Il femminismo è una «teoria vaccinata». Secondo il filosofo ed epistemologo Karl Popper, le teorie scientifiche sul mondo non si possono verificare, cioè dimostrare vere. Però in certi casi possiamo dimostrare che sono false, perché sono in disaccordo coi fatti o conducono a previsioni errate. Così sostituiamo le teorie falsificate con teorie nuove e conserviamo quelle ancora non falsificate. Le teorie buone e utili sono (eventualmente) falsificabili. Invece una teoria considerata vera anche dopo che abbiamo osservato fatti nuovi che la contrastano, non serve a niente. Popper la chiama «teoria vaccinata» cioè inattaccabile e, quindi, priva di interesse – non adatta a produrre conoscenza. Le teorie vaccinate sono organizzate in modo tale da sfuggire al rischio della falsificazione; esse sono dottrine onni-esplicative e a «maglie larghe» ossia non suscettibili di sufficiente falsificabilità oppure dirette a «parare» le prove di falsificabilità con continue «ipotesi di salvataggio». Una teoria simile, che non può venir confutata da nessun evento concepibile, non è scientifica. Alcune di queste teorie sono genuinamente controllabili, e una volta rivelatesi false, vengono nondimeno ancora sostenute dai loro fautori introducendo qualche assunzione ausiliare ad hoc o reinterpretando ad hoc la teoria stessa, in modo da sottrarla alla confutazione. La dottrina femminista è un chiaro esempio di «teoria vaccinata».
Innanzitutto si tratta di una dottrina non falsificabile. Il Patriarcato, istituzione che giustifica l’esistenza del femminismo, è un concetto non falsificabile. Se una donna è vittima di un uomo, la teoria femminista è confermata, si tratta di una vittima del Patriarcato. Se una donna è vittima di una donna, è per colpa del condizionamento maschile al quale è soggetta la donna, la teoria femminista è confermata, si tratta di una vittima del Patriarcato. Se un uomo è vittima di un uomo, gli uomini si sa, sono violenti, la teoria femminista è confermata, si tratta di una vittima del Patriarcato. Se un uomo è vittima di una donna, qualcosa avrà fatto l’uomo per meritare un gesto simile, si sarà pur difesa, la teoria femminista è confermata, si tratta di una vittima del Patriarcato. Insomma, tutte le strade portano a Roma. La sola esistenza di un sistema patriarcale determina aprioristicamente la colpevolezza dell’uomo e la vittimizzazione della donna, dunque all’interno di questo sistema non possono esistere donne colpevoli e uomini vittime. Potrebbero esistere al di fuori di questo sistema, in un’altra struttura, che per definizione non ha dimora in questo mondo perché il sistema patriarcale è universale. Esempi simili si ripropongono, sono pressoché infiniti, in ogni ambito specifico della dottrina femminista. Se gli uomini uccidessero più donne che uomini, le femministe potrebbero trarre la conclusione (logica) che gli uomini nutrono una particolare animosità nei confronti delle donne. Se gli uomini uccidessero invece più uomini che donne – come effettivamente avviene –, le femministe potrebbero giungere, e di fatto giungono, alla stessa conclusione presumendo che, “anche se ci uccidono di meno, ci uccidono in quanto donne”. Vale a dire, in entrambi i casi il punto d’arrivo è lo stesso: gli uomini odiano mortalmente le donne. La gravità della violenza di genere è denunciata ogni volta dai media, confermata sia da un maggior numero di denunce sia da una diminuzione delle stesse – dovuto al fatto che le donne non riescono a denunciare. Tanto un fatto come il suo contrario servono a confermare la validità dell’ipotesi femminista (come è avvenuto ad esempio in Italia durante il periodo di lockdown per il Covid).
Nessuna possibilità di confutazione.
Nella terminologia adoperata dalla teoria femminista, termini come “patriarcale” o “maschilista” stabiliscono ineluttabilmente questa dicotomia, colpevoli-innocenti, dalla quale non si riesce a sfuggire. Questi termini depositano tutta la responsabilità sugli uomini, persino quando si tratta di sofferenza maschile, poiché dovuta al patriarcato/maschilismo o ai valori patriarcali/maschilisti. Faccio un esempio: oggigiorno vengono ritenuti maschilisti gli uomini che storicamente pensavano che il posto delle donne era in cucina, ma anche le donne che pensavano che gli uomini dovevano andare in guerra a difendere le frontiere vengono ritenute… maschiliste! Posso capire che l’espressione “le donne alla cucina” sia ritenuta maschilista se detta da un uomo; e forse anche se detta da una donna, in quanto si presume che venga proclamata a danno delle donne. Faccio invece molta fatica a capire perché l’espressione “gli uomini alla guerra” sia considerata “maschilista”, in quanto si presume che venga proclamata a danno degli uomini. Anche se decidessi di accettare, con molto sforzo, che un uomo che parla così è maschilista, non mi raccapezzo come sia possibile che una donna che così si esprime sia definita maschilista. Purtroppo nella terminologia femminista (e nell’immaginario collettivo) non esiste un termine speculare di maschilista per definire questa donna.
