In Canada una donna è stata diagnosticata come la prima persona ad ammalarsi a causa del cambiamento climatico (con il conseguente risarcimento). Nulla di strano, secondo uno studio di London School of Economics del 2007: il cambiamento climatico colpisce di più le donne. Non solo il cambio climatico e le catastrofi naturali uccidono di più le donne, secondo lo stesso studio, anche l’inquinamento. A Londra è stata riconosciuta la prima vittima ufficiale dell’inquinamento, una bambina di 9 anni, grazie al coraggio e all’attivismo ambientale di sua madre, un’altra donna, che ha lottato per il suo riconoscimento. Naturalmente, conseguente risarcimento. Il fatto che questi primati di istanze, tutele e risarcimenti economici nei tribunali – che lasciano la porta aperta ad avviare azioni legali ad altre vittime, donne e, forse, uomini – siano stati conquistati per la prima volta da donne non dovrebbe stupire più di tanto. In fondo nel mondo siamo circa per metà uomini e per metà donne, qualcuno doveva essere il primo a sfondare la porta, tutti siamo esposti al cambiamento climatico, qualunque cosa questo voglia dire, e all’inquinamento, le possibilità erano al 50%. È evidente che prima di loro ci sono state migliaia, o forse milioni, di vittime, donne e anche uomini, che potevano vantare le stesse ragioni, e ai quali non è mai stato riconosciuto alcunché. Ma finalmente un tale riconoscimento è arrivato, grazie a loro, grazie a queste donne. Sono avanzamenti sociali che arrivano per la prima volta molto spesso, per non dire sempre, mediante l’istanza di una donna, e per quanto possa destare meraviglia, questo avviene anche in ambiti e settori dove il sesso femminile è nettamente sottorappresentato e le probabilità di spiccare in quanto donna sono molto più ridotte o quasi nulle.
Il limite di altezza è uno dei requisiti secolari richiesti per poter esercitare certi mestieri, prevalentemente fisici, che hanno interessato per decenni quasi esclusivamente l’universo maschile. Nel 2017 il Tribunale di Giustizia Europeo ha stabilito per la prima volta che i limiti di altezza minima discriminano le donne, tendenzialmente più basse, a seguito della denuncia di una cittadina greca, esclusa dalle prove per la Scuola di Polizia per non raggiungere l’altezza minima di 1 metro 70 centimetri richiesta dal bando di selezione. Il limite di altezza, secondo la sentenza, «non garantisce forzosamente il buon funzionamento dei servizi». In Spagna, ad esempio, a seguito di questa sentenza, l’altezza minima è stata ribassata di 5 centimetri (da 1,60 a 1,55) per le donne per le Forze Armate. Di fatto in molti regolamenti di tanti altri paesi occidentali il limite di altezza era già 5 centimetri in meno per le donne (ad es. 1,70 per gli uomini e 1,65 per le donne). I migliaia di giovani uomini esclusi per lo stesso motivo, per fare il poliziotto, il pompiere o il vigile urbano, non hanno mai ottenuto una sentenza simile che attestasse la loro discriminazione per essere troppo bassi né che la loro esclusione «non garantisce forzosamente il buon funzionamento dei servizi». Anche per quanto riguarda il trattamento asimmetrico rispetto alle donne, non esiste alcuna sentenza che stabilisca la discriminazione a danno dell’uomo escluso per non raggiungere il minimo di altezza (ad es. 1,69) rispetto a una donna più bassa di 4 centimetri (ad es. 1,65) che ha ottenuto il lavoro. Ma la logica viene fatta a pezzi definitivamente quando si tratta del requisito d’altezza massima, richiesto in certi mestieri (ad es. pilota di aerei di linea o di caccia, equipaggio per i sottomarini, ecc.), che in questo caso è uguale per tutti, uomini e donne (cioè agli uomini, tendenzialmente più alti, non sono concessi 5 centimetri di più). Anche qui nessuna sentenza, né a constatare la discriminazione dell’uomo troppo alto né la discriminazione dell’uomo per essere tendenzialmente più alto delle donne. Migliaia e migliaia di uomini sono stati esclusi per inadeguata altezza per decenni nel mondo occidentale da queste normative, e la prima sentenza a denunciare una discriminazione per questo motivo è arrivata a favore di una donna.
Niente affidamento perché tabagista.
