Qui su “La Fionda” in queste ultime settimane diversi autori hanno analizzato fatti di cronaca che sarebbe poco lungimirante lasciare isolati l’uno dall’altro. Oltre al sottoscritto, anche Alessio Deluca, Davide Stasi, Giorgio Russo, Rita Cascia e Alessandro Greco, chi con propri articoli e chi contribuendo ad alimentare gli archivi della casistica, hanno documentato una serie di episodi riconducibili allo stesso filone: l’isteria oscurantista del femminismo totalitario che, nel pretendere l’egemonia del fenomeno “violenza”, sfodera feroce indignazione verso chiunque prenda posizione contro ogni tipo di violenza. Chi tocca i dogmi del femministicamente corretto si fa male, come dice alex1, un affezionato lettore e commentatore di queste pagine. Non è tollerabile condannare la violenza contro disabili, anziani, bambini, omosessuali, immigrati, donne e (pensa un po’) pure uomini: la violenza più grave di qualsiasi altra è quella subita dalle donne, quindi è l’unica sulla quale convogliare l’attenzione politica e mediatica. Tutto il resto non è degno di considerazione, deve essere scopato sotto al tappeto e guai a chi ne parla. Chi tocca i dogmi del femministicamente corretto si fa male. E a mettere insieme le tessere dei fatti di cronaca recenti si ha un mosaico che conferma questo assunto.
Comincio io parlando dello scandalo di Padova, dove l’avvocato Giovanna Sergiacomi ha la sfrontatezza di dire pubblicamente una verità che tutti conoscono: esistono le false accuse. Esistono, eccome se esistono, è un fenomeno dilagante che però deve rimanere nascosto. Non se ne deve parlare, punto. L’unico argomento feministly correct è la propaganda sulla donna vittima inquantodonna, dunque come da copione non devono avere spazio argomenti che potrebbero far vacillare la narrazione ideologica, ad esempio le violenze inesistenti denunciate da nord a sud dalle donne di ogni età e ceto sociale, per i motivi più vari: per vendetta, per rabbia, per gelosia, per interessi economici, per coprire un tradimento, per giustificare una notte di eccessi, per allontanare il padre dai figli, per nascondere una verità scomoda a mariti, fidanzati, genitori… Non è possibile affrontare l’argomento delle discriminazioni di genere quando il genere discriminato è quello maschile. Un dato importante: Giovanna Sergiacomi, oltre ad essere avvocato, è anche Presidente della Commissione di Parità del Comune di Padova. Quindi una persona che, secondo la distorsione dittatoriale del totalitarismo più tossico, avrebbe insito nel suo ruolo il giuramento di parlare solo di vittime inquantodonne e oscurare tutto il resto. La massiccia ondata di proteste politiche subite dalla Sergiacomi l’ha costretta a una veloce retromarcia, ha dichiarato di essere stata fraintesa. Per aver detto la verità. Chi tocca i dogmi del femministicamente corretto si fa male.
La cronaca che conferma le posizioni “eretiche”.
