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Prima di mettere il lettore a parte delle ultime novità sulla vicenda delle due disabili, “attenzionate” dalla magistratura e “soccorse” da altre volenterose persone in periodo di lokdown 2020, ci prendiamo la licenza di andare con il pensiero ad argomenti non tanto dissimili da quelli che chiariscono anche l’evolversi della nostra storia. Nel corso della vita abbiamo esplorato itinerari non sempre presi in considerazione come scenari futuribili. Anche per impegni collegati al nostro lavoro abbiamo incontrato protagonisti della cronaca nera che un tempo, per le loro azioni, guadagnarono titoli cubitali sulle prime pagine dei più grandi quotidiani. Tra le mura del carcere non apparivano come venivano descritti o immaginati da chi si occupava delle loro storie per aumentare il fatturato dei giornali. Alcuni erano finiti reclusi per una serie di concatenazioni particolarmente avverse. Uno di questi, tra i più giovani, un giorno raccontando la sua storia e riferendosi alla sua carcerazione mi confidò: “Nessun uomo può dire io di questo pane non ne mangio”. Fuori dal carcere abbiamo conosciuto Mario Tuti. All’epoca, già in regime di semilibertà, tra l’altro, si occupava della rivista “Il Faro” e dei ragazzi affetti da tossicodipendenza ospitati nella comunità “Mondo Nuovo”. Non parlava con facilità del suo vissuto, specialmente di quello che lo aveva visto scendere “in guerra” (era così che percepiva il suo travagliato passato) contro lo Stato. Si avvertiva il suo rammarico per la “scelta di morte” fatta in quegli anni, confidava la sua nostalgia per aver perduto con l’ingresso in carcere le relazioni, le amicizie, la famiglia.
Nel periodo di reclusione (finito alla “tortura” nei famigerati “braccetti” carcerari) aveva avuto modo di confrontarsi con i “compagni” (suoi avversari politici) ed aveva ormai la consapevolezza che certe stragi erano state compiute da personaggi diversi da quelli che all’epoca militavano nelle formazioni ideologicamente contrapposte. Appariva schiacciato dal rimorso per le vite che aveva reciso. Fino al mese scorso, la sera, passando in auto lungo certe strade, lo vedevamo spesso camminare per rientrare in carcere. Il suo stesso modo di procedere dava la misura del peso che questo vecchio si portava dentro. L’ex fascista repubblichino sta in carcere da 46 anni. Ha conosciuto la colpa, il castigo e, oltre il suo, anche il tormento altrui. Da circa vent’anni la vita che ha condotto Mario Tuti si è posta agli antipodi della scelta di “guerra” che lui stesso “perfezionò” il 24 gennaio 1975. Come anche altri “combattenti rossi” non ha mai compiuto “atti di sottomissione”, nè verbali, né scritti. Lui li reputa strumentali e profondamente ipocriti, ma uno Stato rispettoso della propria Costituzione non dovrebbe favorire la pena perpetua e garantire la vendetta. Tuti ha ottenuto la semilibertà dieci anni dopo il momento in cui ne avrebbe avuto diritto. Il mese scorso, per il fatto che la sua presenza è stata notata ad un normale campo estivo dei giovani neofascisti del Blocco Studentesco, associati a CasaPound, raduno legale e autorizzato, il giudice di sorveglianza gli ha ritirato il permesso di uscita giornaliera dal carcere. Ci sembra un’azione malvagia perché l’uomo di una volta non ha “deposto le armi” sic et simpliciter ma da tantissimi anni si è messo a diposizione di una onlus per alleviare la sofferenza altrui. Per usare le sue parole “Il carcere congela la storia, i sentimenti, è inutile cercare quel mondo che non c’è più”. Lo spirito che ha guidato il provvedimento è lo stesso con cui lo Stato italiano ha attivato la procedura di estradizione che dovrebbe riportare in Italia alcuni vecchi ex terroristi che ottennero l’asilo politico dalla Francia.
