Nell’articolo di ieri, Alessandro Greco ha provato a dare una chiave di lettura del presente e a tracciare i lineamenti del futuro prossimo analizzando una sciagurata legge approvata dal Parlamento Europeo propagandata come “contro la violenza di genere”, in realtà contro l’umanità tutta. Al termine dell’articolo, Greco prende atto di come chi oggi non vede i pericoli della deriva si convincerà (però troppo tardi) quando ne sarà vittima, e infine consiglia di salvare i figli spedendoli fuori dall’area d’influenza UE e ONU. A molti queste due osservazioni sono apparse eccessive, troppo drammatizzate o catastrofiste. È comprensibile: ogni persona, oggi, per credere a una predizione ha bisogno di qualche evidenza concreta, dunque è opportuno provare ad ampliare il ragionamento, prendendo spunto da una riflessione che possa gettare una luce diversa su tre fatti di cronaca attuali e noti, per vedere se qualcuna tra le anime candide che ancora hanno fiducia nel sistema attuale non si risvegli all’orribile realtà delle cose. Il punto di partenza è la preziosa intuizione avuta dalla giornalista Freya India Ager, che sul francese “Express” ha contestato il concetto di “mascolinità tossica” riportando i due generi alla loro natura profonda. Quella che emerge con chiarezza quando un uomo o una donna perdono il senno e, in quelle condizioni, manifestano la propria antisocialità: il malato psichiatrico uomo nella stragrande maggioranza dei casi diventa aggressivo o violento; il malato psichiatrico donna porta agli eccessi la propria inclinazione all’empatia, adottando comportamenti che la Ager accosta intelligentemente alla condotta tipica del “Social Justice Warrior”.
La Ager cita studi evolutivi, ma è sufficiente anche un’osservazione superficiale: fin dagli albori dell’umanità e ancora oggi, gli uomini dirimono le proprie controversie ed eliminano i concorrenti con il conflitto diretto, le donne invece si affidano al conflitto indiretto e a competizioni a basso rischio. Nel primo caso si mette in gioco la propria integrità fisica e la vita stessa, nel secondo lo strumento di lotta si incentra sulla reputazione. Semplificando: l’uomo prende a pugni il nemico, la donna distrugge la reputazione della rivale, punta ad affermare il disprezzo diffuso al fine di ottenere il danno più grave per una donna: l’esclusione sociale. Descritte così le cose, è piuttosto evidente che da tempo a predominare siano una cultura e un approccio femminile. Dice la Ager: «la nostra mentalità attuale – che banalizza l’ostracismo, esalta il ragionamento emotivo e sopravvaluta la sicurezza – è fortemente in linea con dei tratti caratteriali che, in generale, sono più predominanti tra le donne che tra gli uomini. Nel contesto attuale della giustizia sociale, quelli che commettono una trasgressione morale si ritrovano spesso in balìa della “cancel culture” (letteralmente, la cultura della cancellazione, variazione contemporanea della messa all’indice), una forma di esclusione sociale in cui il presunto trasgressore viene emarginato dalla società, con perdita di reputazione e anche di carriera». Il ragionamento è illuminante: l’evoluzione del politicamente corretto, alimentato nel suo dilagare anche e soprattutto da femminismo e ideologia queer, ha femminilizzato in modo estremo le relazioni e le dinamiche sociali, oltre che la legge: oggi, pur se si favoleggia di un inesistente “patriarcato”, siamo a tutti gli effetti sotto l’influenza costante di un “femminarcato” che determina scelte e plasma le relazioni. Una legge come quella di cui abbiamo parlato ieri serve a cristallizzare questo stato di cose, a renderlo strutturale scolpendone nel marmo le regole. Ma con quali esiti? Qual è il progetto di umanità che si pianifica stia al termine della realizzazione di quella cultura sancita da quel tipo di legge? La cronaca ce ne suggerisce i lineamenti.
Nessuno è al sicuro in questo stato di cose.
