assoluzione la strada della denuncia per calunnia non è però percorribile, poiché l’onere della prova torna alla sua collocazione originaria: l’innocente ingiustamente accusato, qualora denunci la sua accusatrice, deve sapere che spetta a lui dimostrare che le denunce prive di fondatezza nascono dal dolo. Compito pressoché impossibile per un reato che prende vita dalla “percezione” della presunta vittima. Questo comporta un enorme filtro a monte delle denunce per calunnia: qualsiasi avvocato avveduto, sulla scorta dell’esperienza, sconsiglia il proprio assistito dallo sporgere denunce sterili che, si sa, finiranno nel nulla. Vi sono poi i casi in cui le accuse siano tanto palesemente inventate da indurre i PM a trasmettere gli atti in procura per verificare se sussistano gli estremi per procedere ai sensi del 368 cp., senza quindi che sia la parte offesa a denunciare. Il dr. Roia sostiene che ciò che dico io non conta nulla, per parlare di false accuse bisognerebbe portare dati in relazione alle donne denunciate per calunnia. Il fatto è che non sono disponibili. Né l’ISTAT né i Ministeri competenti rilevano tali dati, ma anche se venissero rilevati sarebbero percentualmente irrilevanti per il motivo appena chiarito: la calunnia non è dimostrabile per i reati di “percezione” legati alla soggettività della presunta parte offesa. Quindi le denunce per calunnia sono e saranno sempre un fenomeno di nicchia, non certo per la fondatezza delle accuse ma per l’oggettiva impossibilità di dimostrarne in giudizio l’infondatezza dolosa.
Il dr. Roia non può parlare per “tutti”.
Il dr. Roia ha aggiunto poi una considerazione all’insegna del “tutti sanno”: «le archiviazioni e le assoluzioni vanno tarate su quello che tutti sanno essere il ciclo della violenza, le forme di ritrattazione o minimizzazione normali nelle donne che subiscono violenza». Tutti chi? Decine di migliaia di persone la pensano diversamente, tra avvocati e intere associazioni forensi, psicologhe, criminologhe ed accademici di diverse discipline. Si veda ad esempio il precedente sfogo del Prof. Avv. Carlo Taormina, per citare non proprio l’ultimo degli sconosciuti. Il dr. Roia è liberissimo di esprimere il proprio pensiero ma dovrebbe farlo senza la presunzione di autoeleggersi portavoce di “tutti”. Conosciamo la teoria believe women, ogni donna che denuncia deve essere creduta; conosciamo la teoria secondo la quale le donne che denunciano sarebbero solo una frazione di coloro che avrebbero motivo di denunciare, per cui il fenomeno della violenza contro le donne sarebbe prevalentemente sommerso; conosciamo la teoria secondo la quale se una donna ridimensiona le accuse non è per averle oggettivamente gonfiate e non essere in grado di provarle, ma il motivo è sempre la asserita paura dell’aguzzino che, se venisse condannato, potrebbe ucciderla. Secondo il dr. Roia, infatti, ogni donna che interrompe una relazione lo fa a rischio della propria vita, come recentemente riportato dal Corriere della Sera. Mariti ed ex mariti, fidanzati ed ex fidanzati, conviventi ed ex conviventi… tutti gli uomini italiani sarebbero quindi 25 milioni di assassini in nuce.
Non si può tacere come la strategia prevalente, nelle crisi di coppia, sia la costruzione di un quadro accusatorio basato sulla violenza domestica. Non viene tenuta in alcuna considerazione la fondatezza o meno delle denunce, ciò che rileva è esclusivamente la mole: «ho denunciato più volte l’uomo violento», che infatti nella narrazione mediatica diventa sicuramente violento in quanto denunciato per violenze, a prescindere dall’esito di tali denunce. Gli sconfinamenti penali costituiscono ormai una costante nel Diritto di Famiglia, le denunce per maltrattamenti, percosse, lesioni, violenze sessuali e stalking appaiono, in maniera pressoché irrinunciabile, come appendice tossica delle istanze di separazione. Non si tratta di un’opinione personale ma di un fatto, rilevato da singoli avvocati ed intere associazioni forensi. Il picco si raggiunge nelle sottrazioni internazionali di minore, ove la strategia “non fuggo perché voglio ma fuggo perché devo, sono costretta a proteggere me ed i figli dal coniuge violento” è la più utilizzata. Anche se poi, alla verifica giudiziaria, il presunto violento risulta non esserlo affatto. Il propagarsi di tale strategia è dato dal risultato minimo garantito. Meno di una denuncia su dieci, dicono le statistiche ministeriali, esita in condanna dell’accusato, ma anche le altre nove ottengono immediatamente l’allontanamento del presunto reo dai figli, incontri protetti o annullati del tutto. Con i cronici tempi lunghi della giustizia italiana le limitazioni si protraggono per anni, quindi il rapporto padre-figli risulta gravemente compromesso anche quando poi arriva l’assoluzione.
Le anomalie dopo il Codice Rosso.
Dal Codice Rosso in avanti, inoltre, arrivano anche le misure cautelari prima ancora che inizi il processo: ammonimento, allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinamento alla presunta vittima, braccialetto elettronico, etc. Altre misure che hanno concrete ripercussioni sugli incontri con i figli, anche nel caso in cui le false accuse non riguardino i minori ma la madre (violenza assistita). Aggiungiamo che è previsto il gratuito patrocinio a prescindere dal reddito per chi si dichiara vittima di violenza, mentre chi si difende da accuse che poi si rivelano prive di fondatezza deve farlo a propria cura e spese; asimmetria vistosa che sarebbe interessante analizzare nell’ottica del giusto processo, ma questo è un altro discorso. Infine la estrema difficoltà di dimostrare il dolo nelle accuse che si rivelano infondate, per cui sono gli avvocati a sconsigliare la perdita di tempo e denaro per una controdenuncia che tanto verrà sistematicamente archiviata. Ecco in sintesi i motivi del proliferare di false accuse: risultati garantiti, gratuità dell’iter giudiziario, certezza – come minimo – di fiaccare le risorse economiche della controparte, impunità per chi inventa false accuse. Saremmo lieti se il dr. Roia volesse farsi promotore, presso l’ISTAT, di un’indagine conoscitiva presso tutti gli studi legali italiani, per sapere in quali percentuali i clienti assolti ai sensi del 530 primo comma intendano procedere per calunnia ma vengano dissuasi dal professionista che conosce l’inutilità di ricorrere al 368 cp.