Poi è la volta di Stasi, che tratta una notizia simile arrivata da San Benedetto del Tronto: ancora una volta l’iniziativa di una donna, ancora una volta questa donna ha un ruolo istituzionale che le imporrebbe – secondo le immancabili contestatrici – di osservare il mondo solo attraverso occhiali rosa, ancora uno tsunami di proteste del femminismo totalitario. Sul banco degli accusati stavolta c’è Antonella Baiocchi, Assessore comunale alle Pari Opportunità. Cosa ti combina la Baiocchi? Inaugura una panchina contro ogni tipo di violenza e fa dichiarazioni distensive invece dell’odio antimaschile di prammatica: «Ho speranza che uomini e donne si alleino per favorire la cultura del rispetto e aiutare le persone maltrattanti e maltrattate ad uscire dalla violenza, tuttavia è necessario superare questo atteggiamento dicotomico. Chi difende gli uomini è contro le donne e viceversa. Con questo comportamento non andiamo da nessuna parte». Apriti cielo! L’Assessore dimostra di essere democratica ed inclusiva, caratteristiche incompatibili col femminismo; intende il concetto di pari opportunità nel senso letterale e non, come viene storpiato, quale corsia preferenziale per il femminile. Invece della solita e inflazionatissima panchina rossa, ha pensato a una panchina contro ogni violenza, decorata dall’artista Pietra Barrasso: un aquilone con simboli di uomini e bambini, senza dimenticare le immancabili zapatas rojas simbolo della violenza sulle donne. Felicitazioni, fotografi, giornalisti, autorità, applausi però…
Però i complimenti per l’iniziativa hanno vita breve, il giorno successivo parte la rappresaglia delle squadre “democratiche” e un paio di associazioni del territorio coprono la panchina con 41 nomi delle donne uccise nel 2021. Le spacciano per femminicidi nonostante non sia vero, ma questo è un altro discorso. Importante è la capriola logica: siccome esiste il femminicidio, la panchina contro ogni violenza è un affronto. Accuse, indignazione, manifestazioni, comunicati… la solita valanga di fango contro chi intende pari opportunità come pari davvero. Chi tocca i dogmi del femministicamente corretto si fa male. Inclusività, obiettività e tutela a 360° danno fastidio al femminismo totalitario, che si dimostra esclusivo ed escludente. Soprattutto accaparratore, quando si tratta di soldi. Mai sia che venga riconosciuta anche la violenza sugli uomini, c’è il rischio che poi qualche briciola di fondi pubblici arrivi anche a loro: meglio che l’ideologia feministly correct resti la sola a tenere banco. Nel frattempo, mentre a S. Benedetto esplodeva la contestazione alla Baiocchi, si succedevano episodi di cronaca a raffica a conferma di quanto sostenuto a Padova dalla Sergiacomi: le false accuse esistono.
Che motivo avrebbe una donna di mentire?
Padova, investimento falso. La donna era a processo per aver, in accordo con il vecchio fidanzato che nel frattempo ha preso le distanze dalla donna e ha patteggiato la pena, accusato il marito di lesioni volontarie: l’aveva investita con l’auto – così aveva denunciato ai Carabinieri. In realtà avrebbe inventato tutto: da qui l’accusa di calunnia. «La querela è un falso» ha confessato il complice «Pensavo che l’ex marito la perseguitasse. Lei me ne aveva parlato come di uno stalker e io l’ho difesa», la giustificazione. Quella sera l’ex marito aveva notato la donna con un nuovo uomo: visto che lei continuava a vivere nella ex casa coniugale, sua proprietà, aveva infilato l’auto in garage bloccando il basculante e poi abbassando il finestrino. Obiettivo: voleva vedere in faccia il rivale. E quest’ultimo, spinto dai racconti della compagna, aveva affrontato con decisione il manager, sferrandogli in volto tre pugni attraverso il finestrino. L’ex moglie denuncia di aver subito un’aggressione ma non fa i conti con il fidanzato che si pente, pensando ai guai del “rivale”. E gli telefona: «Ti avevo aggredito perché lei ti dipingeva come uno stalker… Scusa». Quindi paga un risarcimento, patteggia per la calunnia e, in aula, racconta la verità.
La Spezia, assoluzione. Una guardia giurata accusata di aver dato pugni in testa alla ex convivente, bastonate e una testata al volto con frattura del setto nasale, anche minacce di morte con la pistola d’ordinanza. Accuse pesanti come macigni lanciate dalla donna nei confronti dell’ex, ma non era vero niente. L’accusato è uscito da questa brutta storia con l’assoluzione piena “perchè il fatto non sussiste”. Believe women Ogni donna che denuncia deve essere creduta. Brindisi, archiviazione con seguito. Lei si invaghisce di un professionista, oltretutto sposato, e lo corteggia. Lui respinge le avances ma la cosa scatena una feroce vendetta: la donna rifiutata si sente offesa, il suo orgoglio è ferito, deve farla pagare all’uomo che ha osato non cedere alle sue profferte. Una donna rifiutata, testimoniano le cronache, può reagire con le modalità più violente: c’è chi sfregia con l’acido e lo fa da sola, chi si fa aiutare da un complice, chi organizza investimenti con l’auto, accoltellamenti, pestaggi… e chi sceglie la vendetta tramite carta bollata. Lo strumento c’è: una bella denuncia per stalking e voilà, ecco che la persecutrice si trasforma in perseguitata. Per rendere tutto più credibile ecco pure i testimoni falsi, nell’articolo «alcune persone ascoltate a sostegno della stessa». In questo caso la tizia ha costruito maldestramente la denuncia, senza controllare le date e senza notare che nello studio del presunto stalker era attiva una telecamera; l’innocente falsamente accusato ha quindi potuto dimostrare l’infondatezza delle denunce poiché nei giorni delle presunte persecuzioni era altrove, inoltre il comportamento della “povera vittima” era registrato su file audio e video. Quanti sono in grado di smontare le false accuse con prove incontestabili? È possibile vivere sempre col terrore di dover registrare tutto, nell’eventualità di trovarsi in tribunale a difendersi da false accuse? Nuove tendenze di Diritto Discriminatorio: ogni donna che denuncia deve essere creduta, che motivo avrebbe di mentire?
