La Fionda

La caduta dell’uomo (3)

«Tra l’uomo e la donna si aprono due strade: la crudeltà o l’indifferenza. Tutto lascia supporre che prenderanno la seconda, che tra loro non vi sarà né spiegazione né rottura, ma che continueranno ad allontanarsi l’uno dall’altra; che la pederastia e l’onanismo, proposti dalle scuole e dai templi, conquisteranno le folle; che una massa di vizi aboliti saranno rimessi in auge, e che una prassi scientifica supplirà al rendimento dello spasimo e alla maledizione della coppia». Con queste parole il filosofo Emil Cioran, in Sillogismi dell’amarezza (1952), profetizza un futuro cupo nelle relazioni tra l’uomo e la donna. E per quanto ci possano sembrare esagerate, nel mondo occidentale, dopo quasi 70 anni, la profezia si sta pian piano avverando. Tutti gli indicatori sociali rivelano una chiara tendenza ininterrotta da decenni verso il distacco tra i due sessi: aumento delle persone single, delle relazioni omosessuali, delle entità monofamiliari e delle famiglie monogenitoriali, diminuzione dei matrimoni e aumento delle separazioni/divorzi, drastico calo della natalità. Uomini e donne si stanno allontanando, fenomeno sociale che sembra inarrestabile. Di fronte a questo fenomeno, sarebbe interessante porsi alcune domande. Perché? Si tratta di un fenomeno consensuale? Quali sono le conseguenze per l’uomo e per la donna (e per l’umanità in genere)? Cioran profetizza l’indifferenza, ma non spiega la causa né si chiede se questa sarà voluta da entrambi, o se uno dei due sessi si dovrà per forza adeguare coattamente alla decisione imposta dall’altro. Inoltre non si chiede il costo diverso che questa indifferenza possa avere per l’uomo e per la donna. Per tanti versi questo fenomeno è paragonabile a un processo di separazione/divorzio (d’ora in poi adopererò unicamente il termine divorzio). Per analogia, “l’industria del divorzio” a livello individuale rimanda un riflesso di quello che sta avvenendo a livello collettivo nel mondo occidentale. E il primo dato da considerare, arcinoto agli addetti del settore, è questo: «Statisticamente la percentuale dei casi di separazione giudiziale promossi dalle donne in Tribunale si assesta intorno al 70%. Tale percentuale non tiene conto del fatto che anche la maggioranza delle separazioni consensuali, cioè presentate formalmente da entrambi i coniugi, in realtà scaturiscono dalla volontà della donna. Nella pratica dunque è sempre la donna a chiedere la separazione».

Non è qualcosa che avviene soltanto in Italia. Nel 2015 l’American Sociological Association (ASA) rilevò che «le istanze giudiziarie di divorzio si devono quasi nel 70% dei casi all’iniziativa delle donne». Nel libro Questa metà della terra, a pag. 287, si può leggere: «Promotrici delle separazioni sono in Italia le donne in circa i due terzi dei casi, mentre in Francia ed in Gran Bretagna prendono l’iniziativa del divorzio addirittura tre volte su quattro». Una prevalenza dell’iniziativa femminile che perdura da decenni nei paesi occidentali e che non ha fatto altro che accentuarsi nel tempo. Questi dati sono perfettamente in linea con quanto riferito negli interventi precedenti, l’uomo, in questo caso nel ruolo di marito, è diventato per moltissimi donne un essere superfluo, inutile, una biciletta per un pesce, un dessert del quale si può fare a meno. Anche in questo caso la Tecnica ha ribaltato il valore del marito per le donne. Per secoli la maggior parte delle donne cercava ardentemente di trovare un marito, con processioni e preghiere, rituali e incontri, persino in tribunale perseguiva gli uomini per farli sposare. La perdita di un marito, per ripudio o per decesso, rappresentava una tragedia; la condizione di vedova o abbandonata, una disgrazia. «Che con la mia povertà non mi è mai mancato, grazie a Dio, un soldo per il pane e il vino, dopo essere rimasta vedova; che prima non mi preoccupavo a cercarli, che c’erano in eccedenza in un pezzo di cuoio a casa mia». Con queste tristi parole, Celestina – protagonista dell’omonimo capolavoro della letturatura spagnola del 1499 – descrive lo stato in cui viveva la maggior parte delle vedove nel Medioevo: povera e sola, senza il sostegno economico di un marito o dei figli ormai grandi che si prendessero cura di lei. Oggi, al contrario, la scomparsa del marito è spesso celebrata.

