Monica Lanfranco è, come si può leggere nel suo sito, una giornalista, una formatrice sulla differenza sessuale e sul conflitto, nonché una femminista. Ha al suo attivo diverse collaborazioni, iniziative e pubblicazioni, ma soprattutto, ed è ciò che a noi più interessa, è una di quelle persone che hanno libero accesso alle scuole italiane, dai licei alle professionali, dove viene ospitata a tenere lezioni o corsi, in genere nell’ambito dell’educazione civica. Recentemente ha raccontato sulla prestigiosa rivista “MicroMega” la sua esperienza del ritorno di persona tra i banchi di alcune scuole del nord Italia, dopo la difficile parentesi pandemica e della FAD, e il suo resoconto è estremamente interessante. Racconta la Lanfranco che, dopo aver mostrato agli studenti una parte del materiale che usa nei suoi incontri (menziona un video di Emma Watson per la campagna “HeforShe”), ha ricevuto come reazione una pioggia di risposte che l’hanno lasciata allarmata e preoccupata. «Ho trovato», scrive la Lanfranco, «un clima di odio, sofferenza, impotenza e rabbia che dai social si è fatto carne, come mai prima, diffuso a vari livelli di età, per culminare nelle ultime classi, tra gli ormai maggiorenni, con espressioni e comportamenti ispirati alle chat degli attivisti Incel e Mra (Men’s Rights Activism)».
È naturale che utilizzi quelle sigle, e i comportamenti che ad esse riconduce, in un’accezione potentemente negativa: in quanto femminista, qualunque tipo di aggregazione, formale o informale, che contesti il femminismo o che porti istanze originate dalla sfera maschile deve necessariamente essere messa in cattiva luce. Ed è in questa prospettiva che riporta le osservazioni fatte dai ragazzi in risposta al materiale che ha mostrato: «Le lamentele sulla condizione delle donne sono storia vecchia, non è più così». «I discorsi sul catcalling sono esagerati: se una ha un bel culo e io commento con un amico non vedo cosa ci sia di male». «Comunque questi comportamenti ci sono sempre stati e sempre ci saranno, è la natura». «Anche le ragazze fanno apprezzamenti». «Il mestiere più antico del mondo sappiamo quale è, e quindi se una si comporta in un certo modo è ovvio che poi ci sono conseguenze». «Il femminicidio non esiste, è tutta propaganda». «Anche le donne sono aggressive». «Gli uomini, forse, uccidono di più delle donne, ma gli uomini si suicidano per le donne, e nessuno ne parla». Ben intesi: non sappiamo se davvero ci siano stati ragazzi che abbiano risposto così. La Lanfranco potrebbe benissimo enfatizzare blandi atteggiamenti scettici trasformandoli nei capisaldi della critica al femminismo, per avere così il pretesto per compilare un articolo allarmante e allarmista. Non stupirebbe, la cifra del femminismo è anche questa.
Alla prima obiezione si alza il “cartellino rosso”.
Se però davvero dei giovani studenti hanno risposto così al tentativo di far passare materiale propagandistico femminista in classe, allora ha senso nutrire un piccolo barlume di speranza per il futuro. Una speranza che però è anche preoccupazione: quelle frasi denotano infatti la presenza di un embrione di reazione che potrebbe svilupparsi nel futuro in una deflagrazione di quella guerra tra sessi così scientemente (e irresponsabilmente) preparata e provocata in questi ultimi trent’anni di femminismo dilagante. Esattamente quella guerra che, cercando di incanalare il malessere e le tematiche maschili in un’analisi il più possibile ampia e profonda delle loro ragioni, iniziative come “La Fionda” stanno cercando di evitare. Il problema sta proprio in questo: la Lanfranco, dai cui punti di vista ci separa una distanza siderale, non si chiede il motivo di quelle risposte, non è sfiorata dal pensiero che si tratti di una reazione naturale a un livello ormai diventato intollerabile di mistificazioni e discriminazioni “positive” che colpiscono un genere specifico, ma si limita ad avvisare la comunità di quanto esse siano gravi e allarmanti. In questo modo mostra apertamente il profondo solco che separa le femministe da chi, come noi, critica il femminismo e lo ritiene pericoloso. Noi infatti ci riteniamo in grado (e in dovere) di argomentare razionalmente i motivi per cui pensiamo sia gravissimo che una persona come la Lanfranco circoli per le scuole a parlare di “cittadinanza sessuata”, di “empatia come sentimento indispensabile per la democrazia”, di “impianto patriarcale della società” e di altre cose simili. Noi riteniamo doveroso elaborare una critica argomentata e, quando possibile, comprovata dai dati. Loro no.