Un aumento esponenziale delle false accuse.
Sono solo gli esempi più recenti, il contatore in homepage registra oltre 200 casi comprovati di false accuse dall’inizio dell’anno ma, come invitiamo sempre a ricordare, si tratta solo della punta dell’iceberg, in quanto la maggior parte delle notizie di archiviazione, proscioglimento o assoluzione non arrivano in cronaca. Ultimo episodio è la shitstorm subita da Ilaria Perruzza, avvocato che ha la grave colpa di aver accettato come cliente un uomo accusato di violenza sessuale. «Mi hanno insultata perché facevo il mio lavoro: da avvocata assistevo un accusato di stupro». La logica perversa femminista: un avvocato donna non può difendere un tizio accusato di stupro. Inquantodonna ogni uomo è un tuo potenziale nemico e lo devi considerare tale a prescindere, ancora prima del processo, ancora prima di leggere gli atti d’accusa, ancora prima di averlo ascoltato. Senza sapere cosa sia accaduto devi rifiutare il mandato, punto. Come dire che tu, avvocato benestante, non devi difendere ladri, rapinatori e truffatori. Oppure tu, avvocato ciclista, non devi difendere automobilisti incriminati per omicidio stradale. Nuova frontiera dell’ordinamento: va a farsi fottere il diritto alla difesa costituzionalmente garantito, si passa al patrocinio fra pari. Solo chi potrebbe diventare uno stupratore può difendere gli accusati di stupro, una donna non deve farlo. Chi tocca i dogmi del femministicamente corretto si fa male
A naturale corollario dell’arroccamento sulle vittime femminili come uniche e sole riconosciute, arrivano le novelle legislative. Gli autori de “La Fionda” lo hanno scritto più volte: sarebbe limitativo pensare che dietro le quinte del femminismo totalitario ci sia solo l’avidità. Certo i fondi a pioggia fanno gola, ma l’obiettivo a lungo termine è più eversivo del riempirsi le tasche in cambio di consensi. L’obiettivo finale è il riconoscimento giuridico dello slogan believe woman. Alcune inferocite parlamentari vorrebbero che una donna debba essere creduta sulla base delle sole dichiarazioni e per il presunto stalker (sinonimo di assassino in nuce) devono subito scattare le misure cautelari. Ammonimento? È poco, non serve. Divieto di avvicinamento? È poco, può sempre eluderlo. Braccialetto elettronico? È poco, non ferma gli assassini. Arresti domiciliari? Non basta, può sempre evadere. Ci vuole proprio la detenzione in carcere, solo così può sentirsi sicura la donna che dice di essere vittima di stalking. Prima l’accusato va in galera, poi si vede se c’erano effettivamente i motivi per chiuderlo in cella. Se proprio vuole difendersi deve farlo da detenuto, poi se riesce a dimostrare che la matta di turno si è inventata tutto gli si elargisce una pacca sulla spalla e via così. Ancora peggiore è la dignità giuridica che si vuole riconoscere al believe women anche nel civile: la sola segnalazione di una donna che si dichiara vittima di violenza, senza nemmeno formalizzare le accuse in un a denuncia, basterebbe a ottenere l’affidamento esclusivo. Un emendamento (voluto dalla senatrice Valente e altre sue socie) che sembra tendere all’incremento esponenziale delle false accuse ma forse, volendo credere alla buonafede, nessuna delle firmatarie se ne era accorta.