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Dopo l’articolo fantasy-horror della giudice Paola Di Nicola, di cui abbiamo parlato ieri, non possiamo non occuparci della nuova articolessa che il nostro mito assoluto, Linda Laura Sabbadini, ha recentemente rigurgitato sulle pagine di Repubblica. Poiché la “questione femminile” (in realtà questione meramente femminista) può essere trattata soltanto con parole pacate e ponderate, eccola annunciarci i numeri “feroci” sulle donne. E già ti immagini un 10 che insegue una fanciulla terrorizzata, con l’abito tutto strappato, o un 57 che fa catcalling per la strada. Cotanto titolo serve ad annunciare la solita litania: le donne sono oppresse, sminuite, sottovalutate, non si fa abbastanza, servono «cospicui investimenti» (soldi soldi soldi), eccetera eccetera. Serve un «salto di qualità verso l’uguaglianza di genere», che nel gergo della Sabbadini e di quelle come lei significa più corsie preferenziali, più privilegi, più prebende, tutte tassativamente a danno dell’odiato maskio. Oramai queste parlano apertamente come rappresentanti lobbistiche della peggior specie, di quelle che a parole si mobilitano per un bene ampio e generale, pur mirando in realtà essenzialmente alle tasche della propria accolita di riferimento.
Ma il meglio la nostra Linda Laura Sabbadini lo dà quando snocciola cifre. Lì si toccano vertici di vero virtuosismo mistificatorio. Vale la pena, anche se è un po’ stucchevole, prendere le sue asserzioni una ad una, per smentirle nel merito e alla radice. Tacabanda: «Meno della metà delle donne lavora. Penultimi in Europa. Ultimi per il tasso di occupazione delle donne da 25 a 34 anni. Fanalino di coda dei Paesi avanzati». Notare la forma: frasi brevi e spezzate, per dare pathos e drammaticità a un fatto per forza drammatico se visto soltanto dal lato del tasso di occupazione. A guardarli tutti, però, i dati ci mostrano un’altra realtà: un vero e proprio esercito di donne (poco meno di 9 milioni, dato 2020), specie giovani, “inattive”, ovvero che, per rispettabilissimi motivi loro, non cercano e non sono interessate a cercare un lavoro. Gli uomini nelle stesse condizioni sono poco più della metà (5 milioni, dato 2020). In quel gran numero di inattive sono comprese donne che fanno una scelta di vita diversa dall’essere salariate o imprenditrici. Molte di esse optano per fornire il lavoro in casa, magari in perfetta armonia e parità con un marito che, nella “cooperativa familiare”, fornisce il capitale. Ma questo alla Sabbadini non piace: per lei, da buona femminista irrispettosa delle scelte altrui, quelle che non lavorano (e non cercano lavoro) sono donne di serie B, perché preferiscono la “schiavitù della casa” (noi la chiameremmo “dedizione alla cooperativa familiare”) alla schiavitù verso un datore di lavoro estraneo. Certo la Sabbadini dirà che uno sproposito di donne non cerca lavoro perché sa già che, inquantodonna, non lo troverà. Balle: gli uomini si trovano nella stessa condizione, ma gli inattivi sono la metà. Pressati dal ruolo sociale che grava sul loro genere, gli uomini “si sbattono”, cercano, trovano e accettano di tutto pur di portare la pagnotta a casa per sé e per la famiglia. Si tratta di dati di proporzioni poderose, che influiscono decisamente sul denominatore del rapporto che la Sabbadini prende furbescamente in considerazione come unico dato, così operando una delle tante sue proverbiali mistificazioni dall’esito scontato: piagnisteo vittimista e, perché no, richiesta di una montagna di soldi pubblici per forzare quante più donne possibile (specie quelle che non vogliono) a cercare un lavoro dipendente o a “investire su se stesse” come imprenditrici. Soldi che finiranno ad associazioni amiche per campagne di informazione che a loro volta otterranno risultati inconsistenti, tali da potersi poi lamentare ancora, ottenere altri soldi e via così in un circuito infinito.
Merito e competenza, al di là dell’appartenenza di genere.
