La Fionda

Aborto in Texas: uno scontro di eccessi

Fa discutere la decisione presa dalla Corte Suprema USA di non bloccare, per motivi procedurali e non di merito, la super-restrittiva legge texana sull’aborto. Si tratta di una decisione assunta con una maggioranza risicata (5 giudici contro 4) e che subito ha suscitato, oltreoceano ma anche da noi, una discussione furiosa sull’intramontabile e controverso tema dell’interruzione di gravidanza. Ma anzitutto, cosa stabilisce la legge texana? In sostanza vieta l’aborto qualora dagli esami medici possa essere rilevato il battito cardiaco del feto. Un divieto che può essere superato soltanto dalla presenza di un’emergenza medica documentata per iscritto da un medico. Altri mezzi per superare il divieto non ce ne sono, quindi non si può abortire nemmeno per una gravidanza risultato di un incesto o di uno stupro. Non solo: chiunque favorisca in qualche modo un’interruzione di gravidanza, rischia di passare grossi guai (si immagini un tassista che accompagna una donna ad abortire) e ogni cittadino ha il diritto/dovere di denunciare chi agevola un aborto, con la possibilità di essere premiato per la “soffiata” con la bella cifra di 10 mila dollari.

Entrata in vigore da poco, la normativa ha suscitato comprensibilmente la sollevazione di tutto il mondo progressista americano, dal Partito Democratico, con il Presidente Biden in testa, più svariate onlus per i diritti delle donne e, naturalmente, la fiorente industria abortiva sanitaria privata, guidata negli USA dalla molto discussa “Planned Parenthood”. Tutti si dicono sconvolti oggi dalla decisione della Corte Suprema, accusata di atteggiamento pilatesco, avendo respinto il ricorso per motivi procedurali e senza entrare nel merito. I giudici si giustificano sostenendo che la loro sentenza non impedisce ulteriori ricorsi, se impostati in modo corretto, ma questo non spegne l’incendio e  non limita le contestazioni di chi difende le statuizioni della sentenza precedente della Corte Suprema, la cosiddetta “Roe contro Vade”, che ha disciplinato la pratica abortiva negli USA fin dal 1973. Da tale sentenza deriva la piena libertà di accesso all’aborto da parte di ogni donna entro la 24esima o 28esima settimana di gestazione, range entro il quale il feto può vivere fuori dall’utero materno, anche con l’aiuto di supporti artificiali. Il limite stabilito è superabile se è in pericolo la vita della donna.

pro aborto USA

A esacerbare i toni poi ci sono anche i media.

È evidente che le due posizioni, quella texana e quella federale, sono agli antipodi, ed è indubbio che la prima rappresenti un eccesso inaccettabile, frutto più di un posizionamento ideologico che di una reale ispirazione di tutela della vita del nascituro e della donna che lo porta in grembo. Tutto si riduce al punto centrale del battito cardiaco del feto: sul fatto che esso sia indicatore di vita è questione ancora controversa dal lato scientifico, ed è su questa incertezza che lo “Heartbeat Act” texano fa leva. Tuttavia è ampiamente inaccettabile che siano escluse, tra le cause di aborto, fattispecie come lo stupro e l’incesto e ancor più il meccanismo delatorio a pagamento, che va oltre ai limiti della decenza e dell’etica giuridica. Si tratta di eccessi frutto dell’azione dell’ala più estrema dei supporter trumpiani, solidamente determinati a smantellare le roccaforti ideologiche “liberal” e democratiche, a partire proprio dalla disciplina derivata dalla sentenza “Roe contro Vade”. Leggi che nascono per scopi di lotta ideologica e politica non portano mai benefici, e la legge del Texas sull’aborto ne è una prova. Ma non è l’unica, esistono anche esempi dall’altra parte.

