D.I.Re. è un’associazione nazionale di centri antiviolenza e case rifugio. Ne riunisce e coordina complessivamente più di 150, sparsi in tutto il territorio nazionale, e questo fa di essa da anni l’organizzazione di fatto più potente nel settore. Diciamo “potente” in molti sensi, a partire da quello politico. Avere la rappresentanza di così tanti presidi orientati a un’assistenza unilaterale (riservata alle sole donne) permette a D.I.Re. di interfacciarsi direttamente con le strutture decisionali del Paese: politici, istituzioni, corpi intermedi accolgono di buon grado le rappresentanti di questo coordinamento, ne ascoltano attentamente le richieste e il più delle volte le soddisfano senza troppi problemi, così aumentando il peso politico dell’organizzazione stessa. Chi la dirige, fin dal 2008, ha colto di essere parte di un’ondata ideologica che non resta confinata sul territorio nazionale, ma ha un respiro sovranazionale, con collegamenti diretti con le istituzioni comunitarie e indiretti, mediati dal Consiglio d’Europa (organismo che non fa parte delle istituzioni comunitarie), con le Nazioni Unite, ovvero l’organismo ospite da cui si è generato lo spillover del virus femminista in tutto il mondo occidentale.
D.I.Re. in Italia è il referente diretto, ad esempio, del GREVIO, gruppo di controllo che nell’ambito del Consiglio d’Europa ha il compito di vigilare sulla severa applicazione nei diversi paesi di quell’aberrazione del diritto nota come “Convenzione di Istanbul”. È D.I.Re. che ogni anno stila il cahier des doléances, la lista delle cose che l’Italia dovrebbe fare per essere pienamente conforme a quel risibile accordo internazionale: il rapporto viene inviato al GREVIO che dall’alto (o dal basso a seconda dei punti di vista) del suo posizionamento europeo poi bacchetta l’Italia e le intima di adeguarsi in fretta. Anche da queste dinamiche hanno origine le gare a chi la spara più grossa in Parlamento in termini di proposte di legge vittimizzanti per le donne e criminalizzanti per gli uomini, non ultima né la più recente quella, poi ahinoi diventata legge, del “Codice Rosso”. Tutto questo per dire che sì, il nome ufficiale è “associazione” D.I.Re. o “coordinamento” D.I.Re., ma si tratta in ogni caso di nickname. La sua vera natura è quella di gruppo di pressione o, se si vuole usare un termine inglese, di una lobby. Una specie di Confindustria in rosa, che invece di rappresentare le imprese di un comparto produttivo, è portatrice degli interessi di quella che da tempo noi chiamiamo “industria dell’antiviolenza” o “Vittimificio Srl”.
Lobby che godono di coperture e protezioni.
Come ogni lobby che si rispetti, D.I.Re. si occupa molto anche di comunicazione (noi la chiameremmo “propaganda”). Esiste per esempio, e ne abbiamo parlato spesso, un’agenzia di stampa ormai assurta a una rilevanza nazionale che si chiama allo stesso modo: “Agenzia D.I.Re.”. Se però fate notare l’omonimia, dal coordinamento fanno subito giurin giurella che non c’è alcun collegamento tra l’associazione e l’agenzia stampa, sebbene quest’ultima sia tra i maggiori megafoni delle follie femministe nazionali (con qualche scivolone penale emblematico, come abbiamo raccontato qui). Mettendo tutto insieme una domanda, come si dice, sorge spontanea: come fanno a tenere in piedi un carrozzone di tali dimensioni? Farsi un giro sul sito del coordinamento D.I.Re. dà già una risposta. Da nessuna parte è reperibile un bilancio economico-finanziario. Scandaloso? No, per nulla: è un’associazione e le associazioni non sono obbligate a presentare bilanci pubblici. Resta dunque del tutto ignoto come questa gigantesca organizzazione si mantenga. Ma è un segreto di Pulcinella, in realtà. Come tutte le associazioni, D.I.Re. vive di donazioni (sul sito il pulsante “dona ora” è ben in vista), ma soprattutto di trasferimenti da parte di enti pubblici, siano essi lo Stato centrale o le istituzioni decentrate (regioni, comuni, eccetera). Quanto incassa? Mistero, segreto.