Quanto accaduto di recente a Barbara Palombelli è una prima prova. Stiamo parlando di un personaggio pubblico, giornalista, opinionista che non ha mai nascosto le proprie inclinazioni femministe, tanto da tenere la sua prolusione conformista nella più conformista delle trasmissioni televisive italiane: il Festival di Sanremo. E non si è mai trattato di un femminismo tiepido, bensì di uno di quelli più ardenti, collocandosi la Palombelli nell’area sinistra dell’agone politico. Eppure le è bastato cedere per un secondo alla correttezza professionale della giornalista, oltre che al mero buon senso, e auspicare di tenere in considerazione tutti i lati di un fenomeno (il “femminicidio”) nella loro complessità, per finire in un tritacarne ferocissimo. Sbranata da tutti, uomini ma soprattutto donne, lei che si credeva probabilmente “pura” sotto l’aspetto delle conformità ai paradigmi femministi, si è vista messa fuori dal suo contesto per opera degli immancabili “più puri che ti epurano”, secondo il meccanismo descritto bene dalla Ager. Nonostante le spiegazioni successive e le scuse, pare che Mediaset stia valutando di licenziare la giornalista, dando seguito a un’ondata di indignazione espressa essenzialmente su piattaforme informali come i social media. Il tribunale del popolo che, giudicando su codici puramente femminili, banalizza l’ostracismo ed esalta il ragionamento emotivo, per usare le parole della Ager, ha sentenziato che Barbara Palombelli, benché donna, di sinistra e dichiaratamente femminista, è un’eretica, ha infranto la legge della “sorellanza”, ha vilipeso l’ortodossia della bugia unilaterale e per questo va messa al rogo. La legge europea commentata ieri ha, guarda caso, articoli specificamente dedicati alla repressione spietata di chi mette in dubbio il dettato femminista. Riuscite a mettere insieme le tre cose, Weltanshauung femminile spinta dal femminismo, leggi cogenti e Barbara Palombelli? Ci pare una concatenazione piuttosto concreta, con un elemento non irrilevante: il bersaglio è donna (e non è nemmeno la prima volta che accade), a dimostrazione che non è una questione di generi. Nessuno è al sicuro in questo stato di cose, che ora è pulsione istintiva, domani sarà reato per legge europea attuata a livello nazionale.
Poi ci sono i fratelli Bianchi, giudicati colpevoli della morte di Willy Monteiro e tornati in auge per le loro lamentele rispetto al trattamento che gli viene riservato in carcere dagli altri detenuti. Questi ultimi, lo si è detto di recente, sono, sebbene a modo loro, gli ultimi custodi di una forma modernizzata di cavalleria, dunque non apprezzano chi se la prende con uno più debole e pare la stiano quindi facendo pagare ai due assassini. Insieme alle loro lamentele, i giornali riportano stralci delle intercettazioni dei dialoghi tra uno dei due e la madre, Simonetta Di Tullio. Che non ha dubbi: i suoi due figli sono stati incarcerati da innocenti o al massimo colpevoli di una bagatella. Riferendosi alla morte del povero Willy, la madre sbotta: «manco fosse morta la regina». Non sorprende che Marco e Gabriele, i due colpevoli, siano cresciuti come sono cresciuti e abbiano fatto ciò che hanno fatto, se la fonte educativa è una madre del genere, con buona probabilità associata a una figura paterna fragile. «Quel poraccio di tuo padre», dice la Di Tullio in un’intercettazione, parlando del marito con uno dei due figli, «quello, te lo dico, non tiene coraggio a venì né qua, né da te… sennò gli piglia l’infarto». Il quadro è chiaro: i due teppisti sono il risultato, oltre che dell’ignoranza, anche dall’assenza di un soggetto regolatore maschile e paterno che ha lasciato campo libero a un’incisiva educazione materna basata su un’etica ben rappresentata da quel «manco fosse morta la regina». È un abbraccio materno amoroso e asfissiante quello della Di Tullio verso i figli. Un amplesso che nega la gravità dei fatti pur di proteggere i pulcini e sottrarli alla loro responsabilità, laddove un padre, un uomo, con tutto il suo esecrato senso dell’onore e della responsabilità, dunque con tutta la sua “mascolinità tossica”, consegnerebbe freddamente l’inqualificabile prole alla giustizia e alla legge affinché paghi fino in fondo la propria idiozia e le proprie colpe, interrogandosi poi dolorosamente sul proprio fallimento come genitore. Marco e Gabriele Bianchi sono il risultato del dilagare materno, con tutta la sua inclinazione all’ottusità e all’impunità. La recente legge europea di cui abbiamo parlato ieri impone, guarda caso, ogni azione possibile affinché la cura dei figli sia sempre, in qualsiasi condizione, affidata alla parte materna, prefigurando un futuro totalmente squilibrato, dove il tramonto del padre, già in atto da anni, diventa finalmente un fatto compiuto. Nessuno dunque è al sicuro in questo stato di cose: a partire dai figli.
Opporci assieme al degrado.