La Lanfranco stessa non sa (o non vuole) usare un approccio come il nostro sugli argomenti che le vengono opposti, siano essi espressi da ragazzi delle superiori particolarmente consapevoli o da soggetti più strutturati come potremmo essere noi o chiunque altro dell’androsfera. Il suo atteggiamento resta distante, vagamente criminalizzante e a tratti, in alcuni suoi altri contributi (che linka nell’articolo di MicroMega), addirittura razzista, arrogantemente classista e derisorio verso il disagio maschile. È insomma il classico esempio di predicatrice dell’empatia selettiva, di quelle per cui occorre che tutti imparino a partecipare dei sentimenti degli altri, ma non di tutti: qualcuno, a causa di imprecisate e imprecisabili colpe ataviche, può essere escluso. Il risultato è, fin dall’inizio, un formidabile e multiplo cortocircuito rispetto ai presupposti dichiarati a inizio articolo dalla stessa Lanfranco (corsivi nostri): «Ben vengano le discussioni su ciò che è strutturale, o culturale, nelle differenze di comportamento tra donne e uomini nello spazio pubblico, nel privato e nel mondo del lavoro. Che siano provocazioni, oppure ignoranza (consapevole o no) o miopia sull’impianto patriarcale della società penso che ogni spunto per ragionare e confliggere civilmente sullo stato dell’arte delle relazioni tra i sessi sia prezioso e necessario». Parrebbe un’apertura al dialogo, ma è del tutto illusoria: lo spiraglio viene infatti immediatamente sbarrato e blindato, con tanto di trenodia pubblica su MicroMega, nel momento in cui, per voce di qualche ragazzo consapevole, giunge davvero uno stimolo al confronto frontale sul merito dei temi. L’incipit della Lanfranchi risulta così un mero travestimento da soggetto democratico e aperto al confronto, ma è, per l’appunto, soltanto un travestimento nel momento in cui alla prima obiezione si alza il cartellino rosso “Incel”, “MRA” e si espelle l’interlocutore dal campo del dibattito.
Verifichiamo l’apertura al dibattito.
Ma c’è un altro aspetto che va anche oltre l’ipocrisia della Lanfranco, ed è la contraddizione tra la sua asserita disponibilità al dialogo e la realtà dei fatti. Dice la giornalista che questo suo lavoro di indottrinamento femminista nelle scuole dura da vent’anni. Passato il primo brivido d’orrore, non possiamo fare a meno di pensare alle email che abbiamo mandato a giugno e a settembre a tutte le scuole d’Italia, rendendoci disponibili a intervenire gratuitamente (a differenza della Lanfranco), di persona o online, per portare a studenti e studentesse le nostre modalità e i nostri temi di discussione. Ci hanno risposto tre istituti, tutti respingendo la nostra proposta. Due con un semplice e cortese «no, grazie», il terzo motivando con «spiacenti ma il collegio docenti vi ha giudicati troppo di parte». Questa cosa ha un nome altisonante che nasconde un concetto semplice: conventio ad excludendum, cioè accordo più o meno tacito a escludere specifici soggetti dal campo della discussione pubblica e comune. Ed è un accordo imposto dalla mentalità dominante, che è indiscutibilmente quella femminista che invece, pur essendo a sua volta quanto mai settaria, detiene saldamente quella allure di giustezza che le permette l’accesso indisturbato non solo alle aule scolastiche, ma anche a quotidiani e periodici blasonati, TV, radio e a tutto il mainstream.
Questo divieto fattuale (dicasi anche censura) a esporre pacatamente versioni della realtà alternative e critiche del femminismo mostra in modo ancora più chiaro l’ipocrisia dell’incipit “dialogante” della Lanfranco (ma altre esponenti femministe non sono diverse): è facile mostrarsi aperti al dialogo in un contesto dove le controparti vengono escluse a prescindere. Non è per fare i lamentosi o i piagnoni, non è nostro costume, e sappiamo bene che questo ostracismo è segno evidente di quanto le nostre posizioni, non le loro, siano prossime alla verità. Piuttosto è nel nostro costume di andare verificare nel concreto se alle parole seguono i fatti. «Ben vengano le discussioni», dice la Lanfranco nell’incipit del suo articolo, e allora si tratta di capire se sono parole sincere oppure no. Dunque vorremmo invitare Monica Lanfranco a un dibattito pubblico, moderato da una persona a sua scelta, nel luogo o sulla piattaforma che preferisce e su temi decisi da lei. In un mondo perfetto questo tipo di dibattiti si svolgerebbero per l’appunto nelle scuole, ma questo non è un mondo perfetto, tanto meno in Italia. Un confronto franco, pacato, rispettoso e aperto tra due versanti così diversi potrebbe però contribuire a migliorarlo, oltre a dare corpo coerente a quell’incipit così promettente. Noi ci siamo, in un’ottica costruttiva e di mutuo rispetto, pronti ad affrontare qualunque uditorio e, lo ribadiamo, a titolo del tutto gratuito. Sarebbe bello far pervenire questa proposta a tutte le scuole italiane, ma ci limiteremo a segnalare questo articolo a Monica Lanfranco per vedere cosa succede. Vi terremo informati sugli eventuali sviluppi.