Nel nostro ordinamento vi sono dei diritti (si pensi al diritto alla salute, all’integrità fisica, alla vita) che dottrina e giurisprudenza interpretano come indisponibili. Per indisponibilità, secondo quanto sostiene il giurista Giorgio Maniaci ne “La dittatura dei diritti indisponibili”, si intende l’impossibilità di rinunciare all’esercizio del diritto stesso, alla sua realizzazione o all’adempimento dell’obbligo ad esso correlato. L’esistenza di questi diritti ha sollevato un dibattito dottrinale sulla loro natura: se all’interno di un ordinamento giuridico viene attribuito da una norma costituzionale il diritto, ad esempio, alla salute, e se questo viene interpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza come indisponibile, se cioè i cittadini non hanno la possibilità di paralizzare temporaneamente o permanentemente l’obbligo correlativo al diritto, l’obbligo dello Stato di effettuare determinate prestazioni sanitarie, si può ancora sensatamente parlare (esclusivamente) di un diritto alla salute? L’impossibilità di rinunciare al suo esercizio, non lo trasformerebbe in un obbligo e quindi in un assoggettamento rispetto al potere dello Stato?
Dal punto di vista concettuale appare dunque del tutto evidente che «si può, restringere la libertà di un individuo senza bisogno di affermare “Non devi fare X” o “È vietato fare X”, ma attribuendogli invece un diritto. Basta rendere questo diritto indisponibile. Se ho il diritto alla salute, e se tale diritto è qualificato come indisponibile, ciò significa che lo Stato ha l’obbligo di curarmi. Se ho un tumore al cervello, non posso pretendere legittimamente di non volermi curare, perché lo Stato ha l’obbligo di prendersi cura di me. Se lo Stato ha l’obbligo di prendersi cura di me, ha l’obbligo di tutelare la mia salute in caso di malattia. Chiaramente tale obbligo dello Stato, e dunque il correlativo divieto di non essere curati dallo Stato implicato da esso, può essere più o meno invasivo, più o meno restrittivo della mia libertà». Quali elementi permettono allora di giustificare l’attribuzione dell’indisponibilità a un diritto e di poter affermare che non si tratta invece del tentativo di occultare un assoggettamento che le istituzioni vorrebbero realizzare nei confronti dei membri della comunità? Come si fa a distinguere una “giusta” indisponibilità da una lesione della propria libertà individuale?
Il gioco tra tutela e obbligo.
Il criterio che sembra più convincente, dal punto di vista argomentativo, è quello del rilievo attribuito alla volontà che i singoli cittadini (presi in considerazione, in taluni casi, come categoria ben specifica, ad esempio quella dei lavoratori) avrebbero se fossero razionali, informati dei fatti rilevanti e soprattutto sufficientemente liberi da pressioni coercitive. Si indaga in buona sostanza sulla possibilità che tale consenso “qualificato” sia esprimibile, ovvero sull’assenza di ragioni empiriche, fattuali, che possano negare questa “libertà di scelta”. Per essere ancora più chiari, pensiamo al diritto alle ferie retribuite. Il nostro ordinamento riconosce ai lavoratori questo diritto, tuttavia, «i lavoratori non possono rinunciare alle stesse. Per quale ragione? Ciò avviene in quanto lo Stato, sulla base di indagini fattuali, condotte in modo scientifico, empiricamente fondate, stabilisce che se i lavoratori fossero “lasciati liberi” in un mercato capitalistico di decidere se andare o meno in ferie, le imprese potrebbero facilmente coalizzarsi per “imporre” ai lavoratori di rinunciare alle ferie, per stabilire, cioè, che nessun contratto ad esempio per operai non specializzati nel settore privato possa prevedere ferie pagate o un orario di lavoro inferiore a 10-12 ore».
La volontà che si ritiene così meritevole di tutela non è quella attuale dei singoli lavoratori, bensì la loro autonomia, cioè la volontà che essi avrebbero se fossero razionali, informati dei fatti rilevanti e soprattutto sufficientemente liberi da pressioni coercitive. Da questo punto di vista non c’è contraddizione tra attribuire un diritto alle ferie pagate e il divieto di non andare in ferie: il divieto rilevante non il divieto assoluto di non andare in ferie, ma il divieto per i lavoratori di rinunciare a tale diritto in base ad un consenso che non sia razionale, informato dei fatti rilevanti, stabile nel tempo e soprattutto sufficientemente libero da pressioni coercitive. Consenso che contingentemente, storicamente, non può essere espresso dai lavoratori. Tale ratio è la stessa che viene posta a fondamento dell’obbligatorietà del congedo di maternità: si ritiene che, se tale diritto non fosse irrinunciabile, le condizioni del mercato, di fatto, ne determinerebbero l’impossibilità di un suo esercizio. L’obbligatorietà quindi non è posta contro le madri (ovvero immaginando che le stesse non siano abbastanza responsabili da esercitare questo diritto), ma a loro tutela.