donne

Fare a meno dell’uomo si può?

Nel divorzio la donna riconquisterebbe la sua condizione di single, la sua libertà, affrancata  dalle catene del matrimonio, cioè dalla prigionia imposta dal marito. Questo spiegherebbe, secondo i media, perché le donne si separano in numeri così sproporzionati rispetto agli uomini, la colpa risiede nell’uomo: i mariti non collaborano ai lavori domestici, a casa le mogli fanno le serve; si tratta di uomini violenti; le donne sono più sensibili e coraggiose quando si tratta di stroncare un rapporto ormai finito e d’intraprendere nuovi percorsi di vita, ecc. Misteriosamente una delle ragioni a mio avviso tra le più importanti, forse la principale, raramente viene considerata: i soldi. L’importanza di questa ragione è dimostrata da un dato inoppugnabile, le richieste di divorzio diminuiscono durante le crisi economiche e aumentano durante i momenti di prosperità. Tra l’altro, è stata la Storia stessa a provare il peso di questo motivo durante la Rivoluzione russa. Nel 1919 e per oltre un decennio venne indetto il divorzio immediato e senza vincoli economici da parte dei coniugi. Nel comunismo ognuno se ne andava con quello che aveva. A chiedere il divorzio erano in stragrande maggioranza gli uomini. Molte donne caddero nella miseria e tutta la legislazione, in poco meno di due decenni, dovette essere modificata. Successivamente in Occidente venne indetto il divorzio con mantenimento e l’esproprio della proprietà privata da uno dei due coniugi (di solito l’uomo) a favore dell’altro (di solito la donna). Da allora in Occidente a chiedere il divorzio sono prevalentemente le donne. Da questo semplice confronto storico si capisce l’importanza delle tutele, cioè dei soldi, nell’asimmetrico comportamento tra uomini e donne. Gli uomini non prendono l’iniziativa se si sentono di rischiare di essere derubati; le donne invece la prendono se si sentono di essere premiate. Volete capire, seguite i soldi…

Mi ha sempre stupito il fatto che il femminismo dichiari esplicitamente il divorzio una “conquista delle donne”; si tratta di un atto che dovrebbe interessare, con i propri benefici e costi, entrambi i sessi: a divorziare si è in due e in via teorica entrambi hanno pari diritti (ONU, Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, art. 16). Nei libri femministi il divorzio viene sempre elencato assieme ad altre “conquiste” storiche delle donne, come l’aborto, il diritto di voto femminile, ecc., come se di un diritto e beneficio esclusivo delle donne si trattasse. Nel libro La grande menzogna del femminismo, a pag. 692, si può leggere: «il divorzio è una “conquista delle donne” perché tutela effettivamente le donne. Le donne non richiesero il diritto di separarsi tout court, pretesero il diritto di farlo in modo regolato dalla legge, cioè tutelando la parte debole che per definizione è la donna. Senza necessità di nascondersi sotto il falso velo della parità, l’ONU richiede senza mezzi termini di “continuare a proteggere e rafforzare i diritti, in particolare quelli economici, delle donne conviventi” nelle “relazioni familiari e conseguenze economiche del divorzio”». Nel mondo occidentale non esiste il divorzio e basta, esiste il divorzio con vincoli economici per l’uomo, talvolta temporali, non di rado a vita. Una separazione con vincoli, che razza di separazione è?  Questa legislazione, che tutela le donne dopo il divorzio, forgia in loro una falsa sensazione d’indipendenza, d’autosufficienza economica, di farcela, di poter fare benissimo a meno dell’uomo, mentre lui in realtà la continua a sostenere economicamente, almeno in maniera parziale, obbligato dalla forza coercitiva della legge. Così ci sono molte ex, con lauti assegni per gli alimenti e abitazioni assegnate che non sono di loro proprietà, che si sentono pienamente emancipate. Malgrado si sentano e si dichiarino autosufficienti, non lo sono affatto, come dimostrano le numerose richieste di alimenti inoltrate per conto proprio e/o per i figli nei procedimenti di divorzio, le richieste di assegnazione dell’abitazione, che non è di loro proprietà, e il loro rifiuto (in linea con tutte le associazioni femministe) all’affidamento paritario dei figli nei tempi e al mantenimento diretto. Si tratta di donne che si sentono emancipate, ma sono solo in realtà delle mantenute. La stessa falsa sensazione d’indipendenza, d’autosufficienza, di poter fare benissimo a meno dell’uomo hanno le donne a livello collettivo.

