Titolo: «Ha ucciso il marito, sei anni di carcere. La Cassazione: troppo, fu provocata». Sottotitolo: «Colpevole di omicidio preterintenzionale motivando la pena ridotta con la “sindrome della donna percossa”» (da “Il Giorno“). La Cassazione ormai più che a una Corte di legittimità somiglia ad un flash-mob di Non Una Di Meno. Dacci oggi la nostra follia quotidiana. Eccola servita: pena mite, solo 6 anni, a Maria Luisa F. per aver ucciso con una coltellata al cuore il compagno (Milano, 2017). Ma la Cassazione affievolisce ulteriormente le responsabilità dell’assassina, gli ermellini sostengono che 6 anni per un omicidio sono troppi, nonostante le attenuanti generiche concesse nella loro massima estensione sono sempre troppi. Dunque processo da rifare, ci vuole un’altra riduzione di pena perché la donna è stata provocata verbalmente ma era particolarmente fragile poiché affetta da “sindrome della donna percossa”, citata dalla consulente della difesa, dr.ssa Isabella Merzagora Betsos. Attenzione, un nuovo spettro si aggira per i tribunali: il disturbo post-traumatico da stress che consente pene miti quando si ammazza un uomo.
La caratteristica terribile di tale sindrome è la retroattività: non serve che le violenze siano messe in atto dall’uomo che viene ucciso, basta che l’assassina abbia subito violenze da altri soggetti, in altri tempi, in altri luoghi. In concreto: oggi c’è una discussione verbale ma una o più parole dette dalla vittima suscitano nell’assassina «involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento traumatico» (testuale), quindi la donna non può essere considerata totalmente responsabile delle coltellate che vibra. Davanti a sé ha una persona, ma probabilmente la reazione rabbiosa e violenta nasce dal fatto che voleva vendicarsi di un’altra che tempo fa le ha causato un trauma, nel caso di specie magari lo zio che l’ha abusata da bambina o l’ex marito che l’ha abbandonata. La donna ha subito violenze in passato quindi non è poi così grave che oggi sfoghi la violenza contro chi malauguratamente le capita davanti quando ha i «flashback mentali» (testuale). Così descritto, appare un terrificante lasciapassare per qualsiasi violenza. Chissà se tale sindrome vale anche a ruoli invertiti, o si tratta della solita discriminazione femministicamente corretta? Proviamo ad analizzare i vari aspetti che emergono da questo episodio e gli interrogativi che ne scaturiscono.
Sindromi a senso unico.
La “sindrome della donna maltrattata” (in lingua originale battered women syndrome – BWS), è una teoria elaborata negli anni ’70 dalla psicoterapeuta Lenore E.A. Walker. Descrive il modello plurimo di comportamenti ed emozioni che possono svilupparsi quando una persona subisce un abuso. La teoria, sviluppata negli anni ’90 anche da altri autori, è focalizzata espressamente sulle vittime femminili di intimate partner violence ed è utilizzabile in tribunale come attenuante per crimini contro l’aggressore, se in precedenza la vittima aveva traumatizzato la donna che poi a sua volta lo ha aggredito (approfondimenti qui, qui e qui). Il costrutto della BWS è stato catalogato come una sottocategoria del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e può presentare disturbi ricorrenti, anche associati tra loro: a) rivivere il maltrattamento come se si ripetesse anche quando non si verifica, b) tentativi di evitare l’impatto psicologico del maltrattamento evitando attività, persone ed emozioni, c) ipereccitazione o ipervigilanza, d) interruzione delle relazioni interpersonali, e) distorsione dell’immagine corporea o altre preoccupazioni somatiche, e f) problemi di sessualità e intimità.
