di Alessio Cardinale (Adiantum). Cosa c’è di peggio di avere un nemico da combattere? Semplice: un amico di cui forse ti fidi e che, invece, ti porta dritto in pasto a quel nemico contro il quale vorresti vincere. In questa brutta storia di padri che si separano e di negazione del più elementare diritto umano dei loro figli, ossia il diritto alla bigenitorialità, il nemico è interpretato magistralmente dal PD e da alcune parlamentari senza troppi scrupoli che sostengono la supremazia del genere materno e che, non più soddisfatte dal generale boicottaggio della L. 54/2006 da parte della Magistratura, e timorose di alcuni orientamenti giurisprudenziali che “osano” punire le madri colpevoli di allontanare affettivamente i figli agli ex mariti, vorrebbero dare la zampata mortale ad ogni ipotesi di autentico affido condiviso e abrogare di fatto la L. 54/2006, approfittando del dibattito parlamentare sulla riforma del processo civile. La tecnica è semplice: si approfitta di un disegno di legge di riforma, e si inseriscono degli “emendamenti killer” che, sotto lo schermo di una finta tutela di un fumoso interesse collettivo o di una finta emergenza, nascondano invece altri intenti molto discutibili. Questa tecnica, peraltro, è ben collaudata. Il PD ci ha provato prima dell’estate con il DDL Zan, inventandosi l’emergenza omofobia pur di far approvare un disegno di legge liberticida e chiaramente incostituzionale. Ma l’interesse della ditta PD & Co., oggi, non è quello di far fuori una legge come la 54, depotenziata fin dalla sua entrata in vigore – e quindi inoffensiva – bensì quello di trovare un modo affinché anche i magistrati che applicano quelle poche tutele rimaste ai figli vittime della più smaccata alienazione possano desistere dal fare alcunché, e lascino libere di agire impunemente tutte quelle mamme che, per evitare l’allontanamento forzato dei figli, sono costrette a smettere le loro pratiche alienanti oppure, pur di non cedere, si danno alla latitanza.
Fin qui abbiamo tracciato l’identikit del nemico. E l’amico fidato che ti porta dritto all’inferno, invece, da chi è impersonato in questo brutto reality? Altrettanto semplice: dalla Lega, che sul tema dei diritti umani dei figli fa sempre un passo falso avanti, e due indietro. Infatti, nel corso degli ultimi quattro anni, abbiamo assistito alla nascita di un vero e proprio “Lega-style” con il quale il partito di Salvini, attraverso il senatore Pillon, tratta le questioni riguardanti i diritti civili di genitori e figli come una normalissima moneta di scambio politico con la ditta PD & Co. e con il Movimento Cinque Stelle – quello che avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno – che però, a differenza della Lega, ha avuto il fegato di chiarire quasi subito il proprio ruolo di nemico pubblico della bigenitorialità, con il repentino tradimento del contratto di governo” del 2018 (art. 25, ve lo ricordate?). La Lega, invece, fa peggio: prima ti illude di farsi carico di un problema molto sentito dalla collettività, e poi scende a patti col “diavolo”; tanto più che, con il diavolo, oggi la Lega è al Governo. Lo ha fatto in occasione del DDL 735, che non era esattamente un capolavoro di progettazione legislativa ma riusciva a coinvolgere moltissime associazioni familiariste (non tutte, qualcuna intuì il bluff immediatamente) e, proprio nel momento in cui si sarebbe potuto dare quella “spinta” politica in più e fare approvare il disegno di legge, veniva seppellito dalla Lega sotto una coltre di inutili audizioni e, di fatto, veniva addormentato per sempre.
Il metodo “Lega-style”.