Qualcuno ricorderà le disposizioni di Andrew Cuomo per la regolamentazione dell’aborto nello stato di New York. Fu lui a far approvare il “Reproductive Health Act”, che consente l’aborto oltre la 24esima settimana non più solo se la gravidanza mette a rischio la vita della madre, ma anche se mette a rischio la sua salute, sulla base di un certificato medico. La legge era ambigua su questo, non specificava se nei motivi di salute erano compresi quelli psicologici, cosa che avrebbe reso possibile l’interruzione di gravidanza per qualsivoglia motivo, compreso il capriccio, anche poco prima del parto. Insomma che la legge del Texas appare come una risposta estremista repubblicana a un’estremizzazione democratica realizzata nello stato di New York, in una specie di distruttiva guerra interna sulla pelle di madri e nascituri. A fare da contorno e a esacerbare gli animi su questi temi, poi, ci sono anche i media: scatenati nell’additare al pubblico ludibrio l’eccessiva normativa texana, tanto quanto silenti o blandamente favorevoli all’altrettanto eccessiva legge di Andrew Cuomo (a lungo ansioso di compiacere l’estremismo femminista e di recente, buffo contrappasso, finito stritolato dalla trappola mortale del #MeToo).

contenitore criogenico ovuli

L’aborto come mero privilegio sociopolitico femminile.

Con tutto ciò restano intoccate, ad ogni latitudine, le due maggiori ambiguità delle leggi sull’aborto. La prima riguarda le motivazioni per attuare una prassi così invasiva e traumatica. Ovunque l’interruzione di gravidanza è considerata, prima ancora che “un diritto delle donne”, un intervento chirurgico di natura terapeutica. Quando la vita della madre è in pericolo e non ci sono altre alternative, per quanto doloroso, l’aborto è una soluzione che non può e non deve essere negata. Ai motivi terapeutici si aggiungono indubbie, sebbene minoritarie (per fortuna) casistiche di tipo etico: è semplicemente mostruoso pensare di negare l’aborto a una donna rimasta incinta a seguito di uno stupro o di un incesto, e infatti in questi casi è ammesso un po’ ovunque. Tutto si problematizza quando, come nel caso della legge di Cuomo, si innestano ragioni impalpabili, soggettive, arbitrarie. Esse, sotto la mai certa specie delle problematiche psicologiche, permettono oggi a una donna dello Stato di New York di uccidere il proprio figlio anche al nono mese di gravidanza. In Italia è lo stesso, sebbene con il limite dei 90 giorni di gestazione. Da noi (Legge 194/1978) può accedere all’interruzione volontaria di gravidanza la donna «che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica». In quel “o psichica” stanno tutti gli aborti discutibili nel nostro paese, evitabili con un po’ di banale profilassi o con altre scelte. Lì sta il potere assoluto di vita e di morte sui nascituri conferito per legge alle donne.

Alle donne e solo a loro. Ed è questa la seconda grande anomalia. La vita che cresce nel ventre materno c’è perché è intervenuto un uomo. Chiunque egli sia, in nessun caso è previsto che egli abbia voce in capitolo sul destino di quella vita. Non contribuisce alla scelta se eliminarla tramite aborto o se lasciarla vivere, con le conseguenti responsabilità: tutto è in capo alla donna. Non solo: se l’uomo nega di essere il padre, è forzato al test del DNA, mentre nessun test similare viene fatto al bambino alla nascita per avere la certezza della paternità (e il fenomeno della frode di paternità è diffusissimo). Questa discriminazione intollerabile avviene per una sola ragione: my body, my choice, il corpo è mio e decido io. Trovandosi il feto dentro il corpo della donna, è lei a deciderne il destino. Come se il corpo del nascituro non avesse alcuna dignità. Qualcuno ha provato ad opporre la logica alternativa: his body, parents’ choice, cioè il corpo è suo (del bambino), e a decidere, dato che lui non può, sono i suoi genitori assieme, ma è una proposta da sempre recisamente respinta. Sotto l’egida delle femministe, il privilegio di poter decidere della vita o della morte di qualcuno alla cui creazione anche un uomo ha partecipato non può e non deve essere messo in discussione. Ma è un principio di cartapesta ormai, reso paradossale, almeno in Italia, da una recente incredibile sentenza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere: una coppia aveva fatto congelare gli ovuli di lei fecondati dal seme di lui, poi si separano ma lei decide di farseli impiantare comunque. Lui si oppone, ovviamente, ma il giudice dà comunque il via libera alla donna. Il cui primato dunque non ha nulla a che fare con il coinvolgimento del suo corpo, ma con un mero privilegio sociopolitico che le viene concesso per legge, a detrimento di qualunque minimo diritto in capo all’uomo-padre.



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