Mai, dall’ultimo dopoguerra, la libertà di pensiero-parola ed espressione era stata messa in discussione come negli ultimi due anni. La vigilanza sulla sua tutela è stata travolta via via da diversi stati asseriti come emergenziali, obliterando un meccanismo delicatissimo e di importanza capitale non solo in termini teorici, ma per la vita concreta delle persone. Prima di riflettere su questi aspetti, è opportuno circoscrivere il concetto di “libertà di parola ed espressione”, in modo da concordare tutti sull’argomento di cui si sta parlando. Ha senso allora partire dalla nozione più ampia possibile: tutti hanno il diritto di esprimere liberamente e pubblicamente il proprio pensiero su qualunque tema. Un’asserzione affascinante nel suo idealismo, gemella eterozigote di ogni asserzione di carattere anarchico ma, come per l’anarchia, si tratta di qualcosa di concretamente impraticabile, a meno di non voler accreditare come utile il chiacchiericcio sovrapposto. La libertà, come la potenza, non serve a nulla, senza il controllo, ovvero senza criteri che ne incanalino, evitando di indebolirle, le potenzialità creative e costruttive. Ecco allora la necessità di porre alcune condizioni alla libertà di pensiero-parola ed espressione. In questo senso l’asserzione precedente si arricchisce di una condizionalità cruciale: tutti hanno il diritto di esprimere liberamente e pubblicamente il proprio pensiero su qualunque tema, purché lo facciano argomentando razionalmente.
Esprimersi liberamente diventa uno strumento di crescita individuale e collettiva soltanto se consente al ragionamento pubblico di andare avanti e nel profondo contemporaneamente. L’unico modo per garantire questo aspetto è che ciò che si dice liberamente sia argomentato, ovvero che si spieghino con chiarezza i motivi che inducono a pensare-dire una certa cosa e che tali spiegazioni siano ragionevoli, ovvero non si appellino ad aspetti impalpabili o soggettivi, ma facciano riferimento a fatti concreti, verificabili, oggettivi. Un esempio, volutamente banale. È del tutto legittimo sostenere una cosa tipo: «io detesto la Juventus», purché se ne spieghi razionalmente il motivo. Esempio di argomentazione irrazionale: «io detesto la Juventus perché odio i colori bianco e nero», oppure «perché è una squadra di Torino e a me quella città non piace». Motivazioni del genere, pur restando legittime, non tolgono né aggiungono nulla alla discussione a causa del loro carattere soggettivo. Possono essere pronunciate in un pour-parler tra amici, ma in una discussione pubblica che si voglia costruttiva sono perfettamente inutili e non dovrebbero essere accettate. Un esempio di opinione argomentata è invece: «io detesto la Juventus perché storicamente è stata la squadra di blasone di una famiglia, gli Agnelli, che ha fatto scelte industriali scellerate per il nostro paese». Una frase così espressa ha un valore argomentativo decisamente superiore di quella precedente, perché inserisce alcuni fatti che hanno un forte carattere oggettivo, come tali verificabili, discutibili e anche contestabili.
“Tutti” significa “nessuno escluso”.
Qui sta il perno di un esercizio utile e costruttivo della libertà di pensiero-parola: offre agganci oggettivi e razionali all’avanzamento e all’approfondimento della conoscenza. Nell’ultimo esempio di frase, infatti, un interlocutore potrebbe contestare diverse cose: se, come e quanto una squadra di calcio contribuisca al blasone di una famiglia, ad esempio, oppure se davvero le scelte industriali degli Agnelli nel corso dei decenni sono state scellerate o meno, e se dunque l’idiosincrasia dell’altro verso la Juventus ha fondamento razionale oppure no. Tutti aspetti che implicano una conoscenza di fatti, dati, dinamiche o, nel caso non si abbia quella conoscenza, una loro ricerca attenta. Vale naturalmente per la risposta di un interlocutore la stessa condizione dell’asserzione di partenza. Rispondere semplicemente: «sono d’accordo con te», oppure: «non sono d’accordo con te perché a me il nero e il bianco, e pure Torino, piacciono», non tolgono e non aggiungono nulla alla discussione, a meno che, di nuovo, non si sia in uno scenario di mero pour parler. Nella discussione, però, oltre a questi aspetti neutrali (o inutili) possono inserirsi elementi puramente intossicanti il dibattito. Si immaginino argomentazioni del tipo: «non sono d’accordo con te perché mi sei antipatico». O ancora: «non sono d’accordo con te perché so che in passato sei stato multato per eccesso di velocità, quindi sei un potenziale pericolo pubblico». Si tratta di espedienti dialettici tossici che spostano l’attenzione dal ragionamento al ragionatore, personalizzano impropriamente il dibattito, inserendovi per sovrappiù elementi ad esso estranei. Tattiche del genere sono usatissime nei dibattiti pubblici di peggior rango (ad esempio quelli televisivi), anche perché innescano liti e scontri che fanno audience. Di per sé, però, in genere sono il segnale che chi li pronuncia si trova con le spalle al muro dal lato argomentativo, non sa più come sostenere la propria posizione, dunque opta per l’attacco personale.