Ma non è tutto: «Dieci punti in meno di donne laureate tra 25 e 34 anni rispetto alle europee», piagnucola poi, la nostra eroina. Una riflessione che si collega direttamente con il finale iper-retorico dell’articolo: «Il potere delle donne è la forza che sprigionano quando le donne credono in sé stesse e combattono per realizzarsi. Nello studio, nel lavoro, nella famiglia, nella vita. È la creatività e passione che mettono nelle cose che fanno, costi quel che costi. Individualmente. Collettivamente. È la forza non sfruttata del nostro Paese per rinascere. È la forza che permetterebbe al Paese di crescere in produzione e produttività». Questa prosa da Lorenzo Tosa in acido per dire che sostanzialmente la salvezza universale sta solo ed esclusivamente nelle donne. Fideismo ossessionato e fanatico che mostra tutta la sua falsità in una semplice e usuale omissione: il dato dell’abbandono scolastico/universitario da parte degli studenti di sesso maschile. Il dato italiano è spaventoso rispetto a quello europeo. Ma è sottaciuto e sottovalutato, nella sua essenza e nelle sue cause, perché gli uomini, questo è il presupposto, non sprigionano forza, non combattono per realizzarsi, non mettono creatività e passione, non sono forza non sfruttata del nostro Paese. Di fatto, per la Sabbadini e quelle come lei, gli uomini sono irrilevanti. E irrilevanti sono anche i motivi che li spingono fuori dai percorsi di istruzione e formazione, depauperando l’offerta di ingegni preziosi tanto quanto (se non più) del numero di laureate donne inferiore alla media europea. Siamo di fronte a uno standard femminista: omissione del dato penalizzante per la sfera maschile. Non menzionare un problema, specie se assai più grave di quello che colpisce le donne, significa cancellarne l’esistenza sul piano comunicativo. La Sabbadini è un’espertissima di questi trucchetti, che coniuga abilmente al proprio profondo odio verso il genere maschile.
Molto più emblematici sono i dati che la Sabbadini snocciola successivamente: «Un Paese che non ha mai avuto un Presidente del Consiglio o della Repubblica donna. Solo 11 Presidenti di Regione in 51 anni, il 5%. Un Paese in cui solo il 15% dei sindaci è donna. Dove nonostante la grande maggioranza del personale sanitario sia donna, meno del 20% dei primari lo è. E questo 20% risuona troppo spesso anche per i professori ordinari, per i consiglieri regionali». Questa è davvero la cifra esatta del femminismo suprematista che va per la maggiore. La rivendicazione all’uguaglianza è strettamente limitata a quel 5% di posti apicali dei vari settori, difficilissimi da raggiungere per chiunque a prescindere dal genere. Di contro, nessuna rivendicazione viene fatta per il restante 95% di lavori umili e talvolta addirittura di merda che stanno sotto quello sparuto numero di collocazioni d’élite. C’è una ragione precisa dietro a questo tipo di rivendicazione e la vedremo tra poco. Interessante è che si tratta in ogni caso di posizioni chiave dove a essere dirimente dovrebbe essere la competenza o la capacità innovativa. Ai ruoli politici di vertice si accede con la capacità di fare proposte innovative e convincenti, costruendo attorno a sé una solida credibilità personale. Non esistono divieti od ostacoli per la carriera politica femminile che non valgano anche per quella maschile, semplicemente le donne risultano avere minore appeal elettorale: un aspetto su cui le donne dovrebbero riflettere e lavorare, ma il discorso della Sabbadini nasconde un’insidia nemmeno troppo velata, ossia l’accesso agli apici per “quote”. Metà sindaci, presidenti di regione o cariche istituzionali per il solo fatto di possedere un utero e non per altro. Aberrazione assoluta. Ancora più vera per professioni come i dirigenti scolastici o i primari, che in più hanno responsabilità colossali (la formazione delle generazioni future e la salute o la vita delle persone), dove i criteri non possono che essere il merito e la competenza, severissimamente selezionate su base oggettiva e non certo riducibili a un fatto di genere.
Tragicomiche disonestà intellettuali.