donna rifiuta uomo

La sensazione di sentirsi emancipate.

Per secoli la preoccupazione fondamentale di ogni società è stata quella di proteggere donne e bambini, assegnando a loro un uomo che assolvesse a livello individuale questo compito. E la preoccupazione fondamentale delle donne era quella di farsi assegnare quest’uomo. Quando Simone de Beauvoir e tutte le altre femministe scrivono le loro rimostranze e chiedono le loro tutele, non si comportano diversamente. In questo modo paradossalmente il femminismo non ha fatto altro che provare da due secoli la dipendenza femminile dagli uomini. Chiedono protezione allo Stato, surrogato del marito: pene ridotte per gli stessi reati, leggi di tutela esclusive contro la violenza, potestà esclusiva sulla decisione della nascita di un figlio (con i vincoli economici per il padre), presunzione di verità in certi reati contro gli uomini, assegno di divorzio e affidamento dei figli, sovvenzioni economiche, quote, e discriminazione positiva, ipersensibilità nei trattamenti dei media, ecc. Di più, nel bilancio dello Stato per quanto riguarda la tassazione diretta (vale anche per il sistema pensionistico) la quota maggioritaria è quella maschile (ad es. nel Regno Unito gli uomini versano il 71,8% del totale, in La grande menzogna del femminismo, p. 660).

È noto che le donne predominano nel settore pubblico (sanità, scuola, uffici pubblici,…), e gli uomini nei settori produttivi privati, che sono quelli che finanziano il settore pubblico. Se estrapoliamo dalla tassazione diretta solo quella del settore privato (ad es. un minatore), che è quello che finanzia anche il settore pubblico (ad. es. un’assistente sociale), le differenze aumentano. Il Welfare State, nato in occidente, in linea di massima non è che la collettivizzazione del mantenimento/protezione di tutti gli uomini, ciò che avveniva una volta a livello individuale, a favore di tutto il collettivo delle donne. Le donne sposano il Welfare State. Oggi le donne possono tranquillamente fare a meno di un uomo, divorziare o divenire madri single, perché sanno che, in caso di necessità, c’è un sistema di Welfare che le protegge. E vivono dunque convinte di essere emancipate dall’uomo. Così, la giornalista Maureen Dowd si chiede se gli uomini sono necessari (“Are men necessary?”) seduta su una sedia costruita da un uomo, su un tavolo costruito da un uomo, con un computer costruito da un uomo, in una casa costruita da uomini, con il riscaldamento funzionante sistemato da un uomo, e così via all’infinito. Donna emancipata. La prima conclusione che possiamo trarre dall’analogia tra il divorzio a livello individuale e il distacco a livello collettivo, è la falsa sensazione che in entrambi i casi hanno molte donne di sentirsi autosufficienti, senza dipendere dagli uomini, sensazione però che non collima con la realtà. (segue domenica prossima)



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