Eppure, ci si può chiedere legittimamente, i caratteri personali dell’argomentante non possono/non devono pesare sull’esercizio della libertà di parola, o anche qui dovremmo imporre una condizionalità? Si tratta di una questione delicatissima e molto attuale, ma prima di rapportarla all’oggi, fermiamoci sulla parte iniziale del nostro assunto, laddove dice che tutti hanno il diritto eccetera. “Tutti” non è fraintendibile, significa “nessuno escluso”. In linea teorica, dunque, dovrebbe essere consentito, come esempio volutamente estremo, a un pedofilo conclamato e condannato come tale di esprimere la propria opinione a riguardo delle politiche per l’infanzia? D’istinto diremmo di no, ma faremmo un errore, perché entreremmo in contraddizione con quel “tutti”, che è la parola garante dell’universalità del diritto di cui stiamo parlando. Dunque che si fa? Ci si deve semplicemente ricordare che stiamo parlando dell’esercizio pubblico della libertà di pensiero-parola. È evidente che il “nostro” pedofilo non dovrebbe, in quanto tale, venire accreditato a partecipare a un dibattito pubblico sul tema delle politiche per l’infanzia, mentre nel suo privato o nella sua cerchia è legittimato a dire ciò che gli pare (argomentando o meno). Se si tratta dunque di una discussione finalizzata a far progredire e approfondire la conoscenza collettiva di un aspetto della realtà, è indispensabile che chi vi partecipa sia autorevole e legittimato a sufficienza. Sulle spalle di chi seleziona i partecipanti a un dibattito, dunque, grava una responsabilità cruciale, che non di rado viene trascurata per altri obiettivi. Non è raro che nei dibattiti pubblici di peggior rango (specie, come sempre, quelli in TV) si invitino calcolatamente a parlare soggetti più che controversi. Nel nostro esempio: convocare un pedofilo conclamato a parlare pubblicamente di politiche per l’infanzia è un’idiozia, nei termini dell’esercizio della libertà di pensiero-parola, ma garantisce polemiche, dunque audience a sufficienza da indurre alcuni a commetterla.
Non la competenza, ma l’intelligenza razionale.
Vero è che i criteri di inclusione/esclusione dal dibattito pubblico, cioè di legittimazione/delegittimazione del ragionatore, sono spesso cangianti e replicano o riflettono (e talvolta determinano) gli indirizzi della cultura generale e dell’opinione pubblica. Negli anni ’50 del secolo scorso, ad esempio, sarebbe stato considerato perfettamente accettabile accogliere in un dibattito pubblico un soggetto favorevole al fumo di sigaretta. Anzi gli sarebbe addirittura stato consentito di fumare durante il dibattito stesso… La sensibilità da allora è mutata e oggi è impensabile, salvo eccezioni dettate dalla necessità di esibire una qualche eccentricità (come impedisci a Keith Richards di fumare durante un dibattito sul rock n’ roll?), concedere la parola a sostenitori del tabagismo, né si vedono più persone fumare durante i dibattiti. La sensibilità collettiva muta, nel corso del tempo, anche grazie a un corretto e ampio (e regolato) esercizio della libertà di pensiero-parola. Fondamentale, tra le altre cose, per setacciare e filtrare ciò che è dannoso e ciò che è utile per la collettività che la esercita. È anche grazie al dibattito libero e razionale che oggi non è più accettabile escludere qualcuno dal discorso pubblico per le sue credenze religiose, il suo orientamento sessuale, la sua etnia di appartenenza, né risultano accettabili a priori argomenti specifici come la superiorità razziale, la pedofilia o l’apologia del nazismo (sebbene quest’ultima interdizione si sia ampiamente e incredibilmente incrinata negli ultimi tempi). In altre parole, se parliamo dell’accesso individuale all’esercizio pubblico della libertà di pensiero-parola, non si deve pensare che le esclusioni di oggi siano assolute ed eterne: esse, sancendo l’accettazione o la repulsione di ragionatori o tematiche, sono una componente variabile sistemica assecondante/determinante il sentire comune.
Tutto ciò, come si è detto, incrocia anche un fenomeno molto attuale, quello della competenza. È sotto questo profilo che emergono gli aspetti più delicati della libertà di parola e che, negli ultimi due anni, quella libertà stessa è stata messa in discussione. L’abbiamo sentito fino alla nausea ultimamente: solo i competenti possono parlare di certi argomenti. Solo le donne possono parlare di questioni femminili, solo gli scienziati di scienza, gli ingegneri di ingegneria, gli architetti di architettura, i musicisti di musica, e così via. Un meccanismo pericolosissimo, che subordina l’esercizio della libertà di pensiero-parola al possesso di una “patente” e porta all’ideologizzazione del dibattito pubblico, che non è più tale, ma diventa mera esibizione di nozionismo distribuito ex cathedra. Non è più un libero confronto tra pari basato sulla razionalità degli argomenti (un cerchio), ma una livellatura dei piani discorsivi, dove si riconoscono o autoriconoscono figure apicali attive e figure basiche passive (un triangolo). Il messaggio veicolato non è più condiviso e discusso da posizioni equidistanti, ma viene calato dall’alto con la pretesta della sua accettazione acritica quando non fideistica (il famoso e orrido, oltre che infondato, concetto burioniano: «la scienza non è democratica»). Si tratta di un meccanismo pericolosissimo perché disinnesca il protagonista sottinteso nell’esercizio della libertà di pensiero-parola: il senso critico, che è il vero carburante di una discussione capace, anche in presenza di diversi livelli di competenza, di procedere in avanti e nel profondo. Nei suoi dialoghi, Socrate conversa con soggetti meno sapienti di lui, ma comunque intelligenti (cioè razionali), ed è attraverso il confronto dialettico paritario e rispettoso che emerge quella riflessione filosofica che ha influenzato tutto l’occidente. Cosa saremmo ora se Socrate avesse dialogato soltanto con una cerchia di sapienti, escludendo chi non era competente? Il discorso pubblico e la maturità collettiva procedono e si approfondiscono attraverso il corretto esercizio della libertà di pensiero-parola, non affidandosi ciecamente alla competenza, ma garantendo che esso proceda viaggiando saldamente sui binari dell’intelligenza, ovvero dell’argomentazione razionale.