Tutti questi “transfughi” hanno fatto del loro meglio per riscattarsi e per farsi dimenticare. Qualcuno di loro ha recentemente parlato di “esilio” in terra straniera paragonandolo ad “una forma di espiazione permanente che non prevede né riduzione di pene né grazia”. Sono di quelle cose che accadono nel nostro Paese il quale, senza aver mai fatto i conti con l’opacità del suo passato, né con il suo ancor meno cristallino presente, riesce a certificare la sua regressione storica quando si occupa di Istruzione, Sanità e Giustizia. Colonizzato dal capitalismo apolide, dalla finanza internazionale e dai suoi giannizzeri, neanche vuole riconoscere, attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, la differenza tra chi è finito in galera per farsi parte attiva di una “lotta di classe”, per inseguire un qualche pur discutibile “ideale” ed un bancarottiere (supposto che un simile soggetto ci possa mai finire). L’istruzione “riformata”, ossia mero ciarpame che rientra nel mondo delle apparenze ingannevoli dipinte dai vati del neoliberismo, ha prodotto una miriade di individui (pur con diploma o laurea) che appaiono umanamente gretti, illetterati e/o deprofessionalizzati. L’epoca in cui persino la televisione pubblica (senza pubblicità) si preoccupava di fare cultura con trasmissioni dedicate non c’è più. Oggi dobbiamo convivere con degli infermieri che, per imperizia, usando maldestramente l’ago, creano ematomi duri da iniezione ai pazienti oncologici.
E’ quasi impossibile trovare un idraulico che sappia saldare dei tubi a stagno, è difficile incontrare un elettricista che sappia dimensionare un impianto scegliendo la giusta sezione dei cavi in rapporto al carico degli utilizzatori da alimentare, è raro imbattersi in un tecnico che, dopo un sopralluogo o una perizia, sappia stilare agevolmente una relazione. Quello che accade in questi settori accade anche nell’esercizio di altre professionalità. Così leggiamo, dopo l’epocale scoperta dei neutrini che hanno superato la velocità della luce, la famosa gaffe del Ministero dell’Istruzione sulla “costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento”. Così, vuoi per inidonea preparazione, vuoi per convinzione dottrinale, vuoi perché protetti dalla corazza dei privilegi di categoria, troviamo giudici che stendono verbali come quelli visti nella puntata n.15, o che suscitano seri imbarazzi per le motivazioni che sostengono le loro decisioni. E’ singolare quello che ha negato gli arresti domiciliari ad un detenuto che in carcere ha studiato, ha preso due lauree con 110 e lode, ha impiegato il tempo della reclusione per riabilitarsi. Ecco la motivazione con la quale il tribunale di sorveglianza ha rigettato la sua richiesta: “la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di imprese si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”. Sempre più frequentemente in decreti e sentenze troviamo la vittoria delle ragioni ideologiche sul discernimento della legge.
Questo modo di procedere porta ad indebolire sempre di più la forza cogente del diritto per ascoltare sempre di più la voce dell’estemporaneità o peggio dell’arbitrio consapevole. Ultimamente chi ritiene di averne titolo parla di riforma della giustizia e di quesiti referendari. Secondo noi, al punto in cui siamo giunti, in certi ambienti giurisdizionali serve più che altro una decontaminazione. Avere una femminista in magistratura è come avere una piromane assunta in qualità di guardaboschi. Avere in magistratura una militante dei CAV è come avere un medico affetto da qualche grave infezione in servizio all’interno di un reparto di immunodepressi. Avere un magistrato corrotto o colluso nella sezione civile fallimentare di un tribunale è come aver affidato le chiavi della propria cassaforte ad un rapinatore. Trovare un pubblico ministero aprioristicamente innamorato di qualche teorema, qualsivoglia sia il motivo per cui dimostra di esserlo, è una vera iattura non solo per l’indagato, ma anche per le casse pubbliche. Abbiamo coscienza che subire verifiche ispettive serie in casi “problematici” come quello riguardante il prof. Carlo Gilardi non scaldi il cuore di molte toghe. Abbiamo contezza che l’esito del referendum sulla giustizia metta paura alle toghe più “indipendenti”, ma ci conforta, anche se non troppo, che qualcuna di loro cominci finalmente a scoprire gli altarini. Noi torniamo ad immergerci in media res e partecipiamo la novità che riguarda il nostro amico. Sempre accusato di “simulazione di reato” per quanto ha denunciato il 16 giugno 2020 alcuni giorni fa, in periodo “sospensione dei termini”, gli è stata notificata la conclusione delle indagini. Il suo avvocato di fiducia depositerà una memoria difensiva, che pubblicheremo nella prossima puntata.