Una donna scivola dalle scale a casa sua in smart working, caduta mentre parlava al telefono con un collega: riconosciuto infortunio sul lavoro, risarcimento di 20mila euro, giorni di malattia, visite e terapie gratis per i prossimi dieci anni. «È la prima volta che viene riconosciuto un infortunio sul posto di lavoro in modalità smart working». Una donna, responsabile nell’ospedale delle relazioni esterne, presenta «crisi di ansietà» derivata da un «ecceso di carico di lavoro». Il tribunale riconosce questa «crisi di ansietà» come «infortunio sul lavoro». Migliaia e migliaia di uomini sottoposti a mestieri stressanti e pericolosi tipicamente maschili, le statistiche sugli infortuni lavorativi sono prepotentemente maschili, eppure anche in questi casi le donne arrivano per prime. È difficile non associare le «crisi di ansietà» al mestiere del soldato, all’immagine di quei soldati tornati dal Vietnam. In che modo risolveva il generale Patton durante la Seconda guerra mondiale le «crisi di ansietà» dei soldati? A schiaffi? Scrive Warren Farrell in Il mito del potere maschile: « quando psicologi e psichiatri erano prevalentemente maschi, era necessario, dopo la laurea, un periodo di preparazione che andava dai cinque ai dodici anni. Quando aumentarono le donne che sceglievano quelle professioni, due o tre anni di pratica diventarono più che sufficienti. […] Non appena le donne cominciarono a frequentare le facoltà di medicina, i vari Stati cominciarono a porre limiti al numero di ore lavorative dei medici, per la prima volta nella storia. I terapeuti ora possono lavorare anche cinque ore alla settimana soltanto». A Milano, le sedute notturne del Consiglio sono state vietate dopo l’arrivo delle consigliere. Prima di allora, anni e anni di pratiche dopo la laurea, orari infiniti nel settore medico o sedute notturne nei consigli da parte degli uomini non hanno mai scomodato più di tanto.
Nessuna novità. Durante la Rivoluzione Industriale, malgrado la popolazione sottoposta a condizioni lavorative pericolose e nocive per la salute fosse predominantemente maschile, è noto che le normative protettive lavorative arrivarono prima per le donne, e molto più tardi, semmai arrivarono, per gli uomini. Non solo le tutele dimenticarono gli uomini, cosa moralmente ingiusta ma purtroppo socialmente accettata, ma le tutele per le donne arrivarono talvolta persino prima di quelle che avrebbero dovuto tutelare i bambini (maschi) (per approfondimento su questo riguardo rimando alla lettura dell’opera La grande menzogna del femminismo, a pagg. 191-192). Esiste di fatto una legge non scritta che provvede alla tutela delle donne per prima e, se va bene, solo in un secondo momento gli uomini possono avvantaggiarsi dalle stesse tutele. Nei procedimenti di separazione e affidamento dei figli sono risapute le percentuali bulgare che lungo gli anni hanno assegnato e assegnano ancora tutt’oggi maggioritariamente l’affidamento alle madri. Nel 2019 in Spagna un giudice ha rifiutato a un padre l’affidamento condiviso perché «fumava troppo». Affidamento esclusivo alla madre, regime di visite e assegno di mantenimento a carico del padre fumatore. È la prima sentenza che giustifica l’affidamento dei figli in un processo di divorzio sulla base della dipendenza del tabacco di uno dei due genitori. Immagino che tra le infinite madri del mondo occidentale che hanno ottenuto l’affidamento dei figli prima (e dopo) questa sentenza, non ci siano state mai fumatrici accanite (!). Ma si può fare di meglio. Si può perdere l’affidamento dei figli, anche se il rapporto è buono, se vengono lasciati troppo tempo dai nonni, a causa degli impegni lavorativi del genitore, anche quando le cure dei nonni sono ritenute adeguate. Chi è stato il genitore penalizzato? Di nuovo un uomo, il padre, naturalmente.
Capricci della sorte.
Non è meraviglioso? Migliaia e migliaia di madri divorziate o single lavorano e lasciano i figli in custodia da nonni, parenti, amiche o badanti – su questo punto posso vantare la mia esperienza personale, una ex che lavora e che preferisce lasciare i figli dai nonni piuttosto che dal padre, con l’intento di impedire al padre di stare con i figli, senza che questo fatto abbia avuto alcuna rilevanza per assistenti, consulenti e giudici. Altrettante madri fumano, alcune come turche, ma neanche in questo caso si è mai sentito di una madre penalizzata in una sentenza per questo motivo. Tra le infinite madri e quello sparuto gruppo di padri che vantano un affidamento, queste sentenze hanno interessato per la prima volta padri, su richieste delle madri. Di fronte a percentuali del tutto asimmetriche di affidamento esclusivi, non può non stupire che motivazioni simili abbiano interessato dei padri con un affidamento condiviso – un gruppo significativamente più ridotto di quello delle madri che vantano un affidamento condiviso o esclusivo – a vantaggio delle istanze portate in tribunale dalle madri che avevano un affidamento condiviso e desideravano quello esclusivo – gruppo di gran lunga inferiore a quello dei padri che nei tribunali fanno istanze per ottenere un affidamento esclusivo o condiviso. Capricci della sorte difficili, ma non impossibili. Si può trovare di meglio, in ambiti ancora più prepotentemente asimmetrici? Naturalmente. Ne parliamo domenica prossima.