La letteratura di riferimento analizza i comportamenti della persona affetta da BWS nei confronti della persona dalla quale avrebbe subito maltrattamenti, anche a distanza di anni dall’evento traumatizzante. Una parte degli studi, infatti, analizza le motivazioni per le quali la vittima incontra spesso difficoltà a staccarsi dal soggetto maltrattante (padre, marito, convivente) nonostante lo percepisca come fonte di ansia e pericolo. Nel caso che ci occupa, invece, Maria Luisa L. avrebbe subito attenzioni morbose in età adolescenziale dallo zio e/o maltrattamenti dall’ex marito, ma in entrambi i casi si tratta di traumi non imputabili alla persona alla quale ha tolto la vita che quindi ha pagato “colpe” di altri. Inoltre gli studi statunitensi si riferiscono letteralmente a battered woman, circoscrivendo la possibilità di sofferenza al solo genere femminile; anche gli strumenti di indagine sono concepiti per essere somministrati esclusivamente a un campione femminile: Battered Woman Syndrome Questionnaire (BWSQ) che in letteratura abbiamo riscontrato essere utilizzato in quattro paesi: Stati Uniti, Spagna, Grecia e Russia. La possibilità che un bambino o un adolescente possano subire le stesse ripercussioni psicologiche in caso di trauma, non viene nemmeno considerata. Negli Stati Uniti viene riconosciuta la sindrome del marito maltrattato (Battered Husband Syndrome, BHS), possibilità quindi limitata a uomini adulti in quanto i fenomeni vengono osservati solo all’interno della coppia. La BHS, simile alla BWS, è un tipo di disturbo post-traumatico da stress che si verifica quando un uomo viene abusato emotivamente, fisicamente o sessualmente dalla partner.
Un’ampia casistica.
Gli abusi domestici possono interessare chiunque, tuttavia per diversi anni gli esperti USA hanno affermato che solo le donne potevano sperimentare tale sindrome. Nel corso degli anni i movimenti sociali statunitensi hanno contribuito a dimostrare che anche gli uomini subiscono la violenza domestica e i suoi effetti. La sindrome del marito maltrattato non è classificata come malattia mentale nel Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, quinta edizione (DSM-V), tuttavia siamo sempre negli Stati Uniti, da noi non esiste un solo precedente di BHS riconosciuta come attenuante per un femminicidio. Nell’asimmetria valutativa la discriminazione di genere appare evidente: i traumi subiti negli anni precedenti per colpa di altre persone costituiscono un’attenuante se l’autrice di reato è donna, mentre se l’autore di reato è uomo non vengono nemmeno presi in considerazione. Anzi, in Italia vige un insano accanimento antimaschile che assume i contorni del giustizialismo di genere: la vendetta invece della giustizia. Se la pena non è massima suscita sdegno, proteste, sollevazioni popolari e persino istituzionali. Famose, in questo senso, sono le sentenze per “illusione e disillusione allo stesso tempo” ” e “tempesta emotiva”.
La prima – Javier Pareja Gamboa, operaio ecuadoriano, condannato a 16 anni per l’omicidio della moglie Angela Coello Reyes. Vicenda complessa fatta di tradimenti e allontanamenti, Javier torna in patria perché la moglie ha una relazione extraconiugale e vuole separarsi. Arrivato in Ecuador, viene contattato da Angela che si dice pentita, non vuole distruggere il matrimonio, gli chiede di tornare in Italia e gli assicura di avere interrotto ogni rapporto con l’amante. Javier le crede, torna convinto di rinsaldare la famiglia ma poco dopo scopre l’inganno: non è vero nulla, la tresca extraconiugale non si è mai conclusa, Angela vuole continuare a stare con lui e contemporaneamente frequentare l’amante: Javier perde la testa e la uccide. Viene condannato a 16 anni di carcere ma la piazza ribolle, ci vuole la pena massima, la politica, i media e l’associazionismo femminista sono sul piede di guerra, gridano al delitto d’onore, il clamore è tanto che la giudice che ha emesso il verdetto è costretta a giustificarsi pubblicamente dichiarando alla stampa i motivi giuridici sui quali poggia la sentenza: il rito abbreviato e lo stato d’animo dell’assassino che «ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile… come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo».
Il sistematico doppio livello valutativo.