Il trucco nel congedo di paternità.
In riferimento al congedo obbligatorio, di recente è stata avanzata la proposta di estenderlo anche agli uomini, i quali attualmente hanno la possibilità di un congedo per soli dieci giorni (a differenza dei tre mesi concessi alla donne): si badi bene, parliamo dell’estensione di un diritto, anche se si tratta di un diritto che, per le ragioni anzidette, appartiene alla categoria dei diritti indisponibili. Bene, come ha commentato Elena Bonetti questa proposta? Ecco il virgolettato: «Il governo si è già impegnato e continuerà a impegnarsi per garantire il congedo di paternità obbligatorio oltre i dieci giorni previsti – ha dichiarato Bonetti in una breve conferenza stampa presso la sede della Banca d’Italia – nel Family Act si prevede fino a tre mesi di congedo di paternità con un aumento graduale, ma l’importante è parificare la responsabilità maschile a quella femminile». Prosegue: «Nel Family Act, che attende l’ultimo voto alla Camera, e poi passerà al Senato,è prevista la riforma complessiva dei congedi parentali. L’Italia ha messo al centro dell’attenzione il tema in tutto il G20. È un momento di grande opportunità e di grande responsabilità, il governo è primariamente impegnato nel mettere al centro la parità di genere […]. Oggi per un’azienda costa di più assumere una donna e questo costo va rimosso […], così colmare il divario salariale è uno degli obiettivi della strategia nazionale della parità di genere: il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per figli che nascono e lavoro femminile. Noi vogliamo ribaltare questo schema e lo facciamo con il Family Act e con la strategia nazionale sulla parità di genere».
Lasciando da parte le riflessioni sul divario salariale, sulle quali le tesi di Elena Bonetti (quella secondo cui le donne sarebbero discriminate, pagate di meno in quanto donne) sono totalmente inconsistenti e che sono state smontate più volte praticamente da chiunque se ne sia occupato, quello che emerge leggendo queste dichiarazioni è che, nell’ottica del Ministro per le Pari opportunità e la Famiglia (sic!), l’estensione del congedo obbligatorio agli uomini si rende necessaria in ragione di una irresponsabilità maschile. Gli uomini, in parole povere, non avrebbero alcun desiderio di occuparsi dei propri figli; visto che non ce l’hanno, costringiamoli! Per le ragioni che abbiamo illustrato nella prima parte, il ragionamento della Bonetti è totalmente infondato: l’indisponibilità del diritto e quindi l’obbligatorietà di esercizio dello stesso è posta nell’interesse del titolare del diritto stesso, per fare in modo che la possibilità del suo esercizio sia effettiva e non paralizzata da un contesto strutturalmente ostile. Del resto non mi pare che la Bonetti (o qualche altra femminista per lei) abbia mai detto che il congedo di maternità è obbligatorio poiché le donne sono irresponsabili e non vogliono occuparsi dei propri figli.
Il ministro Bonetti dovrebbe rispondere di questo inganno.
Da questo punto di vista, per quanto ad opinione di chi scrive ciò che ha mosso la Bonetti sia solamente il suo odio antimaschile – oltre alla malafede che da sempre contraddistingue il personaggio e che trova degli epigoni solamente in mostri sacri quali Laura Boldrini – la deriva in qualche modo prospettata da questa prassi ragionativa è alquanto pericolosa. Come abbiamo mostrato infatti, attraverso la retorica dei diritti indisponibili – se si occulta o, peggio ancora, si distorce il discorso sulle giustificazioni della loro attribuzione o qualifica – è virtualmente possibile praticare ogni limitazione delle libertà individuali, senza dichiararne la reale natura. E se nel caso di specie (l’estensione del congedo parentale agli uomini) non è in gioco un’intrusione nella sfera autodeterminazione degli individui, rimane tuttavia l’inganno del presentare l’aspetto obbligatorio dell’indisponibilità del diritto come un elemento non solo volto a tutelare un interesse diverso da quello del soggetto a cui il diritto viene riconosciuto, ma addirittura reso necessario dalla “irresponsabilità” (per usare le parole della Bonetti) del suo titolare (nel caso di specie, la mancanza di attitudine degli uomini nell’occuparsi dei figli). Come abbiamo già detto, l’indisponibilità del diritto mai è da ricondurre a una intrusione nella sfera di autonomia decisionale dei cittadini. Ingannare i cittadini, manipolare e corrompere il linguaggio, effettuare una propaganda permanente, manipolare l’opinione pubblica, sono scopi normalmente perseguiti sia nelle distopie socialiste (1984) che in quelle liberiste (Il mondo nuovo) e precisamente proprie di ogni stato dittatoriale. E al di là delle concezioni ideologiche sottostanti (in questo caso l’ideologia femminista e il conseguente intendimento antimaschile), di questo inganno il ministro Bonetti dovrebbe rispondere.