“ZuccherArte” è il nome di una scuola di cinema con sede a Genova. Come tutte le scuole di cinema che si rispettino, di tanto in tanto produce qualcosa, anche per dare un saggio della propria competenza. Ecco allora che, guarda caso giusto a ridosso della ricorrenza del 25 novembre, diffonde un video “contro gli stereotipi”, subito rilanciato dai media. Ne parliamo, anche se ciò significa dargli ulteriore visibilità, perché rappresenta da un lato il prototipo dell’indottrinamento transumanista che va per la maggiore, dall’altro, soprattutto, perché è stato concepito con un meccanismo comunicativo straordinariamente subdolo, con ciò allineandosi ai dettami della più alta scuola della propaganda ideologica, virtualmente fondata da Joseph Goebbels.
Il cortometraggio è di ottima fattura dal lato tecnico: un bel girato, ottima gestione dei colori e delle luci, in una location storica (il parco genovese dell’Acquasola) non semplice. Gli attori hanno volti comuni e sono molto spontanei: si tratta di una mamma con un bambino e di un signore di mezza età. Poco dopo l’inizio del video si vede la donna parlare al telefono, camminando per il parco, con a fianco il bimbo che spinge (in verità un po’ goffamente) una carrozzina con un bambolotto dentro. Per finire in tranquillità la telefonata, la mamma lo invita a sedersi su una panchina, a fianco del signore di mezza età, che nel frattempo sta leggendo il giornale. Con forse esagerata enfasi, quest’ultimo guarda più volte con stupore e riprovazione il maschietto che spinge la carrozzina, tira fuori biberon e vestitini per la bambola, parlando a quest’ultima come se fosse vera.
Le neuroscienze dissentono.
Si capisce subito: il signore rappresenta il benpensante, vecchio barbogio tradizionalista imbevuto di stereotipi. La sensazione è confermata dal fatto che cerca di coinvolgere il piccolo in una conversazione su cose “tipicamente maschili”: moto e calcio. Verso le quali però il piccolo si mostra molto poco interessato, tutto preso com’è ad accudire il bambolotto. A quel punto il vecchio maschio bianco etero non si trattiene e gli fa notare che quello è un gioco “da femmine” e che i maschi giocano ad altro, non a fare le mamme. Qui scatta il drop, l’elemento originale ed emozionale del film, nonché la vera trappola propagandistica. Il bimbo rimane impassibile alle parole dell’adulto, gli lancia un’occhiata e gli dice: «ma io mica sono la mamma… io sono il papà». Game, set, match: l’adulto rimane basito e via con i titoli di coda.
Un concept tutto sommato semplice, sembra strano che in esso possano annidarsi trappole. Eppure ne è disseminato. A partire dalla controdeduzione già pronta da opporre a chi criticasse il video: «vorreste forse impedire a un maschio di giocare con le bambole, se lo vuole?». Basterebbe urlacchiare questo di fronte a una critica per ottenere ragione: la controparte verrebbe subito etichettata come maschilista, sciovinista, eccetera eccetera. In realtà sarebbe una controdeduzione spuntata: è ovvio che non è lecito pensare di impedire a un bambino di giocare con ciò che più gli piace e lo stimola. Il problema è l’esatto opposto: obbligare un bambino a giocare con qualcosa, per cercare di cambiare il suo “setting” naturale. Ed è questo l’auspicio profondo del video: privare il maschio degli aspetti di gioco più conformi alla sua natura per modificarla, essendo ontologicamente “sbagliata” (violenta, disinteressata ai ruoli di cura, eccetera), fin dalla più tenera età. Basta pallone, macchinine, costruzioni, o armi giocattolo: bambole, ciucci e biberon per tutti.
Messaggi transumanisti e politici.
Così, oltre a combattere la “maschilità tossica”, si dice, frantumiamo anche uno “stereotipo”. Che però stereotipo non è, bensì è un’architettura solidamente ancorata nella sostanza grigia periacqueduttale, il nucleo più antico del cervello umano, dove hanno sede le emozioni di base. Le neuroscienze ormai da tempo hanno disvelato i contenuti profondi di quell’area cerebrale sottocorticale (si vedano gli studi di Jaak Panksepp), rilevando senza ombra di dubbio la divaricazione emozionale di maschi, orientati verso emozioni categorizzate come “Ricerca”, e femmine, orientate verso emozioni caratterizzate come “Cura”. Si tratta di rilevazioni che non lasciano dubbi perché nate da prove scientifiche condotte non soltanto sull’essere umano, ma più genericamente sui mammiferi, con risultati pressoché identici. Risultati che hanno fatto infuriare eserciti di psicologi comportamentisti, quelli per cui “la cultura” è in grado di determinare i tratti della persona, mentre il setting naturale è pressoché irrilevante. La verità è una via di mezzo, che però ancora viene negata, anche attraverso spot di propaganda come quelli di “ZuccherArte”.
Le trappole subdole dello spot però non finiscono qua. Il cortometraggio non lancia soltanto un messaggio “transumanista” abbastanza mostruoso (“creiamo uomini migliori plasmandoli fin da piccoli”), ma ha in sé anche un messaggio socio-politico molto grave. Perché è necessario fabbricare padri migliori a partire dalla più tenera età? Questo si chiede lo spettatore attento, ben sapendo che per gli autori del video è una domanda retorica, con una risposta ovvia: perché i padri sono per loro natura disinteressati a curarsi dei figli. Ma non sul piano teorico, bensì proprio nella realtà odierna e quotidiana. Ragion per cui occorre intervenire con spot del genere per orientare la condotta maschile futura, stigmatizzando fortemente quella presente. Si tratta di un messaggio politico semplicemente falso, essendo pienamente allineato a una lettura della realtà politicamente corretta e in particolare femminista. Il sottotesto è che i padri di oggi siano come quelli dell’era industriale: occupati a lavorare, disinteressati alla prole, con tutta la responsabilità sulle donne di casa. Se mai è stato così, era per cause esterne condivise dalla coppia, e in ogni caso non è più così da almeno cinquant’anni. Tuttavia chi è interessato al piagnisteo e al vittimismo ha interesse a far credere che niente sia cambiato, a dispetto dei tanti uomini lavoratori e padri appassionati e per bene, e dei tanti disperati perché non riescono a frequentare i propri figli. Tutti uomini che, da piccoli, hanno giocato a pallone, alla lotta, a soldatini e che, nonostante questo, oggi sono padri meravigliosi. O vorrebbero esserlo ma gli è impedito.
N.d.R.: a chi volesse meglio inquadrare la questione sottesa alla nostra aspra critica a questa forma di propaganda transumanista, consigliamo la visione di questo nostro recente video. Al termine del quale sarà probabilmente molto chiaro in quale processo di costruzione di quale futuro vada collocato il video di “ZuccherArte” di cui abbiamo appena parlato.