L’ecofemminismo è un movimento che promuove la tutela e il miglioramento dell’ambiente naturale, lo sviluppo di un’economia sostenibile e rispettosa dell’ambiente. Secondo questo movimento, il modello di sviluppo attuale sta distruggendo il pianeta, riduce pericolosamente le risorse naturali ed energetiche, ed è la causa di catastrofi ambientali e del cambio climatico. L’ecologismo (o ambientalismo) è un movimento che promuove la tutela e il miglioramento dell’ambiente naturale, lo sviluppo di un’economia sostenibile e rispettosa dell’ambiente. Secondo questo movimento, il modello di sviluppo attuale sta distruggendo il pianeta, riduce pericolosamente le risorse naturali ed energetiche, ed è la causa di catastrofi ambientali e del cambio climatico. E allora, qual è la differenza tra ecofemminismo e ecologismo? Indovinato, l’ecofemminismo ha trovato il colpevole. Non mi stancherò di ripetere che il femminismo non c’entra nulla con la parità (malgrado l’uso ricorrente di questo termine per definirlo in ogni dizionario del mondo). Il femminismo è l’ideologia che sostiene l’oppressione storica e attuale delle donne per mano degli uomini in un sistema denominato patriarcato o, in altre parole, è l’ideologia che sostiene che le donne sono sempre vittime e gli uomini sempre colpevoli, e non importa di quale femminismo si tratta, ecofemminismo, femminismo per la pace, femminismo abolizionista, femminismo filosofico, femminismo per la differenza, femminismo esistenzialista, femminismo liberale, femminismo scientifico o matematico, questa è la costante: donne/vittime, uomini/colpevoli.
Secondo l’ecofemminismo esiste un parallelo tra la subordinazione delle donne e il degrado della natura, alcune ecofemministe hanno individuato persino una tripla dominazione: del cosiddetto terzo mondo, delle donne e della natura. Il sessismo, la discriminazione degli animali non umani e l’abuso delle risorse naturali sono tre fenomeni interconnessi, sia concettualmente sia storicamente, e devono essere analizzati e compresi congiuntamente in un unico blocco. In un mondo caratterizzato dalla supremazia maschile, donne, animali non umani e ambiente appartengono a categorie profondamente affini, considerate infatti per secoli come “proprietà animate” o “beni mobili” del tutto analoghi. La società occidentale giustifica la subordinazione della donna all’uomo e dunque, di riflesso, anche della natura e del vivente all’uso umano, promuovendo così una logica del dominio che rappresenta il prototipo di ogni disuguaglianza e sfruttamento. Secondo la filosofa e fisica nucleare indiana Vandana Shiva «lo sviluppo è fonte di violenza contro le donne e l’ambiente, contro la natura, in tutto il mondo» (La Pluma Violeta, Revista de Género y Crítica de las Ideologías, Universidad Pablo de Olavide, n. 1, marzo 2017, p. 403).
Le donne hanno sempre freddo.
Da una parte ci sono le donne, esseri buoni – non poteva essere altrimenti. Nel testo classico dell’ecofemminismo, La morte della natura. Donne, ecologia, rivoluzione scientifica (1980), l’autrice Carolyn Merchant sostiene la tesi che donne e natura sono unite da un’associazione millenaria. L’immagine della natura del mondo premoderno come madre nutrice che provvedeva ai bisogni dell’umanità, madre benefica, generava sentimenti di amore e rispetto e svolgeva un preciso ruolo normativo di inibizione nei confronti di comportamenti distruttivi. Dopodiché, si sa, è arrivato il patriarcato. «Scrivere la storia da un punto di vista femminista vuol dire capovolgerla: ossia vedere la struttura sociale dal basso e proporre alternative ai valori prevalenti. L’antica identità della natura come madre nutrice collega la storia delle donne alla storia dell’ambiente». Dall’altra parte ci sono gli uomini, anzi «i maschi», violenti e senza alcuna coscienza ambientale: «La differenza tra i sessi non si misura soltanto con l’aggressività maschile, di solito superiore a quella femminile, ma nel rapporto ben diverso di uomini e donne con l’ambiente. Sono i maschi i veri nemici dell’equilibrio ecologico […] per le loro abitudini alimentari, di uso dell’auto o di viaggio in genere, e di consumi». I comportamenti inadeguati maschili devono essere segnalati, denunciati, esplicitati, e un modo ottimale per farlo, per rinfacciare all’uomo le proprie colpe, è la creazione di vocaboli di nuovo conio. In questo campo il femminismo è impareggiabile, una profluvio di nuove parole e concetti sconosciuti ai più nemmeno qualche decennio fa (violenza di genere, femminicidio, sessista, manspreading, mansplaining, manterrupting, linguaggio sessista, ecc.). Il neologismo che ci interessa per questo tema, creato dalla professoressa di scienze politiche Cara Daggett – ha fatto ancora poca strada nella lingua italiana – è petro-mascolinità.
Cos’è la petro-mascolinità? Esiste «una relazione tra il consumo compulsivo di combustibili fossili e la distruzione maschile del pianeta». L’estrazione di combustibili fossili per bruciarli per produrre energia e alimentare le macchine durante la Rivoluzione industriale fino ad oggi è stato il motore che ha affermato lo sviluppo occidentale, in senso autoritario, economico e imperialistico, che «ha perpetuato l’egemonia maschile e il dominio patriarcale bianco su tutto il pianeta». Il consumo di combustibili fossili rappresenta dunque un simbolo di potere dell’uomo bianco e dei suoi leader politici. Dal Manifesto Futurista di Marinetti, che esaltava «l’uomo che tiene il volante», fino ad esempio alla popolare saga di Fast & Furious, per l’uomo la macchina diventa l’appendice meccanica del corpo dell’autista. «Il tubo di scarico funziona spesso come un dispositivo di territorialità sonora […], un’infiammata affermazione della mascolinità senza dover ricorrere alla parola» – o senza dover pisciare dietro ogni albero come i cani. Sulla tendenza prettamente femminile ad alzare il riscaldamento in inverno, a bruciare combustibili fossili per alzare di qualche grado la temperatura, perché le donne hanno sempre freddo, gli emeriti ricercatori non hanno speso una parola né hanno tratto le dovute conclusioni.
L’uomo nemico dell’ecologia.
Sinceramente, da uomo che abita con la sua compagna, non avrei mai detto di essere io l’unità inquinante della coppia. Non ho mai avuto quest’impressione quando per casa apro gli armadi; in camera, tra capi di abbigliamento e gioielli; in cucina, tra tazze, piatti e ceramiche ornamentali che non ho mai chiesto; la scarpiera, lasciamo pure perdere; in bagno ho quattro cose, spazzolino, schiuma da barba, rasoio e poco più, circondati da profumi, cosmetici, pomate, vasetti e bottigliette misteriose, a volte ho la sensazione di vivere con un’alchimista. E non sto parlando degli assorbenti, rifiuti non riciclabili, sarebbe un gioco facile: «oggi si stima che una donna nell’arco della sua vita utilizzi almeno 12.000 assorbenti. Nella sola Europa occidentale 90 milioni di donne ne consumano 24 miliardi, andando inesorabilmente ad alimentare la mole di rifiuti indifferenziati (cioè non recuperabili) delle nostre sempre più incontenibili discariche». «Secondo il Journal of the Institution on Environmental Sciences 1,4 milioni di assorbenti, 2,5 milioni di tamponi e 700 mila salvaslip vengono scaricati ogni giorno solo in U.K. nei WC, andando a inquinare i mari e le spiagge. È stato calcolato che nel Regno Unito si trovano 4,8 residui di assorbenti/tamponi usa e getta ogni 100 metri di spiaggia». Comunque, state tranquilli, «l’anno scorso la Commissione Europea ha eliminato gli assorbenti dalla lista di prodotti inquinanti usa e getta (come piatti e stoviglie di plastica monouso), sostanzialmente per mancanza di alternative diffuse per le donne». Le donne non inquinano.
Sto parlando di consumismo, di acquisto compulsivo, di pubblicità commerciali che invitano le donne ad acquistare, a «chiedere» compulsivamente: «Non chiedo mica tanto, soltanto un po’ di tutto, non chiedo mica tanto, tutto ciò che i miei occhi possono vedere, niente di più e niente di meno». «A chi sia rivolta la maggior parte della pubblicità e a chi sia destinata la maggior parte della superficie commerciale dei negozi di abbigliamento e dei grandi magazzini, è noto. Le donne nella coppia prendono i tre quarti delle decisioni e arrivano all’85% delle decisioni per quanto riguarda l’acquisto di prodotti di consumo, dato fornito gentilmente dal movimento femminista; si autodefiniscono le “principali consumatrici, le principali divoratrici dei soldi e le vittime principali della pubblicità” (Germaine Greer). Le donne sono contemporaneamente le più ricche quando spendono e le più povere quando dichiarano, vittime di un sistema che le spinge a consumare spendendo i soldi che gli uomini hanno avuto il privilegio di poter guadagnare lavorando». (Tratto dal libro La grande menzogna del femminismo, p. 645). La donna è la «principale consumatrice», ma l’unità inquinante della coppia è l’uomo. La donna è la «principale divoratrice dei soldi», ma l’unità economicamente benestante della coppia è l’uomo. Da uomo, oltre «nemico dell’equilibrio ecologico», sono un po’ lento a capire. Per fortuna, le ecofemministe lo sanno, e ci aiutano con dei grafici, per rendere la nostra comprensione più semplice: Petro-masculinity. Se trovate l’uscita del grafico, per favore, fatemi un fischio (a proposito, la freccia con l’indicazione “escape to Mars”, è un suggerimento per i non femministi?).