In pratica, secondo il pensiero femminista, le quattro combinazioni possibili sono:
- Uomo afferma: “le donne alla cucina” (danno alle donne) – maschilista
- Donna afferma: “le donne alla cucina” (danno alle donne) – maschilista
- Uomo afferma: “gli uomini alla guerra” (danno agli uomini) – maschilista
- Donna afferma: “gli uomini alla guerra” (danno agli uomini) – maschilista
Si tratta chiaramente di un pensiero non falsificabile. Non ha importanza se lo proclama un uomo o una donna, e non ha importanza se danneggia l’uomo o la donna, la responsabilità ricade sempre sull’universo maschile: è maschilismo. Definire “donne maschiliste” le donne che affermano o commettono azioni dannose contro l’universo maschile è un ossimoro favoloso che fa ricadere la colpa finale sull’uomo. Il termine corretto per definire uomini e donne che così si esprimono o agiscono dovrebbe essere “sessista” (senza la connotazione antimaschile che purtroppo ormai è stata acquisita nel linguaggio odierno). Non c’è possibilità di confutazione.
Una continua trasgressione della logica.
Nel primo Codice penale del Regno di Spagna del 1822, emanato dal re Fernando VII, compariva l’aggravante di sesso, protezione alla donna. L’art. 106 prevedeva l’aggravante per «la tenera età, il sesso femminile, la dignità, la debolezza, l’impotenza o il conflitto della persona offesa». L’aggravante di sesso si trascinò nei diversi codici e stesure che seguirono a questo primo articolo, per oltre un secolo e mezzo. Nell’anno 1983 il presidente socialista Felipe González abrogò finalmente la norma, su richiesta dei movimenti delle donne, perché questa rispecchiava un vestigio patriarcale: «è necessario finire con il mito della debolezza femminile». Nel 2004 il presidente socialista Rodríguez Zapatero, membro dello stesso partito politico, ha ripristinato la norma, l’aggravante di genere (da notare come si evolve il linguaggio per esprimere lo stesso concetto), mediante la nota Ley de Violencia de Género, su richiesta di tutti i movimenti delle donne. In poche parole, tanto l’esistenza di una norma discriminatoria di protezione delle donne come la sua assenza è maschilismo. Impossibile confutare, in ogni caso è maschilismo.
Di recente in Spagna è arrivato il congedo mestruale, da tre a cinque giorni, misura voluta dalla ministro delle Pari Opportunità, Irene Montero, una misura festeggiata da tutto il movimento femminista. Permesso retribuito per le donne che soffrono di dolori molto forti in occasione del ciclo. Finalmente. «Se gli uomini avessero avuto il ciclo, questi permessi sarebbero arrivati tanti decenni fa. Questo è il problema», ha scritto il politico femminista Iñigo Errejón. Questo scriveva la storica femminista Germaine Greer nella sua opera L’eunuco femmina negli anni Settanta: «La mestruazione è stata uno dei principali argomenti nella discussione sull’idoneità della donna ad intraprendere certe occupazioni: quando è in gioco il benessere della donna gli effetti sono minimizzati: quando invece si minaccia la convenienza dei nostri padroni vengono ingranditi. Le donne non sono rese inabili dalla mestruazione più di quanto gli uomini lo siano dalla loro inclinazione al bere, dalla loro ipertensione, dalla loro ulcera e dalle ansie di impotenza. Non è necessario concedere giorni di riposo per le mestruazioni. […] Le donne devono sapere che la mestruazione fa parte degli argomenti antifemministi […]. La mestruazione non ci trasforma né in maniache pazze, né in invalide complete, soltanto preferiremmo farne a meno» (tratto da La grande menzogna del femminismo, p. 670). Nemmeno un anno fa il sito femminista WomenNow faceva «un elenco dei 15 commenti più maschilisti che qualsiasi donna ha mai dovuto sentire almeno una volta nella vita». Al secondo posto si trova: «Cosa c’è? Hai il ciclo?». Di nuovo, impossibile confutare. Se lamenti che le donne hanno il ciclo sei maschilista, se invece non lo lamenti, per poter tutelarle, sei parimenti maschilista. È vero l’uno e il suo contrario. Ideologia «vaccinata», resa possibile grazie a una continua trasgressione della logica e un sistematico e scandaloso doppio standard di giudizio, che verranno approfonditi nel prossimo intervento.