Di Eleonora De Nardis ci siamo già occupati in passato (qui, qui e qui), perché rappresenta un po’ il massimo esempio di come funzionino le cose in un mondo governato dall’ideologia femminista. Ex giornalista della RAI, oggi fa la scrittrice e l’attivista per i diritti delle donne, in stretta collaborazione con le varie associazioni sparse per il territorio, con una speciale liaison con la “Casa delle donne” di Roma (quella degli affitti non pagati, per intenderci). Gira il Paese moderando convegni, presentando le sue fatiche letterarie, ma soprattutto sostenendo una battaglia di puro femminismo suprematista, su posizioni comparabili a quelle più estreme (alla Murgia, per intenderci). Gode di amicizie di rilievo anche in ambito politico: la sua presenza è stata registrata diverse volte in Senato, sempre per presentare i suoi libri, tra baci e abbracci con personaggi del calibro di Valeria Valente, Valeria Fedeli e altre dello stesso club. Insomma è a tutti gli effetti una bandiera del femminismo nazionale, forte delle sue narrazioni saldamente imperniate su racconti di violenta dominanza maschile o di women empowerment, con una denuncia costante delle discriminazioni di cui tutte le donne sono vittime da secoli e ancora oggi. Però… però c’è una macchia sulla candida armatura di questa guerriera del femminismo.
Correva il 2014, la De Nardis si trovava ad Ostuni insieme al suo compagno di allora, l’avvocato Piero Lorusso. Scoppia una lite, spunta tra le mani della donna un coltello con 36 cm di lama, con cui attinge il compagno 11 volte, sfiorando a più riprese punti vitali. Lorusso, che nel frangente si limita a tentare di parare i colpi, finisce in codice rosso al Pronto Soccorso, dove i sanitari intervengono per ripristinare i parametri vitali. A seguito dell’aggressione, l’uomo denuncerà la donna per tentato omicidio, accusa che il PM derubricherà, come usuale, in lesioni personali pluriaggravate e che i giudici di primo grado valuteranno fondata, ben più del tentativo della donna di spacciarsi per vittima durante il dibattimento, condannandola a 6 anni di reclusione e l’interdizione perpetua ai pubblici uffici. Nonostante la condanna significativa, la De Nardis non fa un giorno di carcere e, mentre continua a essere invitata dappertutto come testimonial contro la violenza sulle donne, decide di appellare la sentenza di primo grado. Qualche giorno fa arriva la sentenza: pena confermata in appello, seppur con la riduzione da sei a quattro anni di reclusione e la modifica dell’interdizione da perpetua a quinquennale. L’impianto accusatorio, fatto di prove e referti, ha insomma retto. Abbiamo registrato a caldo la reazione della vittima, Piero Lorusso: «Ora avvieremo azione di risarcimento», ci dice, «per i gravissimi danni causati dalla De Nardis, che mai ha avuto un momento di resipiscenza, cavalcando addirittura l’onda emotiva del fenomeno a lei completamente estraneo del femminicidio». La cosa non ci stupisce: agganciarsi al carrozzone del “femminicidio” è oggi il modo più rapido per avere visibilità, pulpiti da cui predicare e attenzione mediatica.
«Porto i miei libri nelle scuole».
«La violenza non ha genere», continua l’Avvocato Lorusso, «un omicidio o un tentato omicidio non devono assumere connotati o denominazioni diverse a seconda del genus dell’autore: non esistono femminicidi o maschicidi, esistono omicidi o i tentati omicidi non consumati solo per la prontezza della vittima prescelta». Non possiamo che concordare totalmente con questa osservazione. «Sappiamo già però», conclude Lorusso, «che l’azione di risarcimento danni si tradurrà in un inutile esercizio, essendosi già posta la De Nardis in una situazione di apparente nullatenenza, pur continuando a lavorare». Insomma, secondo Lorusso la storia finirà come sempre: nessuna reclusione per la colpevole e nessun esborso in termini risarcitori. È il “modello William Pezzulo” che si ripete all’infinito in questo Paese dove la discriminazione giudiziaria antimaschile è assurta a sistema. A tutto ciò si aggiungono poi altri due aspetti paradossali: il primo è che, diversamente da qualunque autore di “femminicidio”, o di maltrattamenti, o di stupro, la De Nardis non subirà alcuna gogna mediatica, proprio inquantodonna. Alberto Genovese, per parlare di un evento recente, è stato crocifisso a reti unificate, senza che ci fosse ancora una sentenza. Una “pena sociale” che, pur se due volte dichiarata colpevole, non toccherà alla De Nardis. La quale anzi, e questa è la seconda anomalia, è probabile che moltiplicherà le sue ospitate e partecipazioni a eventi sulla violenza contro le donne, comparto economico-mediatico da cui non cesserà di attingere. Anzi, per paradosso le sue condanne potrebbero addirittura generare plausi e apprezzamenti per lei. D’altra parte è una “sorella” che il patriarcato l’ha combattuto davvero, con sanguinosa concretezza.
La riflessione però non può essere completa se non si mette nella giusta luce la profonda ipocrisia del sistema che così tanto oggi contribuisce a criminalizzare a prescindere la sfera maschile, vittimizzando quella femminile, ovvero avvelenando il campo del libero e spontaneo incontro tra i sessi. Potete cercare voi stessi gli eventi più recenti dove la De Nardis si sia esposta nel suo ruolo di paladina. Il più recente risulta il 30 settembre scorso, presso la “Casa delle donne” di Roma, in un evento emblematicamente intitolato “Feminism”. Assai più significativa è però questa sua intervista, rilasciata nel maggio scorso, dove la sua condanna di primo grado per lesioni pluriaggravate viene definita pudicamente una «dolorosa vicenda giudiziaria»… Lì la De Nardis sciorina tutto il repertorio femminista, dal gender paygap alla violenza domestica, passando per la cultura patriarcale. Alcune sue riflessioni, dopo la seconda condanna, suonano quanto mai sinistre: «ribellarsi, un verbo che sembra concepito apposta per le donne»; o ancora: «Non amo i vittimismi , ma credo che in questo Paese, irrimediabilmente maschilista, le discriminazioni nei confronti delle donne imperversino in ogni campo»; «Del resto, la Storia insegna che abbiamo dovuto faticare per ritagliarci spazi in ogni ambito…». Ma la frase più spaventosa di tutte, nell’intervista, è senza dubbio questa: «Porto i miei libri nelle scuole». E purtroppo è pure vero, non è millanteria. In un paese normale, già allora, e ancora di più oggi dopo la seconda condanna, il Ministero dell’Istruzione avrebbe dovuto inviare una circolare di diffida a tutti gli istituti a invitare la De Nardis a parlare. Ma non siamo né in un mondo, né in un Paese normale: purtroppo uomini e donne per bene di questo paese restano in sonno su queste questioni. Ed è così che una donna condannata due volte per lesioni pluriaggravate al proprio compagno, avendolo pugnalato undici volte, continuerà a stare sulla cresta dell’onda e a colpevolizzare i nostri figli maschi e vittimizzare le nostre figlie femmine raccontando quanto sempre solo gli uomini siano carnefici e sempre solo le donne siano vittime.