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A proposito della richiesta di sospensiva del decreto riguardante l’amministrazione di sostegno della sorella del reclamante, il 16 marzo 2022 la Corte d’Appello di XXXX, Sezione della Persona e della Famiglia, attraverso il presidente relatore M.T. così disponeva: “L’istanza non è suscettibile di accoglimento. Rileva in primo luogo la prossimità dell’udienza di discussione (fissata a giugno 2022) omissis”. Ora il magistrato M.T. è passato ad altro incarico e la causa è stata rinviata al prossimo ottobre, lo stesso mese di quella già precedentemente rinviata della madre dell’appellante. Negli ultimi venti anni abbiamo passato non poco tempo a difenderci dalla malagiustizia. Data la lunghezza dei procedimenti giudiziari, nel corso degli stessi, abbiamo persino registrato, tra un rinvio ed un altro, il decesso di attori e convenuti. Molti cittadini non sanno che tra i motivi più comuni dei rinvii e quindi delle lungaggini dei processi vi è l’impedimento del giudice. Peggiora il quadro del “servizio” giurisdizionale il poco simpatico vezzo di cambiare il giudice adito nel corso del procedimento, anche in spregio della ratio legis calata nell’art. 174 c.p.c..
Non ci risultano casi di magistrati (ce ne saranno?) che hanno atteso l’esaurimento del ruolo delle proprie udienze prima di collocarsi altrove. Nel caso del nostro amico la nomina dell’A.d.S. esterno alla famiglia è un provvedimento illegittimo. A titolo esemplificativo mettiamo di seguito soltanto uno dei pronunciamenti giurisprudenziali in merito: “Qualora una persona gravemente ammalata ed incapace di provvedere ai propri interessi patrimoniali abbia già dato, all’uopo, rituale e valida procura generale, il giudice tutelare, pur richiesto di nominare all’ammalato un amministratore di sostegno per la cura degli interessi patrimoniali, non può sovrapporre un proprio decreto giudiziale alla volontà già espressa, nelle forme rituali, dall’inabile…il ricorso non può trovare ricetto, dal momento che (omissis n.d.r.) è stato costituito procuratore generale dell’interessata in forza di atto volontario (ex art. 1392 c.c.)” (Tribunale di XXXX De Jure. Per richiesta del reclamante non riportiamo gli estremi del pronunciamento. Né di questo né di altri). A tutt’oggi l’imprevista avventura giudiziale, iniziata per difendere due donne disabili, è costata ai protagonisti ed al nostro amico la “reputazione”, una malattia oncologica, tanti soldi e la perdita totale della tranquillità. Nessuno pagherà mai per tutto questo!
Per quel poco che è consentito su alcune reti televisive, in questi ultimi giorni, si parla del vicino referendum sulla giustizia. Ci auguriamo che venga raggiunto il quorum ma, nel contempo, restiamo interdetti sull’ingenuità che dimostra chi si batte per il “successo” referendario come se fosse all’ultima spiaggia. Leggiamo sul quotidiano Il Riformista: “Il regime è compatto. È ben schierato al fianco dei p.m. che vogliono bloccare anche questa volta la riforma della giustizia. Come hanno sempre fatto. Da trent’anni. Sanno che stavolta siamo a un bivio: se domenica passano i referendum, e vince il si, la riforma sarà inevitabile e radicale, torneranno a vivere elementi essenziali dello Stato di diritto e lo spirito della Costituzione”. Non siamo così ottimisti ed è quasi patetico leggere altrove che “barrare cinque si” possa cambiare le cose. Ma neanche se consapevolmente, diffusamente e decisamente contrapposti al suggerimento dei “cinque no”, prevedibile parto podalico dell’ineffabile segretario del P.D.. Nella giurisdizione abbiamo già avuto la nostra “Dunkerque” nazionale, anche grazie alla bocciatura del quesito referendario più rilevante (la responsabilità civile dei magistrati) e al momento non ci sembra di potere nutrire speranze di rivincita. Forse chi coltiva certi sogni lo fa soltanto guardando alle vicende giudiziarie di noti politici o di grandi imprenditori, ovvero guardando alle poche storie ritenute meritevoli di entrare nella mega-macchina del mainstream mediatico.
Qualche penna, indaffarata a farci notare le stranezze temporali del trojan rifilato a Luca Palamara, “le ultime bufale delle procure”, “il cordone sanitario/giudiziario” steso intorno al leader di Italia Viva, l’accanimento inquisitorio contro qualche avvocato, i disturbi paranoidi di alcuni p.m., ignora però tutto il resto che riguarda la quotidianità giudiziaria di gente alla quale “nun je ne po’ fregà de meno” di carriera, ricchezza e potere. Non si verificano esclusivamente grandi traversie come quelle descritte qui. Nell’indifferenza generale, da quella del massimo cerimoniere della Repubblica al più giovane dei MOT (magistrati ordinari in tirocinio), decine di migliaia di soggetti “deboli” (minori, disabili, anziani) vengono insolentemente macinati dall’attività giurisdizionale in ambito familiare. Una delle più “celebri” vittime è il prof. Carlo Gilardi. Per lui sono finiti sotto processo un po’ di poveri diavoli senza colpe e, per diffamazione, due giornalisti. Secondo la Cassazione “il processo alle due Iene si potrà fare serenamente a Lecco”. C’è l’amara “carcerazione” di Lando Buzzanca. C’è il caso kafkiano del prof. Pierluigi Monello. Nel segno dell’iguana e nel rimodulare al meglio l’architettura del potere, una parte della magistratura (quella delle lobby e delle logge), qualunque sia il tipo di palla che decide di lanciare, continua a fare sempre strike. Anche questo è la spia di una società decomposta. Dato il contesto, chi sta fuori dei giochi di categoria non può limitarsi semplicemente a non essere un “bandito”. Se si indossa una toga non basta che ci si defili girando lo sguardo da un’altra parte ma, di fronte alle porcate del collega e all’arbitrio, quasi diventato regola, si deve trovare il coraggio per metterci la faccia, dire basta e denunciare.