La seconda – Michele Castaldo, condannato a 16 anni per l’uccisione della convivente Olga Mattei, che voleva lasciarlo. Stessa sollevazione dell’associazionismo popolare, della politica e dei media, il focus delle proteste è ancora sul ripristino del delitto d’onore e sulla motivazione della sentenza secondo la quale l’assassino agì sotto l’impulso di una “soverchiante tempesta emotiva ” da cui il terrore di venire abbandonato. Sedici anni sono pochi, la piazza viene accontentata e in cassazione Castaldo ne prende trenta. N.B. in entrambi i casi – i più noti ma non gli unici – la condizione psicologica degli assassini è stata riconosciuta tanto alterata da costituire una blanda attenuante, generata tuttavia dal comportamento della stessa vittima. Nel caso di Maria Luisa F., invece, la condizione psicologica che la spinge ad uccidere non ha nulla a che vedere con la vittima ma nasce da comportamenti di altre persone, in altri tempi, in altre circostanze. L’asimmetria valutativa è macroscopica, un doppio standard vistoso a prescindere da quale possa essere il travaglio interiore di assassine ed assassini: se la vittima è una donna, 16 anni sono pochi e l’indignazione imperversa; se la vittima è un uomo, 6 anni sono troppi, la Cassazione chiede di ridurli ancora un po’. E nessuno alza un sopracciglio.
Il doppio standard emerge anche se riferito ad un altro episodio recente: impossibile non ricordare la valanga di indignatissime proteste riversatesi su Barbara Palombelli, rea di aver sollevato un dubbio sui femminicidi letti come uccisione delle donne inquantodonne: «A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?». Non ha detto, la Palombelli, che l’omicidio di una donna in fondo è giustificato da un suo comportamento esasperante e aggressivo. Non ha detto che l’assassino dovrebbe essere compreso o addirittura assolto. Si è chiesta se per caso possa esserci un comportamento aggressivo come molla scatenante della violenza, domanda più che lecita, senza per questo affermare che l’omicidio da parte di un uomo esasperato, provocato o aggredito non debba essere punito severamente. Doppio livello valutativo: il dubbio espresso dalla Palombelli è esattamente lo stesso che diventa certezza quando a uccidere è una donna: “chissà quante ne ha passate”, “avrà avuto i suoi motivi”, “dobbiamo chiederci cosa avrà dovuto subire quella poveretta per arrivare ad ammazzarlo”. Per una donna che uccide si scatena l’assoluzione mediatica prima ancora che giuridica. Un tema già più volte affrontato su queste pagine (ad esempio qui, qui e qui). Alla quale poi segue anche il guanto di velluto della magistratura, come nel caso di specie: da valutare lo stato emotivo quindi 6 anni, da ridurre ulteriormente secondo la Cassazione.
E a parti invertite?
Se invece l’assassino è un uomo diventa inaccettabile la valutazione dello stato emotivo: 16 anni, da aumentare a 30 secondo la Cassazione. Non è chiaro dove sia il confine tra una giustizia imparziale e la insaziabile sete di vendetta femministicamente corretta. Emerge un accanimento feroce, fioccano le proteste perché bisogna infierire sull’assassino, la vittima è una donna quindi non si può dire l’abbia uccisa perché era psichicamente instabile, la deve per forza aver uccisa inquantodonna. Esiste una giurisprudenza consolidata che tiene conto delle alterazioni emotive di una donna che uccide in preda all’ira, all’esasperazione, all’angoscia, alla depressione – non solo post partum – all’impotenza, alla frustrazione. Come ad esempio nel caso di Salvatrice Spataro, condannata in Appello a 9 anni in luogo dei 14 stabiliti in primo grado, per aver ucciso il marito con 57 coltellate. La riduzione di pena arriva proprio in considerazione dello stato emotivo al momento dell’omicidio. Il caso Spataro non è certo l’unico, l’asimmetria valutativa (e sanzionatoria) in rapporto a chi faccia cosa è una costante nei nostri tribunali. Non si contano i casi in cui venga certificata per un’assassina la temporanea incapacità di intendere e volere al momento del delitto. Tornando alla “sindrome della donna percossa” invocata dalla dr.ssa Merzagora, il dubbio è proprio questo: lo stesso principio si applicherebbe a qualunque criminale, oppure la sindrome vale solo quando è una donna la persona che oggi uccide perché traumatizzata decine di anni addietro? In sostanza ci chiediamo se le violenze subite da un uomo nell’adolescenza possono essere invocate come attenuanti. Ai posteri l’ardua sentenza.