L’amara conclusione fu che coloro che avevano sostenuto strenuamente il senatore Pillon videro con i propri occhi l’affossamento del DDL 735 e i canti di vittoria della Lega per aver fatto approvare al fotofinish il decreto sul c.d. Codice Rosso, ossia il più prolifico laboratorio di fabbricazione di false denunce contro i padri ed il genere maschile dopo la legge che ha introdotto l’art. 612 bis (atti persecutori, il c.d. Stalking). In quella occasione, fu evidente che la Lega “calò le braghe” di fronte alla corrente interna dell’avv. Giulia Bongiorno, che è anche uno degli avvocati di Salvini, tra le altre cose, sul delicatissimo caso Gregoretti a Catania e che, insieme all’ex ministro pentastellato Bonafede, si è intestata la paternità (ops… volevo dire maternità) del Codice Rosso. Si tratta di una coincidenza, oppure le urgenze difensive del “capitano” e la situazione di evidente conflitto di interesse politico che si è venuta a creare con l’on. Bongiorno hanno fatto pendere la bilancia, nel 2018, verso l’affossamento del DDL 735 e la frettolosa approvazione del Codice Rosso? Ovviamente non lo sapremo mai, ma a porsi la domanda non si commette reato. Lo stesso metodo della “tempesta di audizioni” è stato usato – questa volta meritoriamente, bisogna riconoscerlo – per mandare in sonno il DDL Zan, anche lui seppellito da centinaia di incontri in commissione e, al rientro dalle vacanze estive, dimenticato persino dallo stesso PD, che di quel DDL aveva fatto una priorità politica senza precedenti e che oggi, tramite la senatrice Valente, intende mettere le mani sul principio di bigenitorialità distruggendolo dalle fondamenta.
In sintesi, il PD che non fa più muro sul DDL dell’on. Zan – il quale adesso gira felice l’Italia presentando le sue fatiche letterarie – e la Lega che guarda con una certa bonarietà agli emendamenti killer della senatrice Valente: anche questa una coincidenza? Eccolo, il “Lega-style”: se una iniziativa non piace più, o in fondo non è mai piaciuta ma è stata portata avanti per puto calcolo politico-elettorale, la si manda a dormire anzitempo subito dopo la cena e si dà la colpa al vino. Oppure si cerca il colpevole nel PD, come sta succedendo in relazione al DDL 662 sulle sottrazioni internazionali, improvvisamente “risvegliato” in occasione del caso Eithan-Israele e del rapimento del bambino da parte del nonno materno, usato dalla Lega come arma politica contro il PD, reo di essersi opposto alla calendarizzazione del disegno di legge. Ebbene, da quando è stato depositato quel DDL sono passati tre anni, e durante questo lungo periodo di tempo non abbiamo visto la Lega strapparsi i capelli e gridare ai quattro venti contro l’opposizione del PD. Inoltre, esattamente come nel caso del DDL 735, anche per le sottrazioni internazionali Salvini risulta assente ingiustificato, e sarebbe utile leggere i resoconti delle riunioni dei capigruppo per vedere quante volte la Lega abbia fatto pressione per la calendarizzazione del DDL 662 sulle sottrazioni internazionali, e quante volte il PD si sia opposto.
Ruota tutto attorno alla maternal preference.
Ma veniamo ai giorni nostri. Lo scorso 10 settembre, nel silenzio dei media – e della Lega – la senatrice Valente del PD ha depositato una modifica al suo emendamento 15.0.8/2 al DDL 1662 (riforma del Processo Civile) la cui versione originaria del luglio scorso aveva suscitato la reazione corale e determinata di tutto il mondo associativo che si impegna ogni giorno per affermare il principio di bigenitorialità, ancora oggi largamente inapplicato nei tribunali italiani. Di fatto, con l’emendamento di luglio veniva sancito il depotenziamento definitivo della L. 54/2006, attraverso la previsione di una vera e propria istruttoria del giudice che, nel nuovo processo civile, avrebbe dovuto verificare la sussistenza di eventuali episodi di violenza anche semplicemente “riferita” e decidere, su questa scorta, se limitare o escludere l’esercizio di genitorialità del genitore presunto responsabile di episodi di violenza. A prima vista, ad un occhio poco attento, questo impianto giuridico sembrava avere una qualche utilità sociale – l’essere un bravo genitore, che sia padre o madre, non può certo coniugarsi con l’abuso dei mezzi di correzione o con comportamenti violenti – ma analizzando meglio la linea di intervento, questa non convinceva per niente, poiché attraverso di essa si pretendeva di mettere in atto l’”assurdo giuridico” di anticipare in sede civile gli effetti di un accertamento che, secondo il nostro ordinamento, può avvenire solo garantendo tutte le tutele possibili all’accusato esclusivamente in sede penale. In più, si sarebbe ottenuto il risultato di scaricare questa “innovazione” sul giudicante, ossia la magistratura civile, che fino ad oggi si è distinta per un ostinato attaccamento alla maternal preference e che, in tutta evidenza, sarebbe del tutto impreparata culturalmente ad assumere il ruolo di tutelare con efficacia gli 8,5 padri su 10 che vengono falsamente denunciati per inesistenti violenze e allontanati affettivamente dai figli per lungo tempo.