Ultima, ma non per importanza, è poi la vicenda del matematico e ricercatore presso l’Università di Palermo, il professor Francesco Tulone. Deteneva la cattedra di “Analisi 2”, insegnava a ingegneria, fisica e biologia, vantando un curriculum con esperienze di rilievo all’estero (a Mosca e in Texas) e collaborazioni con premi Nobel. Uno di quei cervelli che, coraggiosamente, non fuggono all’estero, ma rimangono in Italia cercando di migliorare le cose, ancor più su piazze difficili come possono essere quelle accademiche meridionali. Ma non basta: Tulone nell’agosto scorso, in collaborazione con un collega russo e un collega americano, era riuscito a risolvere un complesso problema matematico aperto circa vent’anni fa. Un’equazione, si dice. Per chi, come noi, fatica a risolvere una semplice proporzione, fa impressione pensare a un dilemma matematico irrisolto per vent’anni, la cui soluzione viene celebrata con tanto di pubblicazione su importanti riviste scientifiche, proprio come capitato a Tulone. In un contesto normale, cioè competitivo e meritocratico, il professore sarebbe stato premiato. Invece è stato sollevato dall’incarico e sostituito con una docente del tutto priva delle sue esperienze, competenze e dei suoi successi nella ricerca. Un «dispetto accademico», lo definisce Tulone, che preferisce ora un comprensibile understatement, forse per non avere conseguenze peggiori a quelle già raccolte. Eppure c’è un lato oscuro nella vicenda: una votazione palese del Consiglio di Ateneo che gli affida la cattedra di “Analisi 2”, seguita da una successiva votazione segreta, che gliela toglie e la affida alla collega inesperta. Cosa è accaduto? È piuttosto facile indovinarlo, nonostante il riserbo: qualcuno “di peso” ai vertici dell’ateneo deve aver patito l’exploit di Tulone e, seguendo le già presenti direttive ministeriali e le prassi sulla “parità di genere” (non dimentichiamo la vicenda del prof. Alessandro Strumia), ha imposto una concorrente donna alla seconda votazione, facendo in modo che prevalesse, a dispetto del merito e della logica. Nella già citata legge europea è presente, guarda caso, l’obbligo di valorizzare le donne nell’istruzione, non per dare impulso alla ricerca con l’attenta selezione delle migliori, bensì per “colmare il gap professionale”. Nessuno è al sicuro in questo stato di cose, va ribadito. E i primi destinati a cadere sono ovviamente gli uomini.
Chi ci ha scritto osservando che forse eravamo stati troppo catastrofisti nel commentare la legge europea sulla “violenza di genere”, ha di che riflettere, insomma. L’approccio generale agli eventi e alla loro interpretazione presso l’opinione pubblica, con la conseguente influenza sugli equilibri sociali, è a tutti gli effetti quella osservata dalla Aber: una forma psichiatrica estremizzata della natura femminile. C’è molta meno violenza fisica, questo è vero: il processo di femminilizzazione e infantilizzazione dell’uomo si è compiuto con successo. In compenso le comunità sono pervase da una soft violence declinata al femminile/materno, incardinata sull’esclusione sociale e professionale o su un distorto senso della giustizia, interpretata come impunità per sé, il tutto ben amplificato da quella cosa micidiale che sono i social media. Le prove sono evidenti, e ci siamo limitati a prenderne soltanto tre, pescandole da fatti recenti che hanno suscitato scalpore, ma la lista sarebbe infinita. Va ribadito: fin tanto che si trattava di trend culturali, conformismo sociale o politico, eravamo davanti a un fenomeno fastidioso, inquinante, ma tutto sommato gestibile, nella misura in cui si poteva esercitare il diritto di critica. Ora però tutte le storture descritte hanno intrapreso la strada della santificazione per legem, ed è questo soprattutto a renderci “catastrofisti”. La posizione espressa da Alessandro Greco va dunque confermata e affermata con forza, anzi con due elementi in più che forse nell’articolo di ieri non emergevano a sufficienza. Il primo è che non si tratta di tendenze casuali, bensì di un progetto di società chiaro e definito, costruito a tavolino, che si sta costruendo pezzo per pezzo, forzatura per forzatura, con la complicità trasversale di molti. Il secondo è che, sebbene gli uomini siano i più esposti agli attacchi, quel progetto di umanità non risparmia nessuno, né i minori e nemmeno le donne. Per queste ultime, cresciute nel mito del femminismo e dell’iperprotezione, sono coloro che più di altre possono correre il rischio di un brusco risveglio: la folle ortodossia femminista, come ogni totalitarismo, non fa prigionieri, anche a costo di contraddirsi. Non è forse questa una buona ragione per esercitare tutti assieme un po’ di senso critico e iniziare a opporci assieme al degrado?