Si associa a tutto questo l’usuale piagnisteo sui “ruoli di cura” svolti praticamente solo dalle donne, con una riga derisoria verso chi gioisce per il recente microscopico incremento dei giorni di congedo di paternità. Parte allora la tiritera sulla necessità di più asili, più assistenza pubblica, in modo da sollevare il carico sulle donne e permettere loro, finalmente, di andarsi a porre al servizio di un datore di lavoro. C’è una visione allucinata della realtà dietro questi concetti. C’è uno stereotipo di famiglia e di ruoli di genere superata da decenni: i ruoli di cura ormai sono equamente spartiti nelle coppie dove uomini e donne, nel mondo fluido, flessibile e mobile di oggi, lottano insieme coi denti per tirare avanti e dare un futuro ai figli. L’immagine dell’uomo che sta 14 ore al lavoro e fa carriera lasciando il gravame domestico alla donna è roba ormai per qualche privilegiato, tanto raro da poter essere tutelato dal WWF. Ma alla sorellanza femminista piace dire che è una realtà fattuale per tutti, e invece di auspicare una reale parità nei congedi parentali, in modo da compartire in modo bilanciato i carichi di una nascita e da assecondare le pulsioni accudenti che gli uomini hanno sviluppato ormai da decenni, oltre al desiderio femminile (per chi ce l’ha) di fare carriera, stronzeggia deridendo l’esultanza dei padri all’aumento dei giorni di congedo di paternità. C’è una volgare misandria dietro questo atteggiamento, oltre che una totale assenza di consapevolezza sociale. La Sabbadini e quelle come lei sono rimaste (o fingono di essere rimaste, per convenienza ideologica) su posizioni da Partito Comunista dell’Emilia Romagna degli anni ’70, con i suoi auspici per più asili, secondo l’aberrante logica che i figli sono anzitutto dello Stato e solo in seconda battuta dei genitori. Nelle sue parole c’è il disegno di una società distopica che, grazie alla visibilità che hanno personaggi del genere, sta arrivando al galoppo a distruggere la già comatosa realtà sociale collettiva.
C’è, in tutta questa discarica di falsità statistiche e idologiche, un punto fondamentale, quello dove si raccoglie tutto il percolato maleodorante, ben rappresentato dalla parola che la Sabbadini nel suo articolo ripete più volte, con un’ossessività davvero emblematica: potere. Parola ripetuta ben cinque volte in quattro paragrafi. Lì si condensa tutta intera la natura del femminismo, dalla sua fondazione ad oggi. Ma non si tratta di un potere meritato e conquistato, bensì riconosciuto per “diritto di genere” e sempre in contenzioso con il lato maschile. L’immagine di un femminismo che “lotta per la parità” appare così per quella che è, una foglia di fico per coprire le brutture, ossia i veri scopi e la vera natura di quell’ideologia distruttiva: una corsa al potere, da ottenere senza lotta e senza impegno alcuno, semplicemente strappandolo, tramite piagnisteo e sensi di colpa annessi, a chi lo detiene per averlo conquistato e sudato. Niente di più e niente di meno. Questo è il #MeToo, questo sono le quote rosa auspicate implicitamente da cloache concettuali come quella che qui abbiamo commentato: non l’esortazione a creare ed esercitare un potere originalmente femminile, ma una “guerra al maskio oppressore”, condotta accusandolo di ingiustizie di cui non è colpevole e chiedendo conseguentemente un risarcimento. Si dice che il pianto femminile si attesti su frequenze sonore che attivano nell’uomo l’istinto al cedimento, al soccorso e al sacrificio. Soggetti come la Sabbadini, la Di Nicola o come la Bernardini De Pace (di cui parleremo domani) hanno portato questo aspetto alla sublimazione: piangono a comando per ferite inesistenti, tentando di indurre al soccorso e al sacrificio tutta intera un’opinione pubblica. Il tutto senza accorgersi che il pianto è troppo insistente e ossessivo, da troppo tempo ricorre con tematiche sempre più lise e sfilacciate. Loro non lo sanno o non vogliono ammetterlo a se stesse, ma la cerchia di chi ci casca è sempre più ristretta, ormai il loro è un mero parlarsi addosso e reclamare attenzioni dagli amichetti e amichette nelle alte sfere. Che però col tempo cambiano. E non è lontano il momento in cui disonestà intellettuali come l’articolo che abbiamo commentato verranno annoverate tra le più tragicomiche vergogne di questa era.