Il nuovo testo dell’emendamento 15.0.8/2, rivisitato dopo un dibattito politico interno alla maggioranza (Lega compresa, quindi) e di cui niente si è saputo prima della sua pubblicazione nel sito del Senato, non muta affatto il suo impianto principale – quello di introdurre nel processo civile di separazione un sub-procedimento di verifica degli eventuali episodi di violenza in tutte le sue declinazioni – e si limita a cambiare la terminologia usata a Luglio (“…accuse di violenza denunciate o anche riferite…”) sostituendola con il riferimento ad inquietanti “allegazioni di fatti di violenza” che rappresenta una previsione addirittura peggiore della precedente. Infatti, a titolo di esempio, una “allegazione” può anche sostanziarsi in una semplice denuncia (falsa, alla bisogna), o in una nota a verbale di un teste di parte depositata presso lo studio di un avvocato oppure ancora in un referto medico di parte strumentalmente esagerato. Niente a che vedere, quindi, con una condanna almeno in primo grado del presunto reo o con un suo arresto in flagranza di reato. E a nulla vale la moral suasion che il senatore Pillon, in questi giorni, sta cercando di infondere nelle associazioni nel tentativo di indorare la pillola: non esiste alcun riferimento chiaro a come il genitore che denuncia falsamente l’altro possa “pagar dazio” ed essere punito. E se anche vi fosse – io ancora non l’ho visto – trovandoci all’interno del rito civile la sanzione non potrà che essere amministrativo-pecuniaria oppure, in rarissimi casi, potrà arrivare all’inversione della domiciliazione prevalente, che rimane il vero elemento attorno al quale ruota l’istituto non riconosciuto (ma largamente applicato) della maternal preference.
Indovinate a favore di chi andranno le prassi?
Pertanto, dal punto di vista del Processo Civile, rimangono intatte le profonde perplessità di un simile approccio: come potrà mai, un giudice di merito con un arretrato stratosferico, stabilire in poco tempo se le violenze esistono, sono esistite, oppure no? Da quali professionalità egli si farà coadiuvare per risolvere così rapidamente l’indagine, se non dai CTU o da uno o più assistenti sociali? Come farà egli a capire se le violenze sussistono da una sola parte o da entrambe, oppure non sussistono affatto? E se nelle memorie difensive si dovesse fare semplicemente riferimento alle sole “violenza assistita” e “violenza psicologica”, come potrà il magistrato comprendere da chi viene agita? Cosa succede, nel frattempo, all’esercizio della responsabilità genitoriale? Viene sospesa oppure no, magari determinando, nel secondo caso, la continuazione di autentiche violenze? E se pure i padri, anche allo scopo di prevenire l’aumento esponenziale che una simile norma determinerebbe in capo al fenomeno delle false denunce ai loro danni, cominciassero a denunciare, magari pretestuosamente e preventivamente, inondando le cancellerie dei tribunali? In quest’ultimo caso, tra due denunce identiche e contrarie, come può il magistrato capire quale delle due sia autentica? Dal tenore di queste domande si intuisce cosa succederà all’indomani dell’entrata in vigore del DDL 1662, quando sarà evidente che la Lega avrà “calato le braghe” un’altra volta: cancellerie intasate da sub-istanze per denunciare fatti di violenza intra-familiare e profonda incertezza dei diritti umani, con i magistrati – più confusi e carichi di lavoro che mai – alla ricerca di nuove comode prassi con le quali liquidare le questioni in poco tempo e poter lavorare sul mostruoso arretrato. E se dovessero prevalere le prassi, indovinate a favore di quale genitore sarebbero indirizzate: di “quello che partorisce” o di “quello che si limita a mettere il seme e poi può tranquillamente farsi da parte”?