Sicuramente non incassa quanto un’associazione bocciofila di quartiere: i vari “piani antiviolenza” del Governo negli ultimi anni hanno stanziato svariati milioni di euro, cui si aggiungono commesse delle regioni e bandi comunali. Denaro preso dalle tasse di tutti per un organismo che eroga un servizio riservato soltanto a quella metà della popolazione che si presume, in conformità con un trattato-bufala ratificato dallo Stato, sistematicamente vittima dell’altra metà. Un’illogicità fattuale che non trova alcun riscontro nei dati statistici, ma tant’è i soldi, tanti soldi pubblici, partono e arrivano, e non è dato sapere nel dettaglio dove vadano, se per il mantenimento di servizi di qualità (???), se per alimentare uno stipendificio clientelare o se, tipo boomerang, per caso non tornino indietro in parte dentro le segreterie dei partiti che hanno favorito l’erogazione. Non c’è alcuna trasparenza né su questo né sullo status fiscale di queste associazioni: le dimensioni delle risorse sono tali che, in condizioni normali, susciterebbero più di una curiosità presso l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza, ma niente accade. D’altra parte le lobby sono tali anche perché godono di ampie coperture e protezioni, dunque non sorprende.
Copiare passivamente le verità indiscutibili.
Ci sono però casi dove le proporzioni delle risorse drenate da questo tipo di strutture emerge in chiaro e lascia abbastanza attoniti. Accade quando esse fanno accordi di sponsorizzazione con qualche grande marchio desideroso di utilizzare “l’impegno contro la violenza sulle donne” per quello che è, ovvero uno strumento di marketing. Accade ad esempio con la catena di supermercati Conad, che di recente ha esposto alcuni contenitori con stampato un messaggio molto chiaro (come si vede dalla foto sopra, scattata da una nostra gentile lettrice): dal denaro degli acquirenti Conad ha tirato fuori la bellezza di oltre 360 mila euro per D.I.Re., per finanziare fantomatici “progetti di formazione, sensibilizzazione, prevenzione e sostegno dei centri antiviolenza in tutta Italia”. Una formula usata per indicare le varie pubblicità o iniziative sessiste anti-uomo o che vittimizzano a forza le donne, senza nessuna certezza, ovviamente, che davvero quella bella cifretta sia stata usata per quegli scopi. Di nuovo: non c’è traccia di un bilancio per il gigante della “Vittimificio Srl”, quindi chissà… E questa è una singola sponsorizzazione, ben intesi. D.I.Re. ne fa di continuo, con grandi catene commerciali ma anche con singoli produttori di beni tipicamente femminili, ad esempio gioielli (e non riusciamo a non vedere in ciò una buona dose di cinismo). La domanda da farsi, alla luce di tutto ciò, è: servirebbe presentare un esposto all’Agenzia delle Entrate e alla magistratura ordinaria perché vada un po’ a curiosare e verificare che uso viene fatto dei fondi pubblici e se è tutto in regola dal lato fiscale per le donazioni private?
La risposta è: probabilmente no, non servirebbe. D.I.Re. è la punta più avanzata e potente di un sistema di potere profondamente incistato non solo nelle strutture decisionali del Paese, ma anche e soprattutto nella cultura diffusa. Se qualcuno osasse ficcare il naso nel loro business, in men che non si dica l’associazionismo tentacolare dell’industria dell’antiviolenza e i media al seguito solleverebbero un polverone: “la tutela delle donne è in pericolo”, “attacco alle donne”, “violenza istituzionale”. Nessun magistrato e nessun ufficiale di Guardia di Finanza vuole finire in quel tipo di tritacarne, soprattutto perché il loro massacro troverebbe il consenso più ampio e diffuso nell’opinione pubblica. Come ne siamo certi? Be’, la stessa lettrice che ci ha mandato la foto del supermercato ci manda anche una foto (qui in basso) dei compiti a casa dati alla figlia nell’ambito della materia “educazione civica”: copiare un testo che, dal tenore, sembra tratto da qualche documento comunitario o comunque europeo, che declina a chiare lettere il postulato femminista di base, ovvero la grande menzogna: quella della violenza sulle donne (sottinteso: da parte degli uomini) è un’emergenza tra quelle prioritarie. E lo è perché così dichiarano le donne stesse. Vittimizzazione forzata, più criminalizzazione maschile, con una spolverata subliminale di believe woman, tutto in un solo testo. Il compito per la ragazzina, si badi bene, è copiarlo. Non discuterlo o approfondirlo, ma copiarlo passivamente. Perché, come diceva quello là, una bugia ripetuta molte volte diventa verità. Ed è soprattutto l’affermazione di quella bugia-diventata-verità a impedire ogni iniziativa di verifica e controllo su realtà come quelle di D.I.Re. che, per ruolo, dimensioni e flussi finanziari ricevuti, meriterebbero invece di essere scandagliate